,domanda,risposta,type,id,image_file_names,test_id,json_id,image_dir,is_abcd,testo,anno,tipo 0,"A12. Agata è un personaggio che, anche se non agisce direttamente, ha un ruolo importante nello sviluppo dell’intero racconto. Perché è importante il suo ruolo? Agata è importante perché b) è l’elemento che dà inizio alla scena del lago Si NO",si,binary,39.0,['item_39_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,binaria 1,"A12. Agata è un personaggio che, anche se non agisce direttamente, ha un ruolo importante nello sviluppo dell’intero racconto. Perché è importante il suo ruolo? Agata è importante perché c) è il personaggio che fa emergere la diffidenza degli adulti nei confronti degli animali Si NO",si,binary,39.0,['item_39_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,binaria 2,"A13. Questo testo, per come è scritto, presenta caratteristiche particolari. Indica quali sono caratteristiche di questo testo e quali no. Metti una crocetta per ogni riga. a) La narrazione viene interrotta da ricordi di fatti accaduti molto tempo prima SI NO b) In più punti del testo le situazioni descritte sono buffe SI NO c) Il racconto sviluppa due storie: una realistica e una fantastica SI NO d) I dialoghi tra i personaggi non sono segnalati dalla punteggiatura tipica del discorso diretto SI NO",no,binary,40.0,['item_40_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,binaria 3,"B6. Nel secondo paragrafo si afferma che “a volte, è veramente difficile non cascarci”. In base al testo e agli esempi che riporta, indica che cosa rende convincenti le false notizie diffuse il 1° di aprile. a) Il fatto che riguardino gli ambiti più vari dove non te le aspetti Rende convincenti - Non rende convincenti",rende convincenti,binary,46.0,['item_46_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,binaria 4,"B6. Nel secondo paragrafo si afferma che “a volte, è veramente difficile non cascarci”. In base al testo e agli esempi che riporta, indica che cosa rende convincenti le false notizie diffuse il 1° di aprile. b) Il fatto che siano divertenti Rende convincenti - Non rende convincenti",non rende convincenti,binary,46.0,['item_46_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,binaria 5,"B6. Nel secondo paragrafo si afferma che “a volte, è veramente difficile non cascarci”. In base al testo e agli esempi che riporta, indica che cosa rende convincenti le false notizie diffuse il 1° di aprile. c) Il fatto che siano date da fonti che normalmente dicono cose vere Rende convincenti - Non rende convincenti",rende convincenti,binary,46.0,['item_46_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,binaria 6,"A5. Dopo aver letto la prima parte del testo (da riga 1 a riga 14) puoi anticipare che il protagonista aveva paura di essere punito per qualcosa che aveva fatto. Quali indizi nella prima parte del testo autorizzano a ipotizzarlo? Autorizza cioè ti porta a pensare che avesse paura di essere punito NON Autorizza cioè non ti porta a pensare che avesse paura di essere punito a) Fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta",Autorizza,binary,160.0,['item_160_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,binaria 7,"A5. Dopo aver letto la prima parte del testo (da riga 1 a riga 14) puoi anticipare che il protagonista aveva paura di essere punito per qualcosa che aveva fatto. Quali indizi nella prima parte del testo autorizzano a ipotizzarlo? Autorizza cioè ti porta a pensare che avesse paura di essere punito NON Autorizza cioè non ti porta a pensare che avesse paura di essere punito b) Il protagonista racconta a Francesco quello che è successo con Paolino (riga 12)",Non fa capire,binary,166.0,['item_166_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,binaria 8,"D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro ""L'anello di re Salomone"". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. a) e irritato da coloro che scrivono di animali pur non conoscendoli",sì,binary,217.0,['item_217_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,binaria 9,"D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro ""L'anello di re Salomone"". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. b) è preoccupato per ciò che i giovani potrebbero imparare leggendo storie di animali senza fondamento",sì,binary,217.0,['item_217_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,binaria 10,"D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro ""L'anello di re Salomone"". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. c) è convinto che dedicare tutta la vita allo studio degli animali sia poco utile",no,binary,217.0,['item_217_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,binaria 11,"D4. \L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro ""L'anello di re Salomone"". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. d) è stato ispirato dai versi di Peter Rosseger che parlano di animali",no,binary,217.0,['item_217_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,binaria 12,"D4. L'autore espone alcuni motivi che lo hanno spinto a scrivere il libro ""L'anello di re Salomone"". ndica se i motivi elencati corrispondono o no al suo pensiero. e) è spinto da profondo amore e rispetto nei confronti degli animali che studia",sì,binary,217.0,['item_217_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,binaria 13,"A4. Andromaca ""sorrideva e piangeva"" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? a) Per il presagio della vittoria dei Greci",pianto,binary,233.0,['item_233_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 14,"A4. Andromaca ""sorrideva e piangeva"" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? b) Per la tenera s cena tra padre e figlio",sorriso,binary,233.0,['item_233_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 15,"A4. Andromaca ""sorrideva e piangeva"" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? c) Per l’orgoglio di essere regina",non pertinente,binary,233.0,['item_233_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 16,"A4. Andromaca ""sorrideva e piangeva"" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? d) Per il timore dell’uccisione di Ettore ",pianto,binary,233.0,['item_233_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 17,"A4. Andromaca ""sorrideva e piangeva"" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? e) Per la fierezza suscitata dalle parole di Ettore per il figlio",sorriso,binary,233.0,['item_233_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 18,"A4. Andromaca ""sorrideva e piangeva"" nello stesso tempo (espressione evidenziata nel testo), agitata da sentimenti contrastanti. Quali motivazioni, tra quelle indicate, possono spiegare rispettivamente i due comportamenti di Andromaca? f) Per l’essere messa in disparte in quanto donna",non pertinente,binary,233.0,['item_233_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 19,"A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. a) Il racconto è svolto attraverso il discorso indiretto",no,binary,236.0,['item_236_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 20,"A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. b) Nel testo sono frequenti i dialoghi",sì,binary,236.0,['item_236_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 21,"A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. c) La narrazione è destinata alla lettura teatrale",sì,binary,236.0,['item_236_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 22,"A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. d) Il racconto è condotto con un tono distaccato e impersonale",no,binary,236.0,['item_236_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 23,"A7. Individua le caratteristiche della narrazione presenti in questo testo. e) Ettore manifesta il suo stato d’animo attraverso un monologo",sì,binary,236.0,['item_236_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,binaria 24,"B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. a) “Archiviare” significa mettere da parte alcune informazioni per liberare memoria",falso,binary,240.0,['item_240_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 25,"B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. b) Chi si occupa di archivi usa strumenti antiquati",falso,binary,240.0,['item_240_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 26,"B4, Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. c) Il lavoro degli archivisti è messo in difficoltà dagli scarsi finanziamenti",vero,binary,240.0,['item_240_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 27,"B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. d) Ciò che è custodito negli archivi non può essere toccato",falso,binary,240.0,['item_240_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 28,"B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. e) Gli archivi conservano la memoria storica di un paese",vero,binary,240.0,['item_240_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 29,"B4. Il testo richiama alcuni luoghi comuni sugli archivi e sulle persone che vi lavorano. Indica quali affermazioni, secondo la prospettiva dell'articolo, sono vere e quali false. f) Gli archivi digitali non sono come gli archivi tradizionali ma sono da trattare con cura speciale e attenzione",vero,binary,240.0,['item_240_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 30,"B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? a) Il disinteresse generale per qualcosa che non è ritenuto utile",mette a rischio,binary,242.0,['item_242_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 31,"B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? b) La diffusione dei computer e di altri strumentiinformatici",non mette a rischio,binary,242.0,['item_242_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 32,"B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? c) L’età avanzata della maggior parte degli archivisti",mette a rischio,binary,242.0,['item_242_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 33,"B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? d) L’attività di esperti che lavorano all’estero",non mette a rischio,binary,242.0,['item_242_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 34,"B6. Quali sono, secondo l'articolo, i fattori che mettono a rischio l'esistenza degli archivi in Italia? e) Pensare che “Archiviare è uguale a dimenticare”",mette a rischio,binary,242.0,['item_242_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,binaria 35,"A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di a) sottolineare la sua fragilità fisica e emotiva - sì/no",Sì,binary,253.0,['item_253_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 36,"A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di b) sottolineare l’eleganza dell’abbigliamento - sì/no",No,binary,253.0,['item_253_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 37,"A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di c) accentuare il contrasto fra la sua ingenua incoscienza e la consapevolezza della madre - sì/no",Sì,binary,253.0,['item_253_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 38,"A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di d) accentuare il contrasto fra la dimensione fiabesca e giocosa dell’infanzia e quella crudele della guerra - sì/no",Sì,binary,253.0,['item_253_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 39,"A1. Nel testo il personaggio della sorella minore è presentato attraverso l’uso di diminutivi e vezzeggiativi (evidenziati nel testo). Questa scelta stilistica ha l’effetto di e) accentuare il contrasto fra la sua dolcezza e la durezza della madre - sì/no",No,binary,253.0,['item_253_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 40,"A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con a) prudente – corretta/errata",Corretta,binary,254.0,['item_254_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 41,"A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con b) diffidente – corretta/errata",Corretta,binary,254.0,['item_254_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 42,"A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con c) riflessivo– corretta/errata",Errata,binary,254.0,['item_254_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 43,"A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con d) attento– corretta/errata",Corretta,binary,254.0,['item_254_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 44,"A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con e) avveduto– corretta/errata",Errata,binary,254.0,['item_254_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 45,"A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con f) vigile– corretta/errata",Corretta,binary,254.0,['item_254_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 46,"A2. La parola “guardingo”, evidenziata nel testo, può essere sostituita in questo contesto con g) girovago– corretta/errata",Errata,binary,254.0,['item_254_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,binaria 47,"D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: a) lo(1) – richiama l’adulto/richiama il bambino",Richiama l’adulto,binary,262.0,['item_262_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 48,"D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: b) sua(2) – richiama l’adulto/richiama il bambino",Richiama l’adulto,binary,262.0,['item_262_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 49,"D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: c) lo(3) – richiama l’adulto/richiama il bambino",Richiama l’adulto,binary,262.0,['item_262_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 50,"D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: d) lui(4) – richiama l’adulto/richiama il bambino",Richiama il bambino,binary,262.0,['item_262_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 51,"D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: e) gli(5) – richiama l’adulto/richiama il bambino",Richiama l’adulto,binary,262.0,['item_262_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 52,"D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: f) –ne(6) (occuparsene) – richiama l’adulto/richiama il bambino",Richiama il bambino,binary,262.0,['item_262_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 53,"D1. Nel descrivere i rapporti tra adulto e bambino, vengono utilizzati aggettivi possessivi e pronomi personali che fanno da riprese anaforiche, richiamando ora l’uno a ora l’altro dei due protagonisti. Indica per i seguenti pronomi se indicano l'adulto o il bambino: g) –lo(7) (ignorarlo) – richiama l’adulto/richiama il bambino",Richiama il bambino,binary,262.0,['item_262_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 54,"D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. a) …. del camminare, con l’aumento ….",Apre o chiude un inciso,binary,264.0,['item_264_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 55,"D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. b) …. più autonomo, cosa insieme ….",Apre o chiude un inciso,binary,264.0,['item_264_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 56,"D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. c) …. sua vita, lo costringerà ….",Separa frasi,binary,264.0,['item_264_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 57,"D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. d) …. rapporto, diventato ….",Apre o chiude un inciso,binary,264.0,['item_264_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 58,"D3. Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. e) …. suo lettino, nel recinto ….",Separa gli elementi di un elenco,binary,264.0,['item_264_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 59,"D3. \Le virgole sono adoperate nel brano con varie funzioni. indica per ciascuna delle seguenti sequenze la funzione svolta dalla virgola. f) …. ogni cosa, che ha una mobilità ….",Separa frasi,binary,264.0,['item_264_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,binaria 60,"A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. a) Casa – sì/no",SÌ,binary,265.0,['item_265_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 61,"A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. b) Bambini – sì/no",NO,binary,265.0,['item_265_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 62,"A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. c) Sole – sì/no",SÌ,binary,265.0,['item_265_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 63,"A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. d) Fienile – sì/no",SÌ,binary,265.0,['item_265_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 64,"A1. Dopo aver letto queste prime righe, immagina di dover disegnare la scena iniziale del racconto. Indica quali dei seguenti elementi servono per disegnare questa scena scrivendo si o no per ognuno. e) Pozzo – sì/no",SÌ,binary,265.0,['item_265_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 65,"A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. a) Si dice come è il gatto – sì/no",SÌ,binary,266.0,['item_266_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 66,"A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. b) Si dice chi è il gatto – sì/no",No,binary,266.0,['item_266_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 67,"A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. c) Si dice dove si trova il gatto – sì/no",Sì,binary,266.0,['item_266_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 68,"A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. d) da quanto tempo il gatto è lì – sì/no",No,binary,266.0,['item_266_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 69,"A2. Che cosa si dice del gatto nelle prime righe del racconto? Indica se ognuna delle seguenti affermazioni è stata menzionata indicando si o no. e) che cosa sta facendo il gatto – sì/no",Sì,binary,266.0,['item_266_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 70,"A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? a) Il gatto si trova più in basso del topo – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano",Va bene,binary,269.0,['item_269_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 71,"A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? b) Il topo sa far scendere la corda facendola dondolare poco poco – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano",Va bene,binary,269.0,['item_269_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 72,"A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? c) Il gatto sta dormendo – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano",Va bene,binary,269.0,['item_269_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 73,"A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? d) I baffi del gatto sono quasi invisibili – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano",Non va bene,binary,269.0,['item_269_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 74,"A5. All’inizio del racconto il topo ha un piano. Che cosa va bene per il suo piano, cioè è un vantaggio, e che cosa non va bene, cioè è uno svantaggio? e) Il gatto si accorge sfiora i suoi baffi – Va bene per il suo piano/ Non va bene per il suo piano",Non va bene,binary,269.0,['item_269_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 75,"A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. a) Un gatto – è un personaggio/ non è un personaggio",È un personaggio,binary,278.0,['item_278_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 76,"A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. b) Una farfalla – è un personaggio/ non è un personaggio",Non è un personaggio,binary,278.0,['item_278_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 77,"A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. c) Un topo – è un personaggio/ non è un personaggio",È un personaggio,binary,278.0,['item_278_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 78,"A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. d) Un giocoliere – è un personaggio/ non è un personaggio",Non è un personaggio,binary,278.0,['item_278_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 79,"A14. In questo racconto quali sono i personaggi? Per ognuno dei personaggi seguenti indica se è o no un personaggio. e) Una massaia – è un personaggio/ non è un personaggio",È un personaggio,binary,278.0,['item_278_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,binaria 80,"A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. a) Non vuole far sapere a nessuno dei suoi trucchi. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto",È in segreto che vuole esercitarsi,binary,286.0,['item_286_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 81,"A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. b) Il vecchio cinese lo ha aiutato fin dall’inizio. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto",È dal cinese che vuole esercitarsi,binary,286.0,['item_286_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 82,"A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. c) Vuole farcela da solo. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto",Vuole esercitarsi,binary,286.0,['item_286_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 83,"A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. d) Vuole imparare a suonare. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto",Vuole esercitarsi,binary,286.0,['item_286_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 84,"A5. “- Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto?” (riga 67). Da questa frase si capisce che Alessandro ha tre esigenze: A. vuole esercitarsi a suonare B. vuole esercitarsi dal vecchio cinese C. vuole esercitarsi in segreto. Indica quali ragioni spiegano il perché di ciascuna esigenza. e) Si fida del vecchio cinese. È UNA RAGIONE PER CUI… - vuole esercitarsi / è dal cinese / è in segreto",È dal cinese che vuole esercitarsi,binary,286.0,['item_286_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 85,"A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? a) la ragione per cui il violino stride (riga 2) – aiuta a capire/non aiuta a capire",Aiuta a capire,binary,289.0,['item_289_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 86,"A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? b) la ragione per cui Alessandro si lamenta e dice “è un tormento” (riga 3) – aiuta a capire/non aiuta a capire",Aiuta a capire,binary,289.0,['item_289_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 87,"A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? c) la ragione per cui il venditore si stropiccia le mani (riga 8) – aiuta a capire/non aiuta a capire",Non aiuta a capire,binary,289.0,['item_289_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 88,"A8. “Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note” (riga 1). La frase “addirittura confondeva le note” aiuta a capire la ragione di alcune cose che vengono raccontate nel paragrafo 1 del testo. Quali? d) la ragione per cui il venditore non fa che ridere con aria beffarda (riga 8) – aiuta a capire/non aiuta a capire",Non aiuta a capire,binary,289.0,['item_289_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 89,"A13. Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. a) Alessandro riuscì a suonare il pezzo senza errori - serve per capire/ non serve per capire",Serve,binary,294.0,['item_294_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 90,"A13, Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. b) Alessandro era contento - serve per capire/ non serve",Non serve,binary,294.0,['item_294_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 91,"A13. Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. c) Il vecchio ... si riprese i famosi occhiali - serve per capire/ non serve",Non serve,binary,294.0,['item_294_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 92,"A13. Alla fine della parte di testo nel riquadro, Alessandro chiede: “Ma allora …? Che significa tutto questo?”. Quali informazioni di questa parte ti servono per capire a che cosa si riferisce “tutto questo”? Per ciascuno dei seguenti fatti indica se serve per capire oppure no. d) Il vecchio passò le dita nei fiori: erano occhiali senza lenti - serve per capire/ non serve",Serve,binary,294.0,['item_294_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 93,"A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: a) La fiducia negli occhiali musicali -Ha contribuito/ non ha contribuito",Ha contribuito,binary,297.0,['item_297_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 94,"A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: b) Il mettersi a letto e fingersi ammalato -Ha contribuito/ non ha contribuito",Non ha contribuito,binary,297.0,['item_297_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 95,"A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: c) L'esercitarsi ogni giorno di nascosto con il violino - Ha contribuito/ non ha contribuito",Ha contribuito,binary,297.0,['item_297_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 96,"A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: d) Il continuare a esclamare ""è un tormento"" - Ha contribuito/ non ha contribuito",Non ha contribuito,binary,297.0,['item_297_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 97,"A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: e) Il suonare pezzi sempre più impegnativi -Ha contribuito/ non ha contribuito",Ha contribuito,binary,297.0,['item_297_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 98,"A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: f) Il disastro causato dalla mamma -Ha contribuito/ non ha contribuito",Ha contribuito,binary,297.0,['item_297_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 99,"A16. In questo testo si racconta come cambiano nel tempo il rapporto del protagonista con la musica e la sua capacità di suonare. A questo cambiamento hanno contribuito vari fattori. Indica quali tra quelli elencati sotto. Per ognuno dei seguenti fattori indica se ha contribuito oppure no: g) La commozione finale -Ha contribuito/ non ha contribuito",Non ha contribuito,binary,297.0,['item_297_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,binaria 100,"F3. Per ognuna delle seguenti frasi indica se il verbo è alla forma attiva o passiva A. I miei genitori vanno spesso alla fiera del libro",Forma attiva,binary,423.0,['item_423_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 101,"F3. Per ognuna delle seguenti frasi indica se il verbo è alla forma attiva o passiva B. Mio fratello è convocato spesso per le partite in trasferta",Forma passiva,binary,423.0,['item_423_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 102,"F3. Per ognuna delle seguenti frasi indica se il verbo è alla forma attiva o passiva C. Questi moduli vanno spediti entro la fine del mese",Forma passiva,binary,423.0,['item_423_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 103,"F3. Per ognuna delle seguenti frasi indica se il verbo è alla forma attiva o passiva D. Dalle Olimpiadi di italiano vengono esclusi gli alunni con voto inferiore a sei",Forma passiva,binary,423.0,['item_423_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 104,"F3. Per ognuna delle seguenti frasi indica se il verbo è alla forma attiva o passiva E. Luigi è salito sul treno all'ultimo momento",Forma attiva,binary,423.0,['item_423_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 105,"F3. Per ognuna delle seguenti frasi indica se il verbo è alla forma attiva o passiva F. Oggi pomeriggio vengono a trovarmi degli amici messicani",Forma attiva,binary,423.0,['item_423_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 106,"A3. Quali tra le seguenti affermazioni sono coerenti con quanto si sostiene nel testo? a) Il ""senso comune"" è ciò che ci fa sembrare banali e ingenui nella comunicazione ",Non coerente,binary,430.0,['item_430_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,binaria 107,"A3. Quali tra le seguenti affermazioni sono coerenti con quanto si sostiene nel testo? b) Il contesto della comunicazione tra le persone è decisivo nel favorire usi diversi delle parole",Coerente,binary,430.0,['item_430_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,binaria 108,"A3. Quali tra le seguenti affermazioni sono coerenti con quanto si sostiene nel testo? c) Ciascuno deve mantenere il proprio modo e stile di parlare senza tener conto dell'interlocutore ",Non coerente,binary,430.0,['item_430_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,binaria 109,"A3. Quali tra le seguenti affermazioni sono coerenti con quanto si sostiene nel testo? d) Gli scambi comunicativi dipendono anche dal ruolo e dalle intenzioni comunicative di ognuno",Coerente,binary,430.0,['item_430_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,binaria 110,"E3. Nei periodi che seguono il se introduce o una frase ipotetica o una frase interrogativa indiretta. Indica la funzione sintattica del se in ciascun periodo. a) Non mi hanno ancora detto se vengono a cena",Interrogativa indiretta,binary,469.0,['item_469_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 111,"E3. Nei periodi che seguono il se introduce o una frase ipotetica o una frase interrogativa indiretta. Indica la funzione sintattica del se in ciascun periodo. b) Se mi chiedessero la strada per il Duomo non saprei rispondere",Ipotetica,binary,469.0,['item_469_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 112,"E3. Nei periodi che seguono il se introduce o una frase ipotetica o una frase interrogativa indiretta. Indica la funzione sintattica del se in ciascun periodo. c) Vogliono partire oggi, ma se non si sbrigano…",Ipotetica,binary,469.0,['item_469_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 113,"E3. Nei periodi che seguono il se introduce o una frase ipotetica o una frase interrogativa indiretta. Indica la funzione sintattica del se in ciascun periodo. d) Volevo sapere se avesse fame o sete, ma non capivo la sua lingua",Interrogativa indiretta,binary,469.0,['item_469_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 114,"E3. Nei periodi che seguono il se introduce o una frase ipotetica o una frase interrogativa indiretta. Indica la funzione sintattica del se in ciascun periodo. e) Possiamo parlare con calma se vieni a casa mia verso le otto",Ipotetica,binary,469.0,['item_469_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 115,"E3. Nei periodi che seguono il se introduce o una frase ipotetica o una frase interrogativa indiretta. Indica la funzione sintattica del se in ciascun periodo. f) Gli chiese se per caso avesse sentito suonare il campanello",Interrogativa indiretta,binary,469.0,['item_469_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 116,"C1. Il testo che segue è stato scritto senza accenti e senza apostrofi. “Quel ragazzo non sta mai fermo, si muove un po troppo, corre su e giu, di qua e di la; non da mai segni di stanchezza…” Per ognuna delle parole riportate di seguito Indica se, nel testo che hai letto, queste parole andavano scritte con l’accento, con l’apostrofo, oppure senza alcun segno grafico. a) sta",Né accento né apostrofo,binary,525.0,['item_525_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 117,"C1. Il testo che segue è stato scritto senza accenti e senza apostrofi. “Quel ragazzo non sta mai fermo, si muove un po troppo, corre su e giu, di qua e di la; non da mai segni di stanchezza…” Per ognuna delle parole riportate di seguito Indica se, nel testo che hai letto, queste parole andavano scritte con l’accento, con l’apostrofo, oppure senza alcun segno grafico. b) po",Apostrofo,binary,525.0,['item_525_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 118,"C1. Il testo che segue è stato scritto senza accenti e senza apostrofi. “Quel ragazzo non sta mai fermo, si muove un po troppo, corre su e giu, di qua e di la; non da mai segni di stanchezza…” Per ognuna delle parole riportate di seguito Indica se, nel testo che hai letto, queste parole andavano scritte con l’accento, con l’apostrofo, oppure senza alcun segno grafico. c) su",Né accento né apostrofo,binary,525.0,['item_525_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 119,"C1. Il testo che segue è stato scritto senza accenti e senza apostrofi. “Quel ragazzo non sta mai fermo, si muove un po troppo, corre su e giu, di qua e di la; non da mai segni di stanchezza…” Per ognuna delle parole riportate di seguito Indica se, nel testo che hai letto, queste parole andavano scritte con l’accento, con l’apostrofo, oppure senza alcun segno grafico. d) giu ",Accento,binary,525.0,['item_525_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 120,"C1. Il testo che segue è stato scritto senza accenti e senza apostrofi. “Quel ragazzo non sta mai fermo, si muove un po troppo, corre su e giu, di qua e di la; non da mai segni di stanchezza…” Per ognuna delle parole riportate di seguito Indica se, nel testo che hai letto, queste parole andavano scritte con l’accento, con l’apostrofo, oppure senza alcun segno grafico. e) qua",Né accento né apostrofo ,binary,525.0,['item_525_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 121,"C1. Il testo che segue è stato scritto senza accenti e senza apostrofi. “Quel ragazzo non sta mai fermo, si muove un po troppo, corre su e giu, di qua e di la; non da mai segni di stanchezza…” Per ognuna delle parole riportate di seguito Indica se, nel testo che hai letto, queste parole andavano scritte con l’accento, con l’apostrofo, oppure senza alcun segno grafico. f) la",Accento ,binary,525.0,['item_525_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 122,"C1. Il testo che segue è stato scritto senza accenti e senza apostrofi. “Quel ragazzo non sta mai fermo, si muove un po troppo, corre su e giu, di qua e di la; non da mai segni di stanchezza…” Per ognuna delle parole riportate di seguito Indica se, nel testo che hai letto, queste parole andavano scritte con l’accento, con l’apostrofo, oppure senza alcun segno grafico. g) da",Accento,binary,525.0,['item_525_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,binaria 123,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. a) arrotino",mestiere,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 124,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. b) bastoncino",diminutivo,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 125,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. c) spazzino",mestiere,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 126,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. d) topolino",diminutivo,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 127,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. e) mascolino",aggettivo,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 128,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. f) marino ",aggettivo,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 129,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. g) bagnino",mestiere,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 130,"E7. Il suffisso -ino nelle parole sotto elencate ha tre funzioni diverse: 1) forma un diminutivo; 2) forma un nome di mestiere (agente); 3) forma un aggettivo. Indica per ciascuna parola quale funzione ha -ino. h) settembrino ",aggettivo,binary,573.0,['item_573_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,binaria 131,"C6. Leggi le frasi che seguono e per ciascuna indica che cosa esprime. a) Che ore sono?",interrogazione,binary,1008.0,['item_1008_0.png'],2012_05_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,binaria 132,"C6. Leggi le frasi che seguono e per ciascuna indica che cosa esprime. b) Non lo so. ",dichiarazione,binary,1008.0,['item_1008_0.png'],2012_05_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,binaria 133,"C6. Leggi le frasi che seguono e per ciascuna indica che cosa esprime. c) Saranno le dieci. ",ipotesi,binary,1008.0,['item_1008_0.png'],2012_05_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,binaria 134,"C2. Per ciascuno dei seguenti aspetti di via Scarlatti indica se è presente nella poesia o no. 1. Suoni e voci - si/no",presenti,binary,1126.0,['item_1126_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,binaria 135,"C2. Per ciascuno dei seguenti aspetti di via Scarlatti indica se è presente nella poesia o no. 2. Luci e ombre - si/no ",presenti,binary,1126.0,['item_1126_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,binaria 136,"C2. Per ciascuno dei seguenti aspetti di via Scarlatti indica se è presente nella poesia o no. 3. Spazi - si/no",presenti,binary,1126.0,['item_1126_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,binaria 137,"C2. Per ciascuno dei seguenti aspetti di via Scarlatti indica se è presente nella poesia o no. 4. Veicoli - si/no",non presenti,binary,1126.0,['item_1126_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,binaria 138,"C2. Per ciascuno dei seguenti aspetti di via Scarlatti indica se è presente nella poesia o no. 5. Acqua e nebbia - si/no",non presenti,binary,1126.0,['item_1126_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,binaria 139,"C2. Per ciascuno dei seguenti aspetti di via Scarlatti indica se è presente nella poesia o no. 6. Persone - si/no",presenti,binary,1126.0,['item_1126_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,binaria 140,"B11. Dopo le tre righe introduttive, il testo è diviso in due paragrafi. Qual è il titolo appropriato per ciascun paragrafo? Collega con una linea il titolo che corrisponde a ciascuno dei due paragrafi. Attenzione: ci sono due titoli in più. a) Alle origini di un’usanza diffusa Primo paragrafo - Secondo paragrafo b) Storia di un personaggio famoso Primo paragrafo - Secondo paragrafo c) Pesce d’aprile: un animale simbolo per tanti scherzi ben riusciti Primo paragrafo - Secondo paragrafo d)Animali sfortunati e scherzi poco credibili Primo paragrafo - Secondo paragrafo",Primo paragrafo: Alle origini di un’usanza diffusa Secondo paragrafo: Pesce d’aprile: un animale simbolo per tanti scherzi ben riusciti,other,51.0,['item_51_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,altro 141,"B5. Il titolo del Paragrafo 3 è “DALL’ANTIBIOTICO… AL DOLCE”. In questo paragrafo viene chiarito qual è l’antibiotico e qual è il dolce di cui si parla nel titolo. Scrivi qual è l’antibiotico e qual è il dolce. Antibiotico: ............................................................................................... Dolce: .......................................................................................................",1. Antibiotico: PENICILLINA 2. Dolce: ASPARTAME,other,71.0,['item_71_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,altro 142,"A2. Chi ha sette anni? A) Lisa B) Anna C) Nonno D) Il testo non lo dice","A, B",other,87.0,['item_87_0.png'],2021_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ecco i personaggi del racconto che leggerai: Lisa è la bambina che racconta quello che è successo nella storia che leggerai. Ha 7 anni e vive in un paesino dove non ci si annoia mai. Anna Anna ha la stessa età di Lisa ed è la sua grande amica. Quando si tratta di giocare non si tira mai indietro, neanche di fronte ai giochi più avventurosi. Questo è il nonno di Anna. Quando era bambino è rimasto orfano, non era felice ed è scappato di casa. Ora sta spesso con Anna e Lisa, ricorda con loro le avventure che ha vissuto e gioca con loro. I pezzettini di testo vicino ai personaggi danno informazioni che permettono di rispondere alle domande che trovi sotto. ",2.0,altro 143,"A3. Chi appartiene alla stessa famiglia? - Lisa - Anna - Nonno - Il testo non lo dice","Anna, il nonno",other,88.0,['item_88_0.png'],2021_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ecco i personaggi del racconto che leggerai: Lisa è la bambina che racconta quello che è successo nella storia che leggerai. Ha 7 anni e vive in un paesino dove non ci si annoia mai. Anna Anna ha la stessa età di Lisa ed è la sua grande amica. Quando si tratta di giocare non si tira mai indietro, neanche di fronte ai giochi più avventurosi. Questo è il nonno di Anna. Quando era bambino è rimasto orfano, non era felice ed è scappato di casa. Ora sta spesso con Anna e Lisa, ricorda con loro le avventure che ha vissuto e gioca con loro. I pezzettini di testo vicino ai personaggi danno informazioni che permettono di rispondere alle domande che trovi sotto. ",2.0,altro 144,"C10. Leggi le seguenti frasi e cerchia le parole che sono scritte in minuscolo ma che devono essere scritte con la lettera iniziale maiuscola. Attenzione: ogni cerchio deve contenere una sola parola, e in ogni frase ci sono più parole da cerchiare. 1. Ogni mattina aspetto il mio amico giorgio in via roma ma lui è sempre in ritardo. 2. Un leone disse a un topo: “ti prego, corri a chiamare aiuto! sono intrappolato in questa rete, da solo non riesco a liberarmi”.",1. Giorgio; Via Roma 2. Ti; Sono,other,140.0,['item_140_0.png'],2021_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,altro 145,"A3. Segui la freccia che parte dagli artigli dell’orso. Il pezzetto di testo collegato dice che l’orso ha artigli lunghi 10 cm. Perché l’orso ha artigli così lunghi? Nel testo ci sono due informazioni che rispondono a questa domanda. Copiale. Gli artigli servono all’orso per ......................................................................................................... e per ......................................................................................................","arrampicarsi sugli alberi, scavare buche",other,143.0,['item_143_0.png'],2019_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L'ORSO SE TU FOSSI UN ORSO... ... ti arrampicheresti sugli alberi, nuoteresti benissimo, saresti molto forte e sapresti anche pulire il pesce. Passeresti il tempo ad annusare. Il naso dell'orso è molto sensibile: può fiutare un pericolo, la presenza di cibo e di altri orsi. Avresti una pelliccia folta. È abitata da pidocchi, pulci e formiche, però protegge l'orso dal freddo e dagli artigli dei nemici. Avresti artigli lunghi 10 centimetri. Servono all’orso per arrampicarsi sugli alberi o scavare buche. Non sono retrattili. Quando arriva l’inverno, l'orso si chiude in una caverna o in una tana e dorme per diversi mesi: va in letargo. Quando la primavera ritorna, si sveglia, dimagrito e pronto a riprendere la vita normale. (Tratto e adattato da: D. Grinberg, L'orso, Trieste-Firenze, Editoriale Scienza, 2014) ",2.0,altro 146,"B1. Questo testo è tratto da un libro. Nell’INTRODUZIONE, che hai appena letto, si dice quali altri argomenti, oltre alla materia, saranno trattati nel libro. Quali? a) Un altro argomento è .............................................................. b) Un altro argomento è`..............................................................","Energia, Forza",other,170.0,['item_170_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,altro 147,"B7. Nel diario di Matilde si possono leggere questi pensieri. Riconosci e scrivi in ogni pagina se i pensieri di Matilde si riferiscono a emozione, sentimento, carattere o umore. Una pagina ha già la risposta. Oggi Lucia a danza mi ha fatto lo sgambetto e sono caduta: in quel momento mi è sembrato di avere un vulcano nella pancia e avrei voluto tirarle i capelli. .............................................emozione.............................. Pagina 1) Che bello! Anche se piove mi sembra che intorno a me splenda il sole!!! Forse è perché Sara mi ha dato l'invito per il suo compleanno. Ci speravo proprio! ................................................................................................... Pagina 2) Con Anna abbiamo passato tanti bei momenti insieme. Anche adesso che si è trasferita in un'altra città ci sentiamo spesso. Le voglio proprio bene. ................................................................................................... Pagina 3) A scuola sono attenta e mi impegno, eppure quando la maestra chiede la mia opinione davanti a tutti mi blocco sempre. È più forte di me, sono fatta così! ...................................................................................................",Pagina 1 umore Pagina 2 sentimento Pagina 3 carattere,other,306.0,['item_306_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,altro 148,"B9. Anche questa parte di testo, come le precedenti, è stata suddivisa dagli autori in paragrafi che, insieme, rispondono alla domanda del titolo “A che cosa servono le emozioni?”. I titoletti dei paragrafi sono stati tolti. Qual è il titoletto di ciascun paragrafo? Scrivi accanto a ogni titoletto il numero, da 1 a 5, del paragrafo corrispondente. Attenzione! Nell'elenco è presente un titoletto in più. A che cosa servono le emozioni? a) Per decidere b) Per pensare c) Per dare l'allarme d) Per proteggerci e) Per ricordare f) Per esprimersi",a) 5 b) VUOTO c) 4 d) 2 e) 1 f) 3,other,308.0,['item_308_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,altro 149,"C1. Nelle frasi che seguono ad alcune parole manca la lettera h. Scrivila nel quadratino solo quando è necessaria a) Ieri..... ai grandi magazzini.......o comprato il cappotto nuovo e........o deciso di metterlo oggi. b) Domani andremo ......a Roma a..... trovare la zia. La mamma ......a già i biglietti del treno.",1. no 2. si 3. si 4. no 5. no 6. si,other,309.0,['item_309_0.png'],2018_05_SNV_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,altro 150,"A5. Osserva il grafico e completa le due affermazioni che seguono, indicando ogni volta l’alternativa corretta tra le tre scritte in corsivo. Dal 1950 al 2050 circa, la popolazione dei Paesi più sviluppati tende a aumentare / restare stabile / diminuire; nonostante ciò, la popolazione mondiale registra un decremento / lieve incremento/ forte incremento.","restare stabile, forte incremento",other,323.0,['item_323_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,altro 151,"C4. L’impiego dell’idrogeno per le auto può avvenire in due modi. Indica quali, completando le frasi seguenti. 1. L'idrogeno può essere usato nei ... direttamente come ... 2. L'idrogeno può essere usato nelle ... per trasformare l'energia ... in energia ... ",1) motori a combustione (interna); combustibile 2) celle a combustibile; chimica; combustibile.,other,345.0,['item_345_0.png'],2018_08_SIM1_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. ",8.0,altro 152,"A2. Completa il testo che segue tenendo in considerazione quanto detto dall’autore. Scegli la parola corretta da inserire, una sola per ogni spazio, tra quelle suggerite in elenco. Fai attenzione: ogni parola può essere utilizzata una sola volta e cinque parole sono in più. L’autore vuole definire “l’uso delle parole” come capacità di adeguare il proprio .................... sulla base del in cui ciascuno si trova, dell’interlocutore con il quale .................... per diversi scopi e, soprattutto, delle trasformazioni che si verificano nel .................... di una relazione ",Primo spazio: linguaggio Secondo spazio: contesto Terzo spazio: interagisce Quarto spazio: corso Quinto spazio: comunicativa Corretta: quando tutti e cinque gli spazi sono riempiti correttamente.,other,429.0,['item_429_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,altro 153,"E1. Completa correttamente le parole nelle seguenti frasi. a) Non ho mai dato ai camerieri delle man ... superiori ai cinque euro. b) L’inge ... ere si recò al cantiere per il collaudo. c) Farsi giustizia da soli è ille ... ittimo. d) Aver rischiato tanto è stata una vera incosc ... nza.",a) mance b) ingegnere c) illegittimo d) incoscienza,other,467.0,['item_467_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,altro 154,"D1. Gli ultimi due capoversi richiamano le spiegazioni delle proprietà dell'ambra e della magnetite date da Talete e dagli atomisti. Ache cosa veniva attribuito il loro potere? Scrivi, ricopiandole dal testo, le due parole chiave della spiegazione dell'uno e degli altri. 1. Parola chiave della spiegazione di Talete 2. Parola chiave della spiegazione degli atomisti",1) anima 2) fluido,other,486.0,['item_486_0.png'],2018_10_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"AMBRA E MAGNETITE La Terra era un disco piatto che galleggiava su una distesa d’acqua senza fine. E l’acqua era il principio unico di tutto l’univer so, l’elemento da cui traevano origine la materia e la vita. Nel cielo, più vicini alle cose divine che a quelle umane, giravano il Sole, la Luna, i pianeti, le stelle. Ma le loro rivoluzioni obbedivano a ritmi ormai, c onosciuti, tanto che i sapienti erano in grado di calcolarne le posizioni e di prevedere le eclissi Queste erano le conoscenze dell’Universo nel VI secolo a.C., quando il filosofo greco Talete di Mileto, uno dei sapienti che avevano contribuito a elaborarle, cominciò a ragionare sulle misteri ose forze attrattive tipiche di alcune sostanze naturali. Da tempo immemorabile erano note le proprietà dell’ambra, una resina fossile che affiora in molte località della terra assieme ai resti carbonizzati di antiche foreste. In molti avevano notato che, se si prende un pezzetto di questa sostanza e lo si strofina su un panno di lana, essa acquista la capacità di attrarre granelli di polvere, pagliuzze e altro materiale leggero. Un’altra sostanza naturale, la magnetite, un minerale scuro e pesante che si t rova in prossimità dei giacimenti di ferro, sbalordiva per la sua capacità di attirare frammenti di ferro e altri metalli. Si raccontava che le punte ferrate dei bastoni dei pastori della Magnesia, località ricca di affioramenti del prodigioso minerale, re stassero addirittura attaccate al terreno. Di che natura erano, si chiese Talete, le forze responsabili di questi due fenomeni? Talete, ai suoi tempi, era considerato il più autorevole dei Sette Sapienti della Grecia. Gli storici moderni lo reputano il fon datore della filosofia e della scienza occidentali, il primo che abbia tentato di formulare una teoria unitaria dell’Universo e della materia. La sua concezione del mondo, tuttavia, abbondava di elementi soprannaturali. La spiegazione che il filosofo diede delle proprietà dell’ambra e della magnetite fu di carattere magico. Talete pensò che ambra e magnetite avessero una specie di anima e che questa esercitasse un potere attrattivo. La strada delle speculazioni scientifiche era, comunque, aperta. Altri filo sofi greci successivi a Talete, per esempio quelli appartenenti alla scuola degli atomisti, attribuirono le attrazioni all’effetto di un fluido capace di trasferirsi da un oggetto all’altro: una spiegazione ancora approssimativa, ma molto vicino alla realt à. (Tratto da: F. Foresta Martin, Dall’ambra alla radio , Trieste, Editoriale Scienza, 1995, pp. 9-11) ",10.0,altro 155,"C4. Qual è il soggetto delle frasi che seguono? Scrivilo vicino ad ognuna. Attenzione: scrivi il soggetto anche quando è sottinteso. a) L’hai avuto l’invito? ………………………………………….. b) A lei non piace la verdura. ………………………………………….. c) Dove l’avete messa la mia cartella? ………………………………………….. d) Il mio libro l’hai preso tu? ………………………………………….. e) Vi interessa questo spettacolo? ………………………………………….. f) Correvano tutti verso la piazza. …………………………………………..",a) Tu b) verdura c) Voi d) Tu e) spettacolo f) Tutti,other,528.0,['item_528_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,altro 156,"C6. Scrivi nello spazio vuoto la preposizione mancante. a) L’intera regione si rifornisce …………… energia elettrica dalla centrale di Cerano. b) Non si può contare …………… sua discrezione. c) Luca mi pare propenso …………… partecipare alla gara. d) La pioggia ci costringe …………… restare a casa. e) Diversamente …………… quello che pensavo, i pipistrelli sono mammiferi.",a) di b) sulla c) a d) a e) da,other,530.0,['item_530_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,altro 157,"A2. Completa il testo che segue tenendo in considerazione quanto detto dall’autore. Scegli la parola corretta da inserire, una sola per ogni spazio, tra quelle suggerite in elenco. Fai attenzione:ogni parola può essere utilizzata una sola volta e cinque parole sono in più. linguaggio / condiviso / interagisce / corso / pensiero / polemizza / senso / contesto / comunicativo / ruolo L'autore vuole definire ""l'uso delle parole"" come capacità di adeguare il proprio .................... (1) sulla base del .................... (2) in cui ciascuno si trova, dell'interlocutore con il quale .................... (3) per diversi scopi e, soprattutto, delle trasformazioni che si verificano nel .................... (4) di una relazione .................... (5) ",1. linguaggio 2. contesto 3. interagisce 4. corso 5. comunicativa,other,536.0,['item_536_0.png'],2017_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L'USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del senso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli altri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, linguaggio, secondo con chi parla e secondo l'argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. (Tratto da: Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, Macerata, Quodlibet, 2011) ",10.0,altro 158,"E1. Completa correttamente le parole nelle seguenti frasi. a) Non ho mai dato ai camerieri delle man………… superiori ai cinque euro. b) L’inge…………ere si recò al cantiere per il collaudo. c) Farsi giustizia da soli è ille.........ittimo. d) Aver rischiato tanto è stata una vera incosc………nza.",a) mance b) ingegnere c) illegittimo d) incoscienza,other,567.0,['item_567_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,altro 159,"E3. Nei periodi che seguono il se introduce o una frase ipotetica o una frase interrogativa indiretta. Indica la funzione sintattica del se in ciascun periodo. Metti una crocetta per ogni riga. Se introduce una frase ipotetica Se introduce una frase interrogativa indiretta a) Non mi hanno ancora detto se vengono a cena b) Se mi chiedessero la strada per il Duomo non saprei rispondere c) Vogliono partire oggi, ma se non si sbrigano… d) Volevo sapere se avesse fame o sete, ma non capivo la sua lingua e) Possiamo parlare con calma se vieni a casa mia verso le otto f) Gli chiese se per caso avesse sentito suonare il campanello",a) Interrogativa indiretta b) Ipotetica c) Ipotetica d) Interrogativa indiretta e) Ipotetica f) Interrogativa indiretta,other,569.0,['item_569_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,altro 160,"C8. Nella seguente serie di parole scegli l’unica parola che non è derivata da “casa”. casolare / caseggiato / casaccio / casereccio / casetta ",casaccio,other,638.0,['item_638_0.png'],2016_05_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,altro 161,"B8. Osserva questa immagine e poi completa il testo che segue utilizzando le parole elencate sotto (fai attenzione: due sono in piu`). La parola “impronta”, nell’espressione “impronta ecologica”, è usata in senso ……………………………(1) ; l’immagine invece corrisponde al suo significato …………………………(2). L’impronta è infatti quella che il piede dell’uomo incide sul territorio e allude all’……………………………(3) da questi esercitato sull’……………………………(4). La sproporzione tra la ……………………………(5) del piede e l’area calpestata rappresenta lo ……………………………(6) tra ……………………………(7) e ……………………………(8). ambiente / esemplare / dimensione / impatto / letterale / metaforico / popolazione / sfruttamento / risorse / squilibrio",1. metaforico 2. letterale 3. impatto 4. ambiente 5. dimensione 6. squilibrio 7. popolazione 8. risorse,other,666.0,['item_666_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,altro 162,"C1. Indica la sequenza corretta che ricompone l’ordine originario del testo numerando da 1 (la prima) a 6 (l’ultima) le frasi. A. Di solito non ci accorgiamo di questa verità perché siamo molto abituati a chiamare ogni cosa con un certo nome B. Sono gli uomini che hanno dato e continuano a dare i nomi ad esse C. Le cose di per sé non hanno nessun nome D. Eppure, lo stesso cane in spagnolo si chiama perro, in francese chien, in inglese dog, in tedesco hund... ; quale sarebbe allora il ""vero"" nome del cane? E. Evidentemente nessuno; oppure dobbiamo dire che i ""veri"" nome del cane sono tutti quelli usati nelle varie lingue F. È tanto forte, infatti, l'abitudine di chiamare il cane col nome di cane, che quell'animale ci sembra che debba chiamarsi così",a) 3 b) 2 c) 1 d) 5 e) 6 f) 4,other,709.0,['item_709_0.png'],2016_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,10.0,altro 163,"D1. Questo testo e` diviso in quattro capoversi. Attribuisci a ciascuno di essi il titolo piu` adatto scegliendolo fra quelli proposti. Capoversi 1. Righe 1-2 2. Righe 3-8 3. Righe 9-13 4. Righe 14-21 Elenco dei titoli A. Gli atteggiamenti utili alla costruzione della democrazia B. La democrazia e i conflitti di potere C. Vantaggi della democrazia per le persone D. Le fatiche della democrazia E. Svantaggi del sistema della democrazia F. La democrazia e i limiti degli uomini",1. f. 2. d. 3. c. 4. a.,other,710.0,['item_710_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,altro 164,D3. Alla riga 9 l’autore usa la parola “intralci” con cui riassume quattro fattori presentati precedentemente nel testo come ostacoli alla democrazia. Trascrivi le quattro parole che identificano questi fattori.,1.egoismi 2. sfiducia 3. pigrizia 4. paura,other,712.0,['item_712_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,altro 165,E6. Nella recensione un breve periodo ha una punteggiatura impropria. Individua e trascrivi tale periodo con la punteggiatura appropriata.,Al punto che sembra molto piu` concreto lui dei suoi superficiali e vanitosi commilitoni,other,725.0,['item_725_0.png'],2016_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Scheda web di presentazione di un libro Il cavaliere inesistente di Italo Calvino pubblicato da Mondadori Prezzo: € 9,50 Edizioni e formati disponibili: Ebook € 6,99 Rilegato € 13,60 Libro € 10,08 Descrizione del prodotto Agilulfo, paladino di Carlomagno, è un cavaliere valoroso e nobile d’animo. Ha un unico difetto: non esiste. O meglio, il suo esistere è limitato all'armatura che indossa: lucida, bianca e... vuota. Non può mangiare, né dormire perché, se si deconcentra anche solo per un attimo, cessa di essere. Una storia ambientata nell’inverosimile medioevo dei romanzi cavallereschi, ma vicina più che mai alla realtà del nostro tempo. Dettagli Genere: Narrativa Editore: Mondadori Collana: Oscar junior Formato: Tascabile Pubblicato: 12/04/2010 Pagine: 182 Lingua: Italiano ISBN-13 9788804598886 Illustratore: F. Maggioni Recensione di una lettrice atena72 - 31/05/2013 04:13 La lucida armatura di Agilulfo è bianca come l’onore del nobile cavaliere che, per conservarlo, dovrà superare ostacoli e prove, come nella migliore tradizione. Ed il suo valore e la sua maestria saranno tanto notevoli e profonde, quanto evanescente ed eterea è la sua natura, la cui fisicità è indissolubilmente legata alla vuota armatura che si porta dietro. Pur non esistendo concretamente, Agilulfo suscita il più grande degli amori e il più grande degli odii. AI punto che, sembra molto più concreto lui, dei suoi superficiali e vanitosi commilitoni. E fino alla fine lotterà, per affermare la superiorità della nobiltà del suo animo e della sua esistenza. {Tratto e adattato da: http://www.inmondadori.it/Il-cavaliere-inesistente-Italo-Calvino/eai978880459888/; giugno 2014) ",10.0,altro 166,"A2. I fatti si svolgono nel periodo post coloniale, come si puo` capire da due frasi del testo. Riportane una.","1. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, (ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro.) 2. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. (In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo.) Sono accettabili: - parafrasi di una delle due possibili risposte corrette - parti di una delle due possibili risposte corrette purche´ siano sufficienti a indicare che si tratta del periodo post-coloniale Corretta: quando viene riportata almeno una delle due frasi",other,795.0,['item_795_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,altro 167,"B14. Quando arriva la mattina (riga 35) gli spazi si aprono, la luce ricompare, e con la luce anche la visione. Nei capoversi da riga 35 a riga 49, individua due frasi o espressioni indicative di questa nuova situazione. Trascrivile: 1. ………………………………………………………………………………………. 2. ……………………………………………………………………………………….",Indica DUE tra le seguenti espressioni: • Mi misi subito a guardare • Calcolando con gli occhi (come organizzare un fuoco di sbarramento) • Il sole era alto • Il luogo era attraente (scarno ma non selvaggio) • La spianata era gia` invasa • Stavamo su una specie di terrazza orientata a sud • (Vidi) da lontano venir su pel sentiero (uno che camminava...),other,863.0,['item_863_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,altro 168,"A1. Che rapporto hanno i vari personaggi del racconto con Melisenda? Collega con una freccia ciascuno dei nomi della colonna A con l’elemento corrispondente della colonna B. Colonna A a) Giovanni da Bologna b) Konrad c) Messer Rufo d) Guglielmo Colonna B a) Padre di Melisenda b) Bambino che aiuta Melisenda c) Maestro di Melisenda d) Dal testo non si può capire","Giovanni da Bologna, Maestro di Melisenda",other,923.0,['item_923_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,altro 169,"A12. In queste frasi, che riassumono una parte del testo (righe 49-65), mancano alcune parole. Scrivile, mettendo una sola parola in ogni spazio, dove ci sono i puntini. Konrad scoppia a ridere quando capisce che Malisenda ha l'intenzione di .................... le uova. Giovanni da Bologna, invece, si sforza di rimanere .................... fino a quando scopre che le uova non sono di .................... ma di .................... Allora scoppia a ridere anche lui.","covare, serio, falcone (Accettabile anche: falco), tordo",other,934.0,['item_934_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,altro 170,"B6. Leggi con attenzione questa parte di testo “Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene.” Sostituisci le parole in neretto con quelle che chiariscono di chi o di che cosa si sta parlando. Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non percepisce .................... come .................... perché hanno taglia simile e ci convive bene.","il coniglio, preda",other,947.0,['item_947_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,altro 171,"B4. Nel testo sono citati due mezzi di trasporto usati dagli Inuit per spostarsi sul ghiaccio. Quali? 1. .……………….…………………………………………………………………………………… 2. …..………………………………………………………………………………………………..","""Slitte (slitte trainate da cani o anche solo cani oppure alaskan malamute) E motoslitte Corretta: quando indica tutte e due i mezzi di trasporto.""",other,991.0,['item_991_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,altro 172,"A9. Nella frase “riusci` a bloccare l’emorragia” (riga 46) la parola “emorragia” e` usata in senso figurato. Tenendo conto di questa informazione, completa la frase che segue. In senso letterale “emorragia” si riferisce a una perdita di …………………….., invece nella frase del testo “emorragia” si riferisce a una perdita di ……………………..","sangue, acqua",other,1018.0,['item_1018_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,altro 173,"A11. Rosaria dice: “– Hai visto che l’ho trovato!” (riga 59). Il padre risponde: “– ... anche lui ha trovato te” (riga 60). Di chi stanno parlando? a) Rosaria sta parlando .................................... b) Il padre sta parlando ....................................",a) idraulico b) fidanzato,other,1020.0,['item_1020_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,altro 174,"B4. L’impiego dell’idrogeno per le auto può avvenire in due modi. Indica quali, completando le frasi seguenti 1. L’idrogeno può essere usato nei ………………………………………………………………………………… direttamente come ……………………………………………………………………. 2. L’idrogeno può essere usato nelle ……………………………………………………………………… per trasformare l’energia ……………………………………………………………………………….. in energia …………………………………………………………….",1. L’idrogeno puo` essere usato nei motori a combustione (interna) direttamente come combustibile. 2. l’idrogeno puo` essere usato nelle celle a combustibile per trasformare l’energia chimica in energia elettrica. Corretta: quando completa tutte le parti mancanti delle due frasi,other,1080.0,['item_1080_0.png'],2012_08_PN_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA) ",8.0,altro 175,"B4. L’autrice descrive le stelle e il cielo in due punti del testo, alle righe 5-6 e 46-48. Perche´, secondo te, usa espressioni differenti? 1. Alle righe 5 e 6, l’autrice …………………………………………………………………………………….. 2. Invece, alle righe 46 - 48, ……………………………………………………………………………………",1. alba 2. tramonto,other,1112.0,['item_1112_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,altro 176,"C1. La poesia e` divisa in tre parti. Associa il numero dei versi con il loro contenuto collegando con una freccia gli elementi delle due colonne. Parti della poesia a) Presenta e descrive via Scarlatti b) Apre un dialogo con una persona c) Conclude il dialogo Versi a) Versi 1-2 b) Verso 17 c) Versi 3-16",a-3; b-1; c-2,other,1125.0,['item_1125_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,altro 177,"B11. Nella tabella qui sotto ci sono alcune informazioni tratte dal testo. Per ognuna di esse, indica con una crocetta se l’informazione suggerisce che il panda è vegetariano o che il panda è carnivoro o se l’informazione non serve per stabilirlo. L’informazione: suggerisce che suggerisce che non serve il panda è il panda è vegetariano carnivoro a) Ha denti forti b) Mania i germogli di due varietà di bambù c) Mangia piccoli roditori d) Rischia di estinguersi perché scompare il suo ambiente naturale e) Mangia invertebrati f) Si nutri di foglie g) Ha l’apparato digestivo diverso da quello degli animali erbivori h) Si nasconde nel fitto fogliame della foresta",a): 2; b): 1; c): 2; d): 3; e): 2; f): 1; g): 2; h): 3.,other,1379.0,['item_1379_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,altro 178,"A12. “-Cosa è successo?” (riga 21) chiede il protagonista alla mamma. Con questa domanda si inizia a raccontare ciò che è accaduto a casa del protagonista mentre lui non c’era. Completa la sintesi di quel racconto, inserendo negli spazi le parole mancanti. In ogni spazio puoi mettere una sola parola. Nella notte in cui il protagonista non era in casa, c’è stato un ......................................(1) di polli nel suo cortile. Vengono chiamati i carabinieri in aiuto, ma tra loro e il papà e il nonno nasce una ....................................(2) accesa. Nella stessa notte infatti sono state rubate 12 galline bianche nel pollaio dei ......................................(3) e i carabinieri notano che nel cortile del protagonista c’è proprio lo stesso tipo e lo stesso ......................................(4) di animali. In questo modo i carabinieri fanno capire di avere dei sospetti nei confronti del papà e del nonno, che a quel punto si sentono ingiustamente ......................................(5). Allora il padre si innervosisce e il nonno reagisce minacciandoli con il ...................................... (6).",1. furto 2. discussione 3. vicini 4. numero 5. accusati 6. fucile,other,167.0,['item_167_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,altro 179,"C1. Se non conoscessi il significato delle parole sotto elencate, quale voce andresti a cercare sul dizionario? Scrivila accanto ad ogni parola. Osserva l’esempio. Bellissimo………bello… a) parliamo ………………………………… b) rarissima ………………………………… c) nipotino ………………………………… d) sedie …………………………………",a) parlare b) raro c) nipote d) sedia,other,180.0,['item_180_0.png'],2019_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,altro 180,"A15. Questo testo è stato diviso in cinque paragrafi. A questi sono stati assegnati cinque “titoli”, che potrebbero essere pensieri di Alessandro relativi a quanto succede in ciascuno di quei paragrafi. Indica qual è il titolo di ciascun paragrafo, collegando con una freccia ogni elemento della colonna A con un elemento della colonna B. Attenzione: c’è un titolo in più. a) Con gli occhiali ora vado alla grande, ma quando mi esercito senza occhiali sono ancora un disastro. - Paragrafo 1/ Paragrafo 2/ Paragrafo 3/ Paragrafo 4/ Paragrafo 5 b) Ce l'ho fatta, Senza occhiali si può! Ma quanto impegno ci è voluto e ci vuole!! - Paragrafo 1/ Paragrafo 2/ Paragrafo 3/ Paragrafo 4/ Paragrafo 5 c) I grandi non si fanno mai gli affari loro: e ora come rimedio a questo guaio? - Paragrafo 1/ Paragrafo 2/ Paragrafo 3/ Paragrafo 4/ Paragrafo 5 d) D'accordo, devo fare qualcosa per suonare meglio, ha ragione il mio maestro - Paragrafo 1/ Paragrafo 2/ Paragrafo 3/ Paragrafo 4/ Paragrafo 5 e) È proprio vero che i cinesi stanno conquistando il mercato degli occhiali - Paragrafo 1/ Paragrafo 2/ Paragrafo 3/ Paragrafo 4/ Paragrafo 5 f) Pensavo di aver risolto il problema con un solo paio di occhiali, invece la soluzione è più complicata. - Paragrafo 1/ Paragrafo 2/ Paragrafo 3/ Paragrafo 4/ Paragrafo 5",Paragrafo 1 - d Paragrafo 2 - f Paragrafo 3 - a Paragrafo 4 - c Paragrafo 5 - b,other,296.0,['item_296_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,altro 181,"D6. Inserisci nel testo che segue le parole o espressioni mancanti. Attenzione: ci sono due parole in più. anzi invece prima ma quanto più anziché mentre tanto più Konrad Lorenz afferma che………………l’artista può concedersi delle libertà nel descrivere la natura, lo scienziato deve………………attenersi ai fatti. ………………è sbagliato credere che l’indagine scientifica dei fenomeni naturali non permetta di apprezzare la bellezza della natura, ………………questa bellezza diviene………………evidente ai nostri occhi …………….i fatti sono studiati e indagati.",a) mentre; b) invece; c) ma; d )anzi; e) tanto più; f) quanto più.,other,219.0,['item_219_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,altro 182,"C8. Indica il nome alterato in ognuna di queste serie di nomi. a) lampone burrone termosifone scatolone b) tavolino scontrino postino bagnino c) oggetto affetto cancelletto dialetto d) caramella gonnella ciambella bretella ",a) scatolone b) tavolino c) cancelletto d) gonnella,other,791.0,['item_791_0.png'],2014_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,altro 183,"A8. Che cosa ci dice il racconto a proposito dell’escursione? Completa la sintesi che segue, inserendo la parola appropriata nello spazio. Durante l’escursione alcuni ragazzi non si accorgono di quanto camminano perché cantano e scherzano. All’arrivo, dopo esattamente cinque ore di strada, ……………………………………………….. si siede perché è affaticato e i piedi gli fanno male; posa vicino a sé lo zaino con la tartaruga dentro. La signora Salici trova straordinario il lago, mentre ai ragazzi non sembra niente di speciale.",1. Tom,other,35.0,['item_35_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,altro 184,"A8. Che cosa ci dice il racconto a proposito dell’escursione? Completa la sintesi che segue, inserendo la parola appropriata in ogni spazio. Durante l’escursione alcuni ragazzi non si accorgono di quanto camminano perché cantano e scherzano. All’arrivo, dopo esattamente cinque ore di strada, Tom si siede perché è affaticato e i ……………………………………………….. gli fanno male; posa vicino a sé lo zaino con la tartaruga dentro. La signora Salici trova straordinario il lago, mentre ai ragazzi non sembra niente di speciale.",2. piedi,other,35.0,['item_35_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,altro 185,"A8. Che cosa ci dice il racconto a proposito dell’escursione? Completa la sintesi che segue, inserendo la parola appropriata in ogni spazio. Durante l’escursione alcuni ragazzi non si accorgono di quanto camminano perché cantano e scherzano. All’arrivo, dopo esattamente cinque ore di strada, Tom si siede perché è affaticato e i piedi gli fanno male; posa vicino a sé lo zaino con la ………………………………………………..(3) dentro. La signora Salici trova straordinario il lago, mentre ai ragazzi non sembra niente di speciale.",3. tartaruga,other,35.0,['item_35_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,altro 186,"A8. Che cosa ci dice il racconto a proposito dell’escursione? Completa la sintesi che segue, inserendo la parola appropriata in ogni spazio. Durante l’escursione alcuni ragazzi non si accorgono di quanto camminano perché cantano e scherzano. All’arrivo, dopo esattamente cinque ore di strada, Tom si siede perché è affaticato e i piedi gli fanno male; posa vicino a sé lo zaino con la tartaruga dentro. La signora Salici trova straordinario il lago, mentre ai ....................................... non sembra niente di speciale.",4. ragazzi,other,35.0,['item_35_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,altro 187,"B3. In base alle informazioni date nel primo paragrafo, qual è il nome del nuovo calendario e perché è stato chiamato così? Completa la frase che segue, inserendo in ogni spazio la parola mancante. Il nuovo calendario è stato chiamato ………………………………………(1) perché fu proposto da un Papa che si chiamava Gregorio XIII.",1. Gregoriano,other,43.0,['item_43_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,altro 188,"B3. In base alle informazioni date nel primo paragrafo, qual è il nome del nuovo calendario e perché è stato chiamato così? Completa la frase che segue, inserendo in ogni spazio la parola mancante. Il nuovo calendario è stato chiamato Gregoriano perché fu proposto da un ……………………………………… che si chiamava Gregorio XIII.",2. Papa,other,43.0,['item_43_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,altro 189,"B3. In base alle informazioni date nel primo paragrafo, qual è il nome del nuovo calendario e perché è stato chiamato così? Completa la frase che segue, inserendo in ogni spazio la parola mancante. Il nuovo calendario è stato chiamato Gregoriano perché fu proposto da un Papa che si chiamava ……………………………………….",3. Gregorio XIII,other,43.0,['item_43_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,altro 190,A13. Dopo avere letto tutto il racconto scopriamo chi è “l’intruso” in questa storia. Chi è?,sirena,open question,12.0,['item_12_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,domanda aperta 191,"A9. In base al testo, da che cosa il gruppo di Alec ha preso l’idea del nome “Club dei perdenti”? L’idea del nome è stata presa da ................................................................. …………………………………………………………………………………………………………………",poster,open question,22.0,['item_22_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,domanda aperta 192,"A4. “Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito” (righe 10-11). Cerca e scrivi l’informazione del testo che spiega perché la pancia di Tom e il suo modo di avanzare sono diversi dal solito. ",tartaruga,open question,31.0,['item_31_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,domanda aperta 193,"A7. Gisella dice “Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia”, ma gli animali si aspettano che la risposta finisca con altre parole. Come si aspettano che finisca la sua risposta? Completa la frase che segue. “Mi piacerebbe un ombrello per riparare …………………………….. dalla pioggia.”",testa,open question,58.0,['item_58_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,domanda aperta 194,"B3. Come viene definito il termine serendipity nel Paragrafo 1? Copia le parole usate per spiegare questo termine. Il termine serendipity indica ...................................................................... .................................................................................................................... ....................................................................................................................",Scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos’altro,open question,69.0,['item_69_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,domanda aperta 195,"B2. Chi dice «Dai, facciamolo!»?",Lisa,open question,91.0,['item_91_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,domanda aperta 196,"C9. Leggi la frase che segue: La mamma ha detto a Margherita: “Metti in ordine tutti i tuoi vestiti”. Trasforma la frase da discorso diretto a discorso indiretto, completando la frase che segue. La mamma ha detto a Margherita di ...",Mettere in ordine tutti i suoi vestiti,open question,139.0,['item_139_0.png'],2021_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,domanda aperta 197,"B3. Scrivi il significato della parola “impenetrabilità” come viene riportato nel testo. ......................................................................................................... .........................................................................................................",significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio,open question,172.0,['item_172_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,domanda aperta 198,"B5. Nei due esperimenti del testo, quali sono i due corpi che non possono stare nello stesso spazio? .................................................................................................................................","aria, acqua",open question,174.0,['item_174_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,domanda aperta 199,"A2. La frase ""diventato esigente"" (evidenziata nel testo) ha il soggetto sottinteso ed è implicita. Qual è il soggetto della frase? Scrivilo.",fascismo,open question,191.0,['item_191_0.png'],2019_08_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il Balordo Idee politiche il maestro Bordigoni si procurava il piacere di non averne; e se ne aveva, si negava il piacere di manifestarle. Il fascismo a quei tempi badava solo a crescere e a fortificarsi; più tardi, verso il ’28 o il ’29, diventato esigente, si accorse del Bordigoni. Il maestro Cometta, fiduciario dell’Opera nazionale Balilla, un giorno lo avvicinò e cercò di fargli capire ch e il nuovo clima in cui doveva crescere la gioventù italiana, esigeva dagli insegnanti una partecipazione attiva nel formare anche i più piccoli all’amore e alla devozione verso la patria fascista. Il Bordigoni ascoltò, ora fissando attraverso le lenti il piccolo Cometta, ora guardandosi intorno con il suo sguardo che non vedeva nulla e sembrava rimandato indietro dalla concavità delle lenti a illuminargli la fronte. Ascoltò e non rispose. Dopo qualche mese il Cometta lo condusse dal professor Bistoletti, f iduciario del partito per la classe insegnante, perché l’esortazione si trasformasse in un ordine perentorio. Il Bistoletti se ne lavò le mani e lo rinviò al segretario politico. Il segretario politico, che era alto quanto il Bordigoni ma molto più giovane e magro come un chiodo, quando se lo vide davanti lo prese in simpatia e gli parlò bonariamente, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo fino a sfiorargli la pancia. “Camerata Bordigoni” gli disse “tu sei dei nostri. E lavorerai con noi, non sol o nella scuola, ma anche fuori. Domenica ti voglio qui in sede. Per me sei già iscritto al Partito”. Ma il Bordigoni la domenica dopo dimenticò di andare in sede e a scuola non gli venne mai in mente di parlare del fascismo che probabilmente non sapeva nep pure cosa fosse di preciso. Finirono col dimenticarsi di lui. Il segretario politico si giustificò dicendo che il Bordigoni, in divisa e camicia nera, sarebbe stato ridicolo e avrebbe dato un’idea sbagliata del fascismo che era una cosa dinamica, agile e soprattutto giovane. In verità sarebbe stato una caricatura; e fu la sua mole a salvarlo dai cortei, dai saluti romani, dagli alalà e dalle altre prescrizioni di quegli anni. Con tutta la libertà di cui disponeva, e col tempo che la scuola gli lasciava per molte ore del giorno e per tutti i mesi dell’estate, Anselmo Bordigoni poteva coltivare i suoi piaceri e incrementare i suoi guadagni mettendo a profitto due profonde conoscenze connaturate alla sua personalità: la pesca e la musica. La pesca per lui era f orse più un riposo e un capriccio che un espediente per integrare il suo salario di maestro elementare. Gli rendeva sì e no in un anno una cinquantina di pasti a base di agoni, persici e alborelle. La musica, invece, oltre ad essere la sua grande passione, gli serviva come mezzo di sussistenza. Dava lezione di qualunque strumento, generalmente di flauto, di clarinetto o di cornetta a operai o barbieri con buona inclinazione, e di pianoforte a qualche figlio di famiglia. Le sue lezioni erano una o due al gi orno; e le impartiva sul tardi, a pesca finita, diffondendo sulla chioma degli ippocastani, dalla finestra aperta, le note del piano o del clarinetto. Dopo cena, alle otto in punto, andava a sedersi al pianoforte del Cinema Tiraboschi, sotto il bianco telo ne, con la schiena rivolta al pubblico. Attaccava subito a suonare mentre la gente entrava ancora, e si fermava solo dopo il primo tempo. Insieme al riaccendersi delle immagini sullo schermo riprendeva la musica, per sostare brevemente negli intervalli fra un tempo e l’altro, fino alla farsa finale. Cosa suonasse, nessuno era in grado di dirlo; ed era opinione comune che egli pestasse sui tasti come veniva, ispirandosi in qualche modo alle scene che vedeva succedersi sul telone, se pur gli era possibile ved ere qualche cosa stando ai piedi della ribalta. ",8.0,domanda aperta 200,"B1. Nel primo capoverso del testo, quale espressione è usata come sinonimo di acqua?",Risorse idriche,open question,196.0,['item_196_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,domanda aperta 201,"B10. Un Comitato dell'ONU ha dichiarato che ""l'accesso all'acqua è un diritto umano universale"". Che cosa significa l'espressione sottolineata? Per rispondere completa la frase che segue. L'acqua è un diritto.............",di tutte le persone,open question,205.0,['item_205_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,domanda aperta 202,"C3. Qual è la condizione perché un'affermazione possa essere ritenuta accettabile sul piano ù scientifico? Per rispondere completa, con una sola parola, la frase che segue. Un’affermazione, per essere accettata, deve poter essere",verificata,open question,208.0,['item_208_0.png'],2019_08_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,domanda aperta 203,"C5. Il pronome ""egli"", evidenziato nel testo, quale termine sostituisce?",universo,open question,210.0,['item_210_0.png'],2019_08_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,domanda aperta 204,"C6. Secondo Galilei, qual è lo strumento essenziale per comprendere l'universo? Rispondi con una sola parola (senza farla precedere dall'articolo).",matematica,open question,211.0,['item_211_0.png'],2019_08_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,domanda aperta 205,"C7. Nel testo Galileo è descritto con una serie di aggettivi. Due di essi sono riferiti a tratti della sua personalità che lo rendevano una persona con un ""brutto carattere"": quali? Scrivili qui sotto. 1. 2.","polemico, vendicativo",open question,212.0,['item_212_0.png'],2019_08_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,domanda aperta 206,"D5. Quale verbo utilizza l'autore col significato di ""rappresentare qualcuno o qualcosa secondo un modello che semplifica o modifica la realtà""?",stilizzare,open question,218.0,['item_218_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,domanda aperta 207,"E1. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Esempio: Edificio adibito ad abitazione dell’uomo: casa (nome che inizia per c) Buttarsi, lanciarsi in acqua: (verbo che inizia per t)",tuffarsi,open question,222.0,['item_222_0.png'],2019_08_SIM_E,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 208,"B1. In questa parte di testo, gli autori danno una definizione di “emozione”. Quale? Ricopia la definizione completa. ...........................................................................................................",Un’emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita,open question,300.0,['item_300_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,domanda aperta 209,"B3. Alla riga 7 si afferma “succede spessissimo”. Che cosa succede spessissimo? ................................................................................................",Che scatti un’emozione,open question,302.0,['item_302_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,domanda aperta 210,"B4. Il “sale della vita” (riga 15) è un’espressione figurata usata come titolo del terzo paragrafo e riferita alle emozioni. Per chiarire perché le emozioni sono considerate “sale della vita” completa la frase che segue con parole del testo. Come il sale serve a dare sapore ai cibi, così le emozioni servono ...............................................................................................................",rendere la vita interessante,open question,303.0,['item_303_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,domanda aperta 211,"A4. Basandoti sul grafico, rispondi alla seguente domanda: quali Paesi hanno contribuito maggiormente all’incremento demografico nel periodo dal 1950 al 2010?",I Paesi in via di sviluppo,open question,322.0,['item_322_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,domanda aperta 212,B8. L’espressione “Quelle persone senza volto” (evidenziata nel testo) a chi si riferisce?,compratori,open question,337.0,['item_337_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,domanda aperta 213,B12. Con quale fatto si conclude la vicenda raccontata?,la morte del protagonista,open question,341.0,['item_341_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,domanda aperta 214,"C5. Trova nella parte di testo evidenziata il termine che corrisponde a questa definizione: primo esemplare che serve da modello per la realizzazione successiva di prodotti in serie e riportalo nello spazio sottostante. Risposta: ....................",prototipo,open question,346.0,['item_346_0.png'],2018_08_SIM1_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. ",8.0,domanda aperta 215,"D6. Nelle frasi che seguono, tratte da scritti di studenti, la parola in grassetto non è quella corretta, anche se le assomiglia. Scrivi la parola che ha un suono simile a quella errata ed è appropriata rispetto al contesto della frase. È stato il momento più memoriale della mia vita!",memorabile,open question,355.0,['item_355_0.png'],2018_08_SIM1_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 216,"D1. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Correre dietro a qualcuno per raggiungerlo: (verbo che inizia con i)",Inseguire,open question,395.0,['item_395_0.png'],2018_08_SIM2_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 217,"D2. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Organismo vegetale nella sua prima fase di sviluppo da un seme o da una gemma: (nome che inizia con g)",Germoglio,open question,396.0,['item_396_0.png'],2018_08_SIM2_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 218,"D3. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione. Impedire o rendere difficile la realizzazione di qualcosa: (verbo che inizia con o) ",Ostacolare,open question,397.0,['item_397_0.png'],2018_08_SIM2_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 219,"A4. Nel primo capoverso del testo, quale espressione è usata come sinonimo di acqua?",Risorse idriche,open question,412.0,['item_412_0.png'],2018_08_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,domanda aperta 220,"E1. Scrivi la parola che corrisponde alla definizione buttarsi, lanciarsi in acqua: .................... (verbo che inizia per t)",Tuffarsi,open question,418.0,['item_418_0.png'],2018_08_DR_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 221,B3. L’autore afferma che il gufo “merita veramente il suo nome”: a quale nome si riferisce?,Gufo reale,open question,440.0,['item_440_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,domanda aperta 222,B5. A quale termine si riferiscono i due -lo di “asservirlo” e “renderlo innocuo” (parole evidenziate nel testo)?,nemico,open question,442.0,['item_442_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,domanda aperta 223,"B8. L’immagine del gufo gettato nello studio televisivo spinge l’autore a riflettere e, per analogia, a pensare alla sorte di ",tutte le creature,open question,445.0,['item_445_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,domanda aperta 224,C9. L’ “ombra” al verso 12 è una metafora che sta per,morte,open question,456.0,['item_456_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,domanda aperta 225,D1. Nel testo si dice: “la decisione politica divenne indispensabile” (espressione evidenziata). Di quale decisione si tratta?,schierarsi dalla parte dei fascisti o contro di loro,open question,458.0,['item_458_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,domanda aperta 226,D3. L’intervistatrice definisce la partecipazione dei ragazzi alla lotta partigiana in un modo che l’intervistato non condivide. Trascrivi la frase in cui Roberto Denti esprime il proprio dissenso.,La guerra non è un gioco,open question,460.0,['item_460_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,domanda aperta 227,D4. Per quale ragione la Resistenza chiedeva ai ragazzi-staffetta di controllare il colore delle mostrine dei soldati?,Per capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi,open question,461.0,['item_461_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,domanda aperta 228,A7. Perché la madre decide che la figlia deve andare a scuola da sola?,per renderla più autonoma,open question,498.0,['item_498_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,domanda aperta 229,"A11. Quando la protagonista è capace di trasgredire i principi educativi del padre? Solo quando ...............................................",Il padre è fuori casa,open question,502.0,['item_502_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,domanda aperta 230,"A16. La narratrice-protagonista afferma che “le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba” (righe 69-70). Per quale motivo le sgridate della maestra sembravano alla protagonista “un tubare di colomba”?","Perché era abituata alle sfuriate del padre, ben più dure e violente",open question,507.0,['item_507_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,domanda aperta 231,"B1. Chi sono i “nativi digitali”? Completa la frase ricopiando le parole del testo. L'espressione ""nativi digitali"" indica ....................",le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia,open question,512.0,['item_512_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,domanda aperta 232,"B4. Varie parole nel testo appartengono al campo semantico “lettura su carta” (ad esempio: libro, inchiostro…) e altre appartengono al campo semantico “lettura su schermo” (ad esempio: pixel, icona…). Nel testo da riga 41 a 49, un verbo che appartiene al campo della lettura su schermo viene però usato in riferimento alla lettura su carta. Quale verbo?",Navigare,open question,515.0,['item_515_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,domanda aperta 233,B7. Perché è importante che i bambini imparino a scrivere a mano e non utilizzando una tastiera?,solo così si attivano i circuiti cerebrali dedicati alla lettura,open question,518.0,['item_518_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,domanda aperta 234,"B3. L’autore afferma che il gufo “merita veramente il suo nome”: a quale nome si riferisce?",Gufo reale,open question,542.0,['item_542_0.png'],2017_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011) ",10.0,domanda aperta 235,"B5. A quale termine si riferiscono i due -lo di “asservirlo” e “renderlo innocuo” (riga 14)?",nemico,open question,544.0,['item_544_0.png'],2017_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011) ",10.0,domanda aperta 236,"B8. L’immagine del gufo gettato nello studio televisivo spinge l’autore a riflettere e, per analogia, a pensare alla sorte di",tutte le creature,open question,547.0,['item_547_0.png'],2017_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011) ",10.0,domanda aperta 237,"D1. Alle righe 8-9 si dice: “la decisione politica divenne indispensabile”. Di quale decisione si tratta?",di schierarsi dalla parte dei fascisti o contro di loro,open question,558.0,['item_558_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,domanda aperta 238,"D3. L’intervistatrice definisce la partecipazione dei ragazzi alla lotta partigiana in un modo che l’intervistato non condivide. Trascrivi la frase in cui Roberto Denti esprime il proprio dissenso.",La guerra non è un gioco,open question,560.0,['item_560_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,domanda aperta 239,"D4. Per quale ragione la Resistenza chiedeva ai ragazzi-staffetta di controllare il colore delle mostrine dei soldati?",Per capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi,open question,561.0,['item_561_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,domanda aperta 240,"B16. In questa storia c’e` qualcuno che si comporta in modo piu` furbo del solito e qualcuno che prima e` sfortunato, ma poi ha fortuna. Scrivi chi e` l’uno e chi e` l’altro. A. Chi si comporta in modo ""più furbo del solito"" è .................... B. Chi prima è sfortunato, ma poi ""ha fortuna"" è ....................","volpe, lepre",open question,593.0,['item_593_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,domanda aperta 241,B2. All’inizio del paragrafo si parla di uno “strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie” (righe 1-2). Di quale strumento si tratta?,piramide dell’attività motoria,open question,617.0,['item_617_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,domanda aperta 242,"A9. I fratelli avevano verso gli incubi di Elsa un atteggiamento contraddittorio. Completa la frase qui sotto, copiando dal testo le parole da cui emerge questa contraddizione. I suoi fratelli prima .................... ma poi ....................","I suoi fratelli prima si precipitavano al suo lettino, ma poi si guardavano fissi sbottando a ridere",open question,649.0,['item_649_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,domanda aperta 243,"A14. Gli aggettivi elencati sotto si trovano nel testo da riga 46 a riga 54. Due di questi aggettivi sono sinonimi. Quali? Sottolineali. arguto / gioviale / estatico / rapito","estatico, rapito",open question,654.0,['item_654_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,domanda aperta 244,A17. Il testo narra di situazioni e fatti che si ripetono piu` volte nel passato. Quale modo e tempo verbale viene usato per sottolineare questa ripetitivita`?,Indicativo imperfetto,open question,657.0,['item_657_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,domanda aperta 245,"B15. Perche´ Canada, Australia e Russia vengono aggiunti nel testo all’elenco dei Paesi “virtuosi”?","Consumano molto, ma dispongono di enormi risorse",open question,673.0,['item_673_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,domanda aperta 246,B18. Trova la frase che risponde alla domanda posta nella parte iniziale del testo (righe 6-8) e ricopiala qui sotto.,La risposta non potrà essere che negativa,open question,676.0,['item_676_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,domanda aperta 247,"A2. Trascrivi le tre espressioni usate nel testo per indicare il contrario di “verità piena” 1. .................... 2. .................... 3. ....................",menzogna totale - menzogna conclamata - panzana pazzesca,open question,687.0,['item_687_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,domanda aperta 248,A7. L’autore ritiene che ci sono informazioni che non ammettono discussione. Trascrivi la frase che esprime questa opinione.,"esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli",open question,692.0,['item_692_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,domanda aperta 249,"B7. Alla fine del terzo capoverso il Giai e` “allegro, ride, e` bello”. A chi appare cosi` e perche´?",Individua che appare cosi` alla moglie che lo ricorda al tempo del loro innamoramento,open question,704.0,['item_704_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,domanda aperta 250,B11. Nell'ultimo capoverso del testo è presente una similitudine. Trascrivila.,come un passero,open question,708.0,['item_708_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,domanda aperta 251,"D5. Fra queste parole individua e sottolinea i due intrusi, cioe` i nomi che non corrispondono alle caratteristiche della democrazia descritte dall’autore: confronto / cultura / dialogo / informazione / liberalismo / partecipazione / patriottismo / rispetto","liberalismo, patriottismo",open question,714.0,['item_714_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,domanda aperta 252,A1. Dove si svolge la storia che hai letto?,Amsterdam,open question,751.0,['item_751_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,domanda aperta 253,"A11. Nel testo, da riga 35 a riga 44, il funerale viene descritto in tutta la sua tristezza, ma qualcosa e` fuori luogo. Che cosa? Copialo dal testo oppure riscrivilo con parole tue.",stava calcolando tra se´ quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone,open question,761.0,['item_761_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,domanda aperta 254,A14. Qual è l’errore che il protagonista ha fatto? Scrivilo sulle righe qui sotto.,credere che Kannitverstan fosse il nome di una persona oppure del proprietario,open question,764.0,['item_764_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,domanda aperta 255,B2. “E` il nostro cervello che ci obbliga a farlo” (riga 1). Che cosa ci obbliga a fare il nostro cervello?,ci obbliga a dormire,open question,771.0,['item_771_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,domanda aperta 256,"C10. Completa la frase in modo appropriato utilizzando un pronome relativo. “Ho incontrato Luca, ………………………………….. sono andata al parco”.",con cui,open question,793.0,['item_793_0.png'],2014_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,5.0,domanda aperta 257,A1. In quale Paese e` ambientata la vicenda narrata nel testo?,Algeria,open question,794.0,['item_794_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,domanda aperta 258,"A9. Alle righe 30-31 si legge “Allora ci soffrivo parecchio”. A che cosa si riferisce il pronome “ci”? Al fatto di ....................",Al fatto di non essere accettato dai compagni,open question,802.0,['item_802_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,domanda aperta 259,A12. Quale parola e` usata nel testo per indicare il gruppo dei coetanei che il protagonista lascia quando va alla scuola secondaria?,Tribù,open question,805.0,['item_805_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,domanda aperta 260,A18. Che cosa ha di diverso per il protagonista “questo Mediterraneo” (riga 55) rispetto a quello di quando era ragazzo?,odore,open question,811.0,['item_811_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,domanda aperta 261,B3. Quale aggettivo viene utilizzato nel primo capoverso come sinonimo di “giapponese”?,Nipponico,open question,816.0,['item_816_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,domanda aperta 262,B11. Con quale termine del linguaggio scientifico viene indicata la lunghezza del periodo di luce nel corso della giornata?,Fotoperiodo,open question,824.0,['item_824_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,domanda aperta 263,"B13. Nella frase “per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa” (riga 40), a quale decisione ci si riferisce?",Alla decisione di introdurre l’ora legale,open question,826.0,['item_826_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,domanda aperta 264,"C1. L'articolo fa riferimento ad alcuni fatti avvenuti nell'estate di un anno preciso. Quale? Anno ..........",2012,open question,873.0,['item_873_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,domanda aperta 265,C6. Alla riga 16 si dice “di allora”. A quale periodo di tempo si riferisce questa espressione? Ricerca e ricopia le parole a cui l'espressione si riferisce.,dal primo dopoguerra agli anni ‘80,open question,878.0,['item_878_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,domanda aperta 266,"C13. Durante l’estate citata nell’articolo, di quanto si e` ridotto in media lo spessore dei ghiacciai alpini italiani?",due metri,open question,885.0,['item_885_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,domanda aperta 267,A1. Dove finiva spesso il pallone?,Sul balcone,open question,965.0,['item_965_0.png'],2013_06_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"ITA06F1 3 COME SONO DIVENTATO PORTIERE Mi avevano fatto giocare con loro perché recuperavo la palla ovunque finiva. Una destinazione abituale era il balcone di un appartamento abbandonato del primo piano. La voce era che ci abitava un fantasma. I vecchi palazzi contenevano botole murate, passaggi segreti, delitti e amori. I vecchi palazzi erano nidi di fantasmi. Andò così la prima volta che salii al balcone. Dal finestrino a piano terra del cortile dove abitavo, il pomeriggio guardavo il gioco dei più grandi. Il pallone calciato male schizzò in alto e finì sul terrazzino di quel primo piano. Era perduto, un superflex paravinil1 un po’ sgonfio per l’uso. Mentre bisticciavano sul guaio, mi affacciai e chiesi se mi facevano giocare con loro. Sì, se ci compri un altro pallone. No, con quello, risposi. Incuriositi accettarono. Mi arrampicai lungo il tubo dell’acqua che passava accanto al terrazzino e proseguiva in cima. Era piccolo e fissato al muro con dei morsetti arrugginiti. Cominciai a salire, il tubo era coperto da polvere, la presa era meno sicura di quello che mi ero immaginato. Mi ero impegnato, ormai. Guardai in su: dietro i vetri di una finestra del terzo piano c’era lei, la bambina che cercavo sempre di sbirciare. Era al suo posto, la testa appoggiata sulle mani. Di solito guardava il cielo, in quel momento no, guardava giù. Dovevo continuare e continuai. Per un bambino cinque metri sono un precipizio. Scalai il tubo puntando i piedi sui morsetti fino all’altezza del terrazzino. Sotto di me si erano azzittiti i commenti. Allungai la mano sinistra per arrivare alla ringhiera di ferro, mi mancava un palmo. In quel punto dovevo fidarmi dei piedi e stendere il braccio che teneva il tubo. Decisi di farlo di slancio e ci arrivai con la sinistra. Ora dovevo portarci la destra. Strinsi forte la presa sul ferro del terrazzo e buttai la destra ad afferrare. Persi l’appoggio dei piedi: le mani ressero per un momento il corpo nel vuoto, poi subito un ginocchio, poi due piedi e scavalcai. Com’è che non avevo avuto paura? Capii che la mia paura era timida, per uscire allo scoperto aveva bisogno di stare da sola. Lì invece c’erano gli occhi dei bambini sotto e quelli di lei sopra. La mia paura si vergognava di uscire. Si sarebbe vendicata dopo, la sera nel buio del letto, col fruscio dei fantasmi nel vuoto. Buttai il pallone di sotto, ripresero a giocare senza badare a me. La discesa era più facile, potevo stendere la mano verso il tubo contando su due buoni appoggi per i piedi sul bordo del terrazzino. Prima di allungarmi verso il tubo guardai veloce al terzo piano. Mi ero offerto all’impresa per desiderio che si accorgesse di me, minuscolo scopettino da cortile. Era lì con gli occhi sbarrati, È un tipo di pallone da calcio, in uso negli anni Cinquanta del Novecento. prima che potessi azzardare un sorriso era scomparsa. Stupido a guardare se lei stava guardando. Bisognava crederci senza controllare, come si fa con gli angeli custodi. Mi arrabbiai con me buttandomi lungo il tubo in discesa per togliermi da quel palcoscenico. Sotto mi aspettava il premio, l’ammissione al gioco. Mi misero in porta e fu così deciso il mio ruolo, sarei diventato portiere. Da quel giorno mi chiamarono “ ’a scigna”, la scimmia. Mi tuffavo in mezzo ai loro piedi per afferrare la palla e salvare la porta. Il portiere è l’ultima difesa, dev’essere l’eroe della trincea. Prendevo calci sulle mani, in faccia, non piangevo. Ero fiero di giocare coi più grandi, che avevano nove e anche dieci anni. Capitò altre volte il pallone sul terrazzino, ci arrivavo in meno di un minuto. Davanti alla porta da difendere c’era una pozzanghera, per una perdita d’acqua. All’inizio del gioco era limpida, potevo vederci di riflesso la bambina ai vetri, mentre la mia squadra attaccava. Non l’avevo mai incontrata, non sapevo com’era il resto del corpo, sotto la faccia appoggiata alle mani. Nei giorni di sole dal mio finestrino arrivavo a risalire a lei attraverso un rimbalzo di vetri. Restavo a guardarla finché non mi lacrimavano gli occhi per la luce. Da poco in un appartamento del palazzo era arrivato un apparecchio televisivo. Sentivo dire che si vedevano persone e animali che si muovevano ma senza i colori. Invece io potevo guardare la bambina con tutto il marrone dei capelli, il verde del vestito, il giallo che ci metteva il sole. (Tratto e adattato da: E. De Luca, Il giorno prima della felicità, Milano, Feltrinelli, 2011) ",6.0,domanda aperta 268,"A2. Nelle frasi “Mi avevano fatto giocare con loro”, “Mentre bisticciavano sul guaio” e “Incuriositi accettarono”, il soggetto è sottinteso. Di chi si sta parlando?",Dei ragazzi più grandi,open question,966.0,['item_966_0.png'],2013_06_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"ITA06F1 3 COME SONO DIVENTATO PORTIERE Mi avevano fatto giocare con loro perché recuperavo la palla ovunque finiva. Una destinazione abituale era il balcone di un appartamento abbandonato del primo piano. La voce era che ci abitava un fantasma. I vecchi palazzi contenevano botole murate, passaggi segreti, delitti e amori. I vecchi palazzi erano nidi di fantasmi. Andò così la prima volta che salii al balcone. Dal finestrino a piano terra del cortile dove abitavo, il pomeriggio guardavo il gioco dei più grandi. Il pallone calciato male schizzò in alto e finì sul terrazzino di quel primo piano. Era perduto, un superflex paravinil1 un po’ sgonfio per l’uso. Mentre bisticciavano sul guaio, mi affacciai e chiesi se mi facevano giocare con loro. Sì, se ci compri un altro pallone. No, con quello, risposi. Incuriositi accettarono. Mi arrampicai lungo il tubo dell’acqua che passava accanto al terrazzino e proseguiva in cima. Era piccolo e fissato al muro con dei morsetti arrugginiti. Cominciai a salire, il tubo era coperto da polvere, la presa era meno sicura di quello che mi ero immaginato. Mi ero impegnato, ormai. Guardai in su: dietro i vetri di una finestra del terzo piano c’era lei, la bambina che cercavo sempre di sbirciare. Era al suo posto, la testa appoggiata sulle mani. Di solito guardava il cielo, in quel momento no, guardava giù. Dovevo continuare e continuai. Per un bambino cinque metri sono un precipizio. Scalai il tubo puntando i piedi sui morsetti fino all’altezza del terrazzino. Sotto di me si erano azzittiti i commenti. Allungai la mano sinistra per arrivare alla ringhiera di ferro, mi mancava un palmo. In quel punto dovevo fidarmi dei piedi e stendere il braccio che teneva il tubo. Decisi di farlo di slancio e ci arrivai con la sinistra. Ora dovevo portarci la destra. Strinsi forte la presa sul ferro del terrazzo e buttai la destra ad afferrare. Persi l’appoggio dei piedi: le mani ressero per un momento il corpo nel vuoto, poi subito un ginocchio, poi due piedi e scavalcai. Com’è che non avevo avuto paura? Capii che la mia paura era timida, per uscire allo scoperto aveva bisogno di stare da sola. Lì invece c’erano gli occhi dei bambini sotto e quelli di lei sopra. La mia paura si vergognava di uscire. Si sarebbe vendicata dopo, la sera nel buio del letto, col fruscio dei fantasmi nel vuoto. Buttai il pallone di sotto, ripresero a giocare senza badare a me. La discesa era più facile, potevo stendere la mano verso il tubo contando su due buoni appoggi per i piedi sul bordo del terrazzino. Prima di allungarmi verso il tubo guardai veloce al terzo piano. Mi ero offerto all’impresa per desiderio che si accorgesse di me, minuscolo scopettino da cortile. Era lì con gli occhi sbarrati, È un tipo di pallone da calcio, in uso negli anni Cinquanta del Novecento. prima che potessi azzardare un sorriso era scomparsa. Stupido a guardare se lei stava guardando. Bisognava crederci senza controllare, come si fa con gli angeli custodi. Mi arrabbiai con me buttandomi lungo il tubo in discesa per togliermi da quel palcoscenico. Sotto mi aspettava il premio, l’ammissione al gioco. Mi misero in porta e fu così deciso il mio ruolo, sarei diventato portiere. Da quel giorno mi chiamarono “ ’a scigna”, la scimmia. Mi tuffavo in mezzo ai loro piedi per afferrare la palla e salvare la porta. Il portiere è l’ultima difesa, dev’essere l’eroe della trincea. Prendevo calci sulle mani, in faccia, non piangevo. Ero fiero di giocare coi più grandi, che avevano nove e anche dieci anni. Capitò altre volte il pallone sul terrazzino, ci arrivavo in meno di un minuto. Davanti alla porta da difendere c’era una pozzanghera, per una perdita d’acqua. All’inizio del gioco era limpida, potevo vederci di riflesso la bambina ai vetri, mentre la mia squadra attaccava. Non l’avevo mai incontrata, non sapevo com’era il resto del corpo, sotto la faccia appoggiata alle mani. Nei giorni di sole dal mio finestrino arrivavo a risalire a lei attraverso un rimbalzo di vetri. Restavo a guardarla finché non mi lacrimavano gli occhi per la luce. Da poco in un appartamento del palazzo era arrivato un apparecchio televisivo. Sentivo dire che si vedevano persone e animali che si muovevano ma senza i colori. Invece io potevo guardare la bambina con tutto il marrone dei capelli, il verde del vestito, il giallo che ci metteva il sole. (Tratto e adattato da: E. De Luca, Il giorno prima della felicità, Milano, Feltrinelli, 2011) ",6.0,domanda aperta 269,A7. Perchè Nenè non si ribella quando Arturo lo spinge nel bagno? Ricopia dal testo la frase che spiega il comportamento di Nenè.,"era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane",open question,1016.0,['item_1016_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,domanda aperta 270,"A14. Nel finale del racconto, Arturo dice una frase che dimostra che lui in realtà non ha capito quello che è successo in casa sua. Trova la frase e ricopiala qui sotto.",Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia,open question,1023.0,['item_1023_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,domanda aperta 271,A15. Chi ha riparato lo sciacquone rotto?,Nenè,open question,1024.0,['item_1024_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,domanda aperta 272,B2. Perche´ fino al 1950 “la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale” (righe 3-4)?,Fino ad allora una grossa stalagmite ostruiva il passaggio fra la parte iniziale della grotta e la parte piu` interna,open question,1029.0,['item_1029_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,domanda aperta 273,"B12. Perche´, durante il letargo, gli orsi hanno bisogno di respirare aria umida? Per rispondere, completa la frase seguente. Perché mentre dormono gli orsi non ........................................ mai.",Bevono,open question,1039.0,['item_1039_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,domanda aperta 274,B16. Perche´ gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta della Ba`sura?,Perche´ c’era piu` caldo,open question,1043.0,['item_1043_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,domanda aperta 275,B18. Come mai gli orsi delle caverne avevano potuto andare verso il fondo della grotta della Ba`sura se il passaggio nel 1950 era ancora bloccato da una grande stalagmite?,All’epoca in cui vivevano gli orsi delle caverne la stalagmite non c’era ancora,open question,1045.0,['item_1045_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,domanda aperta 276,"C9. Leggi la frase seguente: “Se non fossimo stati costretti a rimanere a casa, oggi saremmo andati al mare”. Se tu non conoscessi il significato dell’espressione sottolineata, che cosa andresti a cercare sul dizionario? …………………………………………………………………………………………………………………",costringere,open question,1054.0,['item_1054_0.png'],2012_06_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,6.0,domanda aperta 277,A9. L’espressione “Quelle persone senza volto” (riga 28) a chi si riferisce?,compratori,open question,1063.0,['item_1063_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,domanda aperta 278,"B5. Trova nelle righe da 26 a 32 il termine che corrisponde a questa definizione: primo esemplare che serve da modello per la realizzazione successiva di prodotti in serie. Risposta: ……………………......................................",prototipo,open question,1081.0,['item_1081_0.png'],2012_08_PN_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA) ",8.0,domanda aperta 279,C2. Quale informazione riportata sul biglietto permette di dire che chi viaggia in treno difende l’ambiente?,risparmi circa 54kg di CO2,open question,1086.0,['item_1086_0.png'],2012_08_PN_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie"" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie"" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni ",8.0,domanda aperta 280,"C6. In base a quanto si dice sul retro del biglietto, che cosa bisogna fare per avere più informazioni sulle Condizioni Generali di trasporto?",Rivolgersi alla biglietteria delle stazioni,open question,1090.0,['item_1090_0.png'],2012_08_PN_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie"" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie"" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni ",8.0,domanda aperta 281,A3. Qual è il momento migliore per assumere Sportase?,Durante o immediatamente dopo l’attivita` fisica,open question,1106.0,['item_1106_0.png'],2012_10_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Sportase Integratore energetico salino L’ATTIVITÀ FISICO-SPORTIVA Praticare una regolare attività sportiva migliora lo stato di benessere e di salute del nostro organismo. Ma chi pratica sport notoriamente suda molto e con il sudore elimina sia molta acqua; che deve essere reintrodotta rapidamente; sia diversi sali minerali; che devono essere reintegrati. LA FATICA Durante l’attività fisica si verifica un notevole incremento della produzione di calore; con aumento progressivo della temperatura corporea. Una temperatura troppo elevata; oltre a costringere lo sportivo a interrompere lo sforzo; è pericolosa per la salute. La perdita di acqua con il sudore è accompagnata da quella di sali minerali che altera la capacità delle cellule di trasmettere lo stimolo nervoso. È quindi possibile che perdite importanti di sali minerali facciano diminuire la capacità di prestazione dello sportivo e; insieme con la perdita di zuccheri e di liquidi; possano determinare un quadro di fatica acuta. In conclusione; quando lo sforzo è intenso e prolungato; la reintegrazione con acqua; sali minerali ed elementi energetici zuccherini rappresenta un metodo per ritardare l?insorgenza della fatica e per evitare danni all?organismo . L’IMPORTANZA DEGLI ZUCCHERI Durante lo svolgimento di attività fisica il muscolo trae energia dalle riserve di zuccheri; che costituiscono una fonte di energia rapidamente disponibile; che però viene altrettanto rapidamente consumata. SPORTASE contiene maltodestrine e fruttosio; due carboidrati (tipi di zuccheri) a rapido assorbimento; che reintegrano le riserve muscolari di glicogeno; un materiale che il nostro organismo produce come riserva energetica. L’IMPORTANZA DEI SALI MINERALI Con il sudore si perdono soprattutto sodio; potassio; magnesio e cloro; importanti nella regolazione dell’equilibrio organico. In particolare; durante la pratica di attività sportiva si verifica una perdita di potassio dai muscoli che può determinare la comparsa di crampi e debolezza muscolare. SPORTASE contiene sia potassio sia magnesio e perciò la sua assunzione in corso di attività fisica permetterà di ridurre l?affaticamento muscolare; consentendo un recupero funzionale più rapido. Modalità d'uso; indicazioni e posologia di SPORTASE MODALITÀ D'USO. sciogliere una bustina in 500 ml di acqua (bottiglia o borraccia da mezzo litro) e mescolare/agitare bene. Si otterrà una bevanda energetico-salina di pronta utilizzazione ideale nei casi d’intensa attività fisica sia agonistica che amatoriale. INDICAZIONI. Sportase reintegra i sali minerali persi con la sudorazione e; grazie al potassio e al magnesio; esplica un’efficace azione sulla contrazione muscolare. Inoltre fornisce energia derivante dalla presenza di carboidrati; quali fruttosio e maltodestrine. POSOLOGIA. Sportase deve essere assunto durante o immediatamente dopo l’attività fisica. Si consiglia di non superare 3 bustine al giorno. ",10.0,domanda aperta 282,A5. Qual è la dose massima di Sportase che puo` essere assunta giornalmente?,3 bustine,open question,1108.0,['item_1108_0.png'],2012_10_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Sportase Integratore energetico salino L’ATTIVITÀ FISICO-SPORTIVA Praticare una regolare attività sportiva migliora lo stato di benessere e di salute del nostro organismo. Ma chi pratica sport notoriamente suda molto e con il sudore elimina sia molta acqua; che deve essere reintrodotta rapidamente; sia diversi sali minerali; che devono essere reintegrati. LA FATICA Durante l’attività fisica si verifica un notevole incremento della produzione di calore; con aumento progressivo della temperatura corporea. Una temperatura troppo elevata; oltre a costringere lo sportivo a interrompere lo sforzo; è pericolosa per la salute. La perdita di acqua con il sudore è accompagnata da quella di sali minerali che altera la capacità delle cellule di trasmettere lo stimolo nervoso. È quindi possibile che perdite importanti di sali minerali facciano diminuire la capacità di prestazione dello sportivo e; insieme con la perdita di zuccheri e di liquidi; possano determinare un quadro di fatica acuta. In conclusione; quando lo sforzo è intenso e prolungato; la reintegrazione con acqua; sali minerali ed elementi energetici zuccherini rappresenta un metodo per ritardare l?insorgenza della fatica e per evitare danni all?organismo . L’IMPORTANZA DEGLI ZUCCHERI Durante lo svolgimento di attività fisica il muscolo trae energia dalle riserve di zuccheri; che costituiscono una fonte di energia rapidamente disponibile; che però viene altrettanto rapidamente consumata. SPORTASE contiene maltodestrine e fruttosio; due carboidrati (tipi di zuccheri) a rapido assorbimento; che reintegrano le riserve muscolari di glicogeno; un materiale che il nostro organismo produce come riserva energetica. L’IMPORTANZA DEI SALI MINERALI Con il sudore si perdono soprattutto sodio; potassio; magnesio e cloro; importanti nella regolazione dell’equilibrio organico. In particolare; durante la pratica di attività sportiva si verifica una perdita di potassio dai muscoli che può determinare la comparsa di crampi e debolezza muscolare. SPORTASE contiene sia potassio sia magnesio e perciò la sua assunzione in corso di attività fisica permetterà di ridurre l?affaticamento muscolare; consentendo un recupero funzionale più rapido. Modalità d'uso; indicazioni e posologia di SPORTASE MODALITÀ D'USO. sciogliere una bustina in 500 ml di acqua (bottiglia o borraccia da mezzo litro) e mescolare/agitare bene. Si otterrà una bevanda energetico-salina di pronta utilizzazione ideale nei casi d’intensa attività fisica sia agonistica che amatoriale. INDICAZIONI. Sportase reintegra i sali minerali persi con la sudorazione e; grazie al potassio e al magnesio; esplica un’efficace azione sulla contrazione muscolare. Inoltre fornisce energia derivante dalla presenza di carboidrati; quali fruttosio e maltodestrine. POSOLOGIA. Sportase deve essere assunto durante o immediatamente dopo l’attività fisica. Si consiglia di non superare 3 bustine al giorno. ",10.0,domanda aperta 283,B7. Riformula la frase “i più rifiutavano” (riga 28) sostituendo le parole “i più” in modo che il senso della frase resti invariato:,La maggior parte dei signori,open question,1115.0,['item_1115_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,domanda aperta 284,B11. Il vecchio Andurro ha un cuore generoso. Riporta una frase del testo da cui lo si capisce.,voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto,open question,1119.0,['item_1119_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,domanda aperta 285,C6. C’e` un elemento della scena che il poeta dichiara di non saper descrivere. Quale?,volti,open question,1130.0,['item_1130_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,domanda aperta 286,D2. La parola OKKIO è stata formata unendo scherzosamente due parole. Quali?,"OK, occhio",open question,1140.0,['item_1140_0.png'],2012_10_SNV_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24) ",10.0,domanda aperta 287,E1. Quali sono le risorse naturali che rischiano di essere sprecate a causa dei due “comportamenti ad alto impatto ambientale” denunciati nel testo?,"Acqua, fonti di energia",open question,1149.0,['item_1149_0.png'],2012_10_SNV_E,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Contribuire allo sviluppo sostenibile: due suggerimenti di sofiaf98 Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo della società che non compromette la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni. Perché un processo sia sostenibile deve utilizzare le risorse ad un ritmo tale che esse possano rigenerarsi naturalmente. È necessario adottare un comportamento etico basato su attività che rientrino nell’ottica della sostenibilità, in modo da raggiungere un equilibrio tra le esigenze dell’uomo e quelle della natura. In questo anche la scuola può fare qualcosa. Ho analizzato comportamenti ad alto impatto ambientale nella mia scuola e ne ho individuati due: eccessivo consumo di acqua e cattivo uso del riscaldamento. Primo problema: nei bagni scolastici si spreca molta acqua. Per ottimizzare il risparmio idrico, propongo l’installazione di riduttori di flusso. Il riduttore per rubinetto, che viene inserito al posto del normale “frangigetto”, è un meccanismo piccolo ma estremamente raffinato: un sistema di riduzione di flusso in vari livelli che frammenta l’acqua in minuscole particelle e la miscela con aria. Il volume del getto si mantiene corposo e confortevole, in questo modo si consuma circa la metà dell’acqua, pur garantendo il mantenimento della stessa pressione di uscita. Con un intervento molto semplice ed economico è possibile risparmiare fino al 50% dell’acqua calda e fredda! Secondo problema: cattivo uso del riscaldamento. I termosifoni funzionano in maniera non razionale. In particolare, quando la temperatura si alza, i radiatori continuano a funzionare. È opportuno avere un controllo diretto sui termosifoni che permetta di regolarli a seconda dei casi, per evitare sprechi. L’utilizzo di valvole termostatiche su tutti i radiatori consente di regolare automaticamente l’afflusso di acqua calda in base alla temperatura scelta ed impostata su una apposita manopola graduata. Se la temperatura ambientale supera quella impostata, la valvola strozza l’afflusso di acqua calda, dirottandola verso altri radiatori e impedendo così il verificarsi di sovratemperature fastidiose. Questo accorgimento consente un risparmio energetico fino al 20% ed un risparmio economico consistente se si pensa che 1°C di sovratemperatura implica una maggior spesa di riscaldamento di circa il 6-7%. (Tratto e adattato da: http://scuola.repubblica.it/contributo/due-suggerimenti-semplici/4298/?id_contrib=17, 22-03-2011) ",10.0,domanda aperta 288,"A4. Dove viveva la protagonista prima di andare a Mantova? Scrivilo: …………………………….",Torino,open question,1251.0,['item_1251_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,domanda aperta 289,"C6. Completa la frase seguente con il verbo indicato tra parentesi nella forma corretta. Se non lo avessi visto con i miei occhi, non ci ………………….. (credere)",avrei creduto,open question,1289.0,['item_1289_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,6.0,domanda aperta 290,"A18. Nella parola “diventarlo”, alla riga 69, il pronome “lo” quali parole del testo sostituisce? Trascrivile sulla riga qui sotto. ………………………………………………………………………",essere amico di un altro,open question,1311.0,['item_1311_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,domanda aperta 291,"C4. Completa la frase seguente con la forma opportuna del verbo fare. Temo che ieri Mario non ……………………… bene il compito in classe. ",abbia fatto,open question,1334.0,['item_1334_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 292,"C7. Trasforma il discorso diretto (tra virgolette) in discorso indiretto, riscrivendolo sulle righe sottostanti. Le Nazioni Unite avevano annunciato: “Entro un anno invieremo una forza di pace”.» Le Nazioni Unite avevano annunciato che......................................... ................................................................................. .................................................................................",entro un anno avrebbero inviato una forza di pace.,open question,1337.0,['item_1337_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 293,"A2. Nelle prime 5 righe del testo, quali sono le azioni che fanno meglio capire la furbizia della volpe? Individuane almeno due e trascrivile di seguito. .....................................................................................................................................................................................................................................................................................................................","si mimetizza, si finge morta",open question,1434.0,['item_1434_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,domanda aperta 294,"A3. Nell’espressione “bisogna lasciarle tutto il tempo” (riga 5) a quale parola del testo si riferisce il pronome le? Trascrivila di seguito. ....................................................................................................... ....................................................................................................... .......................................................................................................",preda,open question,1435.0,['item_1435_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,domanda aperta 295,"A13. Come cambia il giudizio della volpe sul riccio nel corso della vicenda? Individua e trascrivi, nell’ordine, almeno due aggettivi che indicano tale cambiamento. .......................................................... .......................................................... .......................................................... .......................................................... ..........................................................","prudente, compunto",open question,1445.0,['item_1445_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,domanda aperta 296,"B3. Alle righe 17-18 si legge “il che incide negativamente sulle capacità di comprensione”. A quale frase si riferisce “il che”? Ricopiala.",gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi,open question,514.0,['item_514_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,domanda aperta 297,"C9. Leggi il seguente periodo. “Quando ci siamo incontrati mi hai detto che mi avresti telefonato, ma poi non l’hai fatto e così, dato che non avevo più tue notizie, mi sono preoccupata”. Quante frasi ci sono in tutto? ………………………………………………………..",Sei,open question,533.0,['item_533_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,,8.0,domanda aperta 298,"A5. L’autore interviene nel racconto dicendo di essere d’accordo con quanto pensa la madre dell’abitudine di Martina. Da riga 15 a riga 17, quale frase dimostra chiaramente che l’autore è d’accordo con la madre? Ricopia le parole del testo.",e non aveva poi tutti i torti,open question,109.0,['item_109_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,domanda aperta 299,"A7. La promessa di Martina è la “migliore possibile” per due ragioni: la prima è che ha buone probabilità di convincere la mamma; qual è la seconda ragione? Riporta la frase del testo che lo dice.",Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande,open question,111.0,['item_111_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,domanda aperta 300,"A10. Alle righe 30-31 si legge “I piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto”. Quale fatto del racconto indica che il piano di Martina si è rivelato perfetto? Rispondi trascrivendo le parole del testo.",un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni,open question,114.0,['item_114_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,domanda aperta 301,"B5. Leggi il testo nel riquadro. Che cosa avrebbe dovuto fare l’orso dopo essere entrato nella tana? Copia il pezzetto che dice che cosa avrebbe dovuto fare. L'orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita ....................................................................................................................................... .......................................................................................................................................","mettersi in letargo, lunga dormita",open question,149.0,['item_149_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,domanda aperta 302,"A1. Il titolo dice che Polipetto ha un problema e l’inizio del racconto spiega di che cosa si tratta. Qual è il problema di Polipetto? A. Non gli piace più la sua casa B. Non può più entrare in casa sua C. La sua casa si è riempita di animali D. La sua casa non è più ordinata come prima",B,multiple choice,0.0,['item_0_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 303,"A2. Le prime tre righe del racconto parlano della vita di Polipetto nel suo ambiente. Quale frase spiega in poche parole come viveva Polipetto? A. Aveva ciò che gli serviva e trascorreva i giorni serenamente B. Passava tutto il tempo senza fare nulla perché era molto pigro C. Spiava tutto il giorno da casa sua gli altri abitanti del mare D. Lavorava tutto il giorno per rendere più bella la sua casetta",A,multiple choice,1.0,['item_1_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 304,"A6. Dal testo ti puoi fare un’idea di chi è un “intruso”. Chi è? A. È qualcuno che passa il proprio tempo a spaventare gli altri B. È qualcuno che si nasconde C. È qualcuno che entra in un posto dove non dovrebbe stare D. È qualcuno che vuole stare in un luogo da solo",C,multiple choice,5.0,['item_5_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 305,"A7. Pesce Ago e Pesce Riccio consigliano a Polipetto di pungere l’intruso. Perché proprio loro due danno questo stesso consiglio? A. Sono due animali che fanno dispetti agli altri B. Uno è abituato a ripetere quello che dice l’altro C. Hanno tutti e due qualcosa di appuntito D. Tutti e due vogliono liberarsi in fretta di Polipetto",C,multiple choice,6.0,['item_6_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 306,"A8. Gli animali del mare danno consigli diversi a Polipetto. A che cosa pensa ogni animale quando dà il suo consiglio a Polipetto? A. Ogni animale pensa a quello che farebbe lui se fosse al posto di Polipetto B. Ogni animale pensa a quello che Polipetto sa fare meglio C. Ogni animale pensa a quello che possono fare tutti insieme gli animali D. Ogni animale pensa a quello che farebbe Oceano per aiutare Polipetto",A,multiple choice,7.0,['item_7_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 307,"A9. Polipetto riceve tanti consigli dagli altri animali del mare. Che cosa pensa Polipetto dei consigli che riceve? A. Sono preziosi e lui li accetta volentieri B. Sono difficili da mettere in pratica, ma lui ci proverà C. Sono pochi e vorrebbe che fossero più numerosi D. Sono inutili per lui e lo fanno stare male",D,multiple choice,8.0,['item_8_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 308,"A10. Il grande Oceano è l'unico che aiuta veramente Polipetto. Che cosa fa per aiutarlo? A. Cerca di risolvere il problema al posto di Polipetto B. Spinge Polipetto a trovare lui stesso la soluzione del problema C. Indica qual è il consiglio da seguire tra tutti quelli dati a Polipetto D. Spiega a Polipetto tutte le possibili soluzioni per il suo problema",B,multiple choice,9.0,['item_9_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 309,"A12. Alla fine Polipetto dice che se avesse saputo subito chi ostacolava l’ingresso di casa sua, tutto sarebbe stato diverso. Che cosa sarebbe stato diverso per Polipetto? A. Avrebbe seguito subito i consigli degli altri animali su come comportarsi con l’intruso B. Non avrebbe lasciato lì l’intruso, ma lo avrebbe cacciato subito C. Non avrebbe avuto paura dell’intruso, ma l’avrebbe aiutato subito D. Avrebbe dato subito la sua casa all’intruso senza fare storie, per non litigare",C,multiple choice,11.0,['item_11_0.png'],2023_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"POLIPETTO HA UN PROBLEMA! Polipetto viveva in una graziosa casetta nel mare blu. Dalla finestra poteva ammirare un panorama meraviglioso e pescare tutto il cibo che voleva. Una mattina però, di ritorno dalla sua nuotata quotidiana, Polipetto trovò una grossa coda che bloccava l'ingresso della sua casetta. “Oh no!” esclamò. “Che coda enorme!” E, impaurito, nuotò via. Doveva assolutamente parlarne con un amico. Paguro lo ascoltò e sospirò: “Bene, bene, un intruso. Che t'importa: trasferisciti da un’altra parte. Il mare è pieno di opportunità.” Polipetto scosse la testa: non gli sembrava un buon consiglio... Le Meduse — che avevano sentito tutto — gli suggerirono: “C'è solo una cosa da fare: sbarazzarsi dell’intruso. Caccialo fuori!” Polipetto pensò all'enorme coda: no, non era affatto una buona idea. Quindi, nuotò via per chiedere consiglio a Balena. Enorme com'era avrebbe avuto certamente una grande idea. Ma Balena non fu per nulla d'aiuto. Non aveva una casa e, per di più, non ne aveva alcun bisogno. La sua casa era il mare e di queste faccende non si preoccupava affatto. Polipetto scappò via. Proprio allora s'imbatté in Pesce Scorpione. “Che cosa vuoi?” ringhiò Pesce Scorpione, mostrando i suoi aculei per impressionare Polipetto. “Niente, signore,” bisbigliò Polipetto. “Ma c’è un intruso, uno sconosciuto che ha occupato la mia casetta senza chiedere niente, e non so proprio...” “Liberatene...” disse Pesce Scorpione fissando Polipetto “...mangiandotelo!” Polipetto deglutì forte, annuì e nuotò via più veloce che poté. Ormai, tutti gli animali marini sapevano del suo problema e tutti gli consigliavano una soluzione diversa. “Pungilo,” disse Pesce Ago. “Sono d’accordo,” disse Pesce Riccio. “Oooh ...” gemette Polipetto. Cominciò ad avere la nausea: così tanti pesci e tante soluzioni gli avevano fatto venire il mal di mare. I pesci parlavano tutti insieme. “E tu, come pensi di risolvere il problema?” sussurrò, infine, il grande Oceano a Polipetto. “Cosa farai?” “Io?” “Sì, cosa farai?” “Potrei andare dalla coda... e chiederle gentilmente, ma molto gentilmente, di andarsene...” E così Polipetto tornò pian piano alla sua casetta. Là, picchiettò con prudenza sulla coda. “Mio caro signore,” disse gentilmente, “vorreste essere così cortese da...” “Aiuto!” singhiozzò una vocina. “Per favore, tiratemi fuori di qui! Sono incastrata da così tanto tempo!” Una coda così grande e una vocina così sottile! Con tutti i suoi otto tentacoli, Polipetto afferrò la coda e tirò più forte che poté. “AIUTO!” gridò. “Qualcuno ci aiuti!” E tutti gli altri pesci corsero ad aiutarlo. “Oh,” arrossì Polipetto. “Se solo avessi saputo che eri una sirena... Questo cambia tutto!” (Testo tratto e adattato da: E. van Lieshout, E. van Os, illustrazioni di M. van Hout, Polipetto ha un problema, Il Castello, Milano, 2010) ",2.0,multipla 310,"A1. Che cosa accade la sera dell’open day nella palestra della scuola di Alec? A. Gruppi di ragazzi partecipano a giochi e gare di fronte ai genitori B. Gruppi di ragazzi fanno vedere ai genitori le ricerche svolte nella biblioteca scolastica C. Gruppi di ragazzi si esibiscono nello spettacolo di fine anno di fronte ai genitori D. Gruppi di ragazzi illustrano ai genitori le attività svolte a scuola durante il pomeriggio",D,multiple choice,14.0,['item_14_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 311,"A2. Nella prima parte del testo (da riga 1 a 32) l’autore dà molte informazioni su come si sente Alec all’inizio della sera dell’open day. Come si sente Alec? A. È tranquillo e a suo agio perché conosce tutti nella scuola B. È in ansia per il compito che deve svolgere C. È eccitato per la presenza di tanti genitori D. Si annoia perché deve aspettare a lungo prima di parlare",B,multiple choice,15.0,['item_15_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 312,"A3. Di seguito trovi quattro frasi prese dal testo. Quale frase contiene un’informazione che aiuta a capire il motivo dello stato d’animo di Alec la sera dell’open day? A. “Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là” B. “Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il ‘Club dei perdenti’, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni” C. “Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente” D. “La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio”",C,multiple choice,16.0,['item_16_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 313,"A4. Da riga 15 a riga 22 l’autore racconta come i gruppi che precedono quello di Alec espongono i loro lavori e ricevono applausi. A che cosa serve questa parte nel racconto? A. A evidenziare il contrasto tra la disinvoltura degli altri gruppi e il disagio di Alec B. A far capire che a volte i genitori applaudono anche quando non dovrebbero C. A mettere in evidenza la partecipazione dei genitori alle iniziative della scuola di Alec D. A introdurre altri personaggi che interagiscono con Alec la sera dell’open day",A,multiple choice,17.0,['item_17_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 314,"A5. “Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla.” (righe 33-35) Perché quando Alec dice il nome del Club si sente una risatina di imbarazzo tra il pubblico? A. Il pubblico pensa che con quel nome i ragazzi stiano facendo uno scherzo divertente B. Al pubblico sembra strano che i ragazzi abbiano scelto un nome che richiama un’idea di sconfitta C. Il pubblico non approva che il gruppo di Alec abbia scelto un nome che può offendere chi assiste alla presentazione D. Nel pubblico, il nome scelto dal gruppo di Alec suscita simpatia e ammirazione",B,multiple choice,18.0,['item_18_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 315,"A6. In che cosa consiste la presentazione che Alec fa dell’attività del Club dei perdenti? A. Nel distribuire al pubblico le copertine dei libri letti durante l’anno da tutti i membri del Club B. Nel lanciare in aria fotocopie di pagine di libri, ricoprendo il pavimento di tutta la palestra C. Nel correre tirandosi dietro strisce di copertine di libri attaccate tra loro, creando una scena spettacolare D. Nel mostrare alcuni libri costruiti in modo creativo da Alec e dai suoi compagni nel corso dell’anno",C,multiple choice,19.0,['item_19_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 316,"A8. Quale risultato produce la presentazione fatta da Alec e dal suo gruppo, quando i ragazzi si fermano? A. Crea una grande confusione tra i genitori e permette ai ragazzi di infrangere le regole scolastiche B. Crea un momento di silenzio e di imbarazzo negli altri gruppi di ragazzi e nei genitori C. Crea un’occasione di comunicazione e di condivisione con gli altri ragazzi e i genitori D. Crea una situazione comica in cui ragazzi e genitori non riescono a trattenere le risate",C,multiple choice,21.0,['item_21_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 317,"A11. “Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante” (righe 65-66). Con questa affermazione Alec vuole dire che lui e i suoi amici A. dopo aver letto si ritrovano arricchiti di nuove idee, emozioni e conoscenze B. quando tornano dalla biblioteca sono sempre carichi di libri affascinanti C. quando escono da scuola si scambiano materiale utile per lo studio D. dopo aver studiato sono più interessati anche a quello che succede intorno",A,multiple choice,24.0,['item_24_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 318,"A12. Alec pensa “questo è meglio del più bel libro che abbia mai letto!” (riga 74) riferendosi a qualcosa che ha raccontato. Come si può sintetizzare ciò che intende Alec con la parola “questo”? “Questo” è tutto quello che… A. Alec sta leggendo in un libro affascinante B. i vari gruppi hanno fatto durante le loro presentazioni C. Alec vive dopo essersi lanciato nella presentazione D. il pubblico dice e fa durante la sera dell’open day",C,multiple choice,25.0,['item_25_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 319,"A14. Dopo aver letto l’intero racconto come si può completare il titolo? IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO... A. è il libro che Alec legge insieme ai ragazzi del Club dei perdenti B. è vivere un’esperienza reale ricca di emozioni C. è il libro che Alec ha presentato la sera dell’open day D. è superare le paure grazie all’aiuto di amici veri",B,multiple choice,27.0,['item_27_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 320,"A2. Il testo è scritto in prima persona. Chi racconta la storia? A. ? Un insegnante responsabile della classe B. ? Un genitore di un alunno della scuola C. ? Un bambino che partecipa alla gita D. ? Una persona che osserva i fatti dall’esterno ",C,multiple choice,29.0,['item_29_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 321,"A3. Nella prima parte del racconto si trova la descrizione di come il gruppo di bambini raggiunge lo scompartimento e si sistema al suo interno. Che cosa ci fa capire del gruppo questa descrizione? Sono bambini A. nervosi, che vogliono per sé i posti più comodi del treno B. maleducati e senza rispetto del mezzo pubblico in cui si trovano C. affiatati e desiderosi di fare il viaggio insieme D. curiosi e interessati a fare il viaggio insieme agli insegnanti",C,multiple choice,30.0,['item_30_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 322,"A6. Nel testo si dice che Susanne guarda Bernard “come se fosse la persona più stupida del mondo” (riga 38). Perché Susanne lo guarda così? A. Perché Bernard ha un giudizio negativo sugli insegnanti che Susanne non condivide B. Perché Bernard parla senza riflettere, mentre Susanne riflette molto C. Perché Bernard fa troppe domande e innervosisce Susanne D. Perché Bernard non coglie quello che per Susanne è evidente",D,multiple choice,33.0,['item_33_0.png'],2022_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Testo B IL LIBRO PIÙ BELLO DEL MONDO Era la sera dell’open day. Alec si trascinava da un’aula all’altra, si sedeva, si alzava, rispondeva se gli rivolgevano la parola, sorrideva qua e là. Ma non sentiva quasi niente, non si rendeva conto di niente se non di quanto era arida la sua bocca e di quante volte doveva deglutire. E più si avvicinavano le otto, peggio si sentiva. La preside fece un annuncio all’altoparlante: «Vi invitiamo a recarvi in palestra per una breve presentazione del Programma di Attività Pomeridiane». Alec notò con piacere che molti genitori e molti ragazzi andavano verso l’uscita. Ciò nonostante, il corridoio che portava in palestra era affollatissimo. Alle otto e un quarto la Preside fece un breve discorso di benvenuto. Poi disse: «E ora ogni gruppo dirà qualcosa su come passa il pomeriggio». Alec si avvicinò al tavolo del suo gruppo, il “Club dei perdenti”, che sarebbe stato l’ultimo a fare la presentazione; si asciugò le mani sui pantaloni, ma quelle continuavano a sudare. I ragazzi del gruppo degli scacchi parlarono a turno delle mosse che avevano imparato, una delle ragazze del Club dell’origami raccontò un po’ di storia dell’origami. Alec deglutì più volte. Da un momento all’altro sarebbe arrivato il suo turno. Un ragazzo e una ragazza del Club di robotica illustrarono i diversi tipi di circuiti elettronici che avevano usato. I ragazzi del Lego mostrarono un castello che avevano progettato e costruito. Il Club di cinese aveva organizzato una piccola recita. Tutti ricevettero applausi. Alec si ritrovò a sperare in un terremoto, o in un allarme antincendio, qualunque cosa pur di non alzarsi e parlare davanti a tutta quella gente. Ma non poté fare altro. A un suo cenno, fu tirato fuori un carrello da uno dei ripostigli e fu portato accanto al tavolo. La palestra rimase in silenzio mentre Alec prendeva dal carrello diciotto scatole di plastica, ciascuna con il suo coperchio. Su ciascuna scatola era scritto il nome di uno dei membri del suo club e Alec le dispose davanti ai legittimi proprietari: nessuno dei membri del club sapeva che cosa stava per fare. Alec cercò di sorridere, ma era talmente nervoso che gli venne fuori un ghigno da scimpanzé. Si mise davanti al tavolo e si rivolse alla folla. «Mi chiamo Alec Spencer e... il nostro gruppo ha diciotto membri e si chiama Club dei perdenti». Quando lo disse, una risatina imbarazzata echeggiò tra la folla. «Voglio dire qualcosa a proposito del nome del club, ma prima invito ogni membro ad aprire la scatola che ha davanti, a prendere il primo foglio in cima alla pila e a correre in quella direzione, così!». Alec tolse il coperchio alla sua scatola. Dentro sembrava che ci fosse una risma di carta, ma in realtà ogni foglio era attaccato al successivo per il margine, con il nastro adesivo, come una lunga fisarmonica. E quando Alec prese il primo foglio e partì di corsa verso l’angolo opposto della palestra, la striscia di carta lo seguì dispiegandosi come la coda di un drago cinese. Era questa la grande idea che gli era venuta il lunedì precedente. Voleva mostrare a tutti cosa facevano i cosiddetti perdenti durante il pomeriggio. Aveva chiesto ai membri del club di spedirgli per e-mail un elenco di tu i libri che avevano letto e aveva poi stampato tu琀e le copertine. La fisarmonica di copertine di Alec era talmente lunga che dovete girare a destra e con琀nuare a tirare i fogli dalla scatola. Gli altri ragazzi del club scoppiarono a ridere e lo imitarono, tirando fuori i loro fiumi di coper琀ne e attraversando la palestra di corsa. Diciotto lunghissime strisce di carta che partivano dall’angolo della palestra: sembrava l’immagine satellitare dell’enorme delta di un fiume. Quando tu i ragazzi si fermarono, gli altri alunni e i genitori si avvicinarono per vedere di cosa si trattava. Tu si misero a parlare, indicando qua e là titoli che ricordavano di aver letto, libri che avevano amato. Alec parlò con voce forte e chiara, una voce che non aveva mai avuto prima. «Potrei riavere la vostra a琀enzione per un minuto?» Tu tacquero e lui continuò: «Quelli che state vedendo sono tu i libri che ognuno di noi ha letto finora nel corso della sua vita. È questo che 60 facciamo nel Club dei perdenti: leggiamo. Nella biblioteca della scuola c’è un vecchio poster che dice “Perdetevi in un libro”. È quello che facciamo noi. Ci perdiamo nei libri per ore e ore... Libri su persone e posti diversi. Quando torniamo, portiamo con noi un sacco di roba interessante perché i libri fanno proprio questo: ci fanno perdere un po’ di ignoranza e un po’ di paura. E perdere la paura significa anche perdere un po’ di rabbia... Perciò eccoci. Siamo il Club dei perdenti». Gli applausi furono così fragorosi che Alec si senti in imbarazzo. Come faceva sempre, una parte della sua mente, cercò di trovare una scena di un libro che descrivesse quel momento pieno di gioia, di intensità, di vita. Ma gli venne in mente un solo pensiero: questo è meglio del più bel libro che abbia mai le琀o! E aveva ragione. (Tratto e adattato da: Clements A., Il club dei perdenti, ne Il libro più bello del mondo, Rizzoli,2018)",5.0,multipla 323,"A7. “Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione” (righe 48-49). Che cosa intendono i bambini quando dicono che non vogliono perdersi qualche eventuale vibrazione? Vogliono essere sicuri di non farsi sfuggire A. qualche esitazione degli insegnanti sul percorso da fare B. qualche fenomeno naturale interessante segnalato dagli insegnanti C. qualche manifestazione di affetto tra gli insegnanti D. qualche battuta scherzosa degli insegnanti che rallegri l’atmosfera",C,multiple choice,34.0,['item_34_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,multipla 324,"A9. In che cosa consiste il “patatrac” di cui si parla in questo racconto? A. Nella decisione degli insegnanti di fare una gita troppo lunga che affatica i bambini e li porta sulla riva di un lago pericoloso B. In un gesto non voluto che crea una reazione a catena, svelando qualcosa tenuto nascosto fino a quel momento C. In una serie di azioni spericolate che provoca un severo rimprovero da parte degli insegnanti nei confronti dei bambini D. In una situazione pericolosa in cui vengono a trovarsi i bambini e gli adulti che hanno partecipato alla gita",B,multiple choice,36.0,['item_36_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,multipla 325,"A10. Dopo la caduta dello zaino “che ha fatto splash ed è finito nel laghetto”, si verificano altri tre “splash”. Tutti e tre questi “splash”, cioè questi tuffi, hanno uno scopo comune. Quale? A. Dimostrare agli altri il proprio coraggio B. Cercare qualcosa che non si trova più C. Raggiungere qualcuno che sta chiedendo aiuto D. Aiutare qualcuno a cui si vuole bene",D,multiple choice,37.0,['item_37_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,multipla 326,"A11. Alla fine chi racconta la storia osserva dalla finestra una scena che lo fa riflettere sui fatti della giornata e gli permette di capire qualcosa di più di Susanne. Che cosa gli permette di capire? A. Susanne prova una simpatia profonda per uno dei compagni di classe B. Susanne ama mettersi al centro dell’attenzione ed essere ammirata C. Susanne è una persona espansiva, disponibile e vuole bene a tutti D. Susanne è capace di rassicurare un compagno che si sente spaventato e solo",A,multiple choice,38.0,['item_38_0.png'],2023_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL GRAN VIAGGIO DI AGATA Faceva un caldo micidiale e sul binario regnava il caos. Bambini esaltati correvano da tutte le parti e la mamma mi salutava piangendo come se non dovesse vedermi più per molti anni. In realtà la gita di classe sarebbe durata solo una settimana. Una settimana a Ulm con la maestra, la signora Salici, e il signor Holm, il professore di educazione fisica. Ulm era una città da qualche parte in basso a sinistra… Finalmente è arrivato il treno. Io volevo assolutamente mettermi nello scompartimento con Richard, Bernard e Tom, Susanne e Christiana. Era tutto un gran spintonare e sgomitare. Tom avanzava a fatica dal fondo dello stretto corridoio, aveva una pancia più sporgente del solito. Bernard gli stava dietro. Io e Richard arrivavamo dalla parte opposta, Susanne e Christiana si erano piantate davanti a uno scompartimento vuoto e tenevano i posti. Abbiamo buttato dentro gli zaini e ci siamo affacciati al finestrino a salutare i nostri genitori. Il capostazione ha fischiato e il treno è partito, poi ha fatto una curva e sono spariti tutti. Lo scompartimento era davvero super. Abbiamo tirato in avanti i sedili formando un unico grande letto e ci siamo messi comodi, ma quando Christiana ha posato lo sguardo sulla pancia di Tom ha lanciato un urlo. La pancia di Tom si muoveva, qualcosa si spostava sotto la sua camicia. Tom ha alzato la stoffa. Sulla pancia cicciottella di Tom una tartarughina si muoveva sulle sue buffe zampette. Questa è Agata ha detto Tom. Il patatrac è successo il quarto giorno. Cari bambini, ha iniziato la maestra, oggi andremo a fare un’escursione in montagna, al Blautopf, un laghetto molto lontano dall’ostello, con un’acqua tutta blu. Christiana ha domandato quanto fosse lontano, e il professor Holm ha risposto beh, c’è da fare una camminata di quindici chilometri. La signora Salici ha sorriso al professore, che l’ha ricambiata con i suoi dentoni bianchi da sportivo. Quindici chilometri, ha pigolato Susanne. Andata e ritorno sono trenta, ha infierito Christiana. Quei due sono pazzi, ha bisbigliato Richard. Non sono pazzi nemmeno un po’, ha commentato Susanne, sono cotti e siamo fortunati che non ci facciano camminare per cento chilometri, perché agli innamorati non importa niente di niente. Bernard ha chiesto a Susanne come faceva a sapere che erano innamorati. Susanne lo ha guardato come se fosse la persona più stupida del mondo. Le donne certe cose le sentono, ha bisbigliato. Quando due persone sono innamorate, c’è una vibrazione speciale nell’aria. Io non avverto nessuna vibrazione, ha confidato Bernard a Susanne. Aspetta e vedrai. Cinque ore più tardi Tom era seduto su un tronco d’albero in riva a quello stupido laghetto, che non era per niente azzurro, e piagnucolava che aveva le vesciche ai piedi. Aveva posato accanto a sé lo zaino con dentro Agata. Era rosso per la fatica e sudava da matti. A me la camminata era piaciuta. C’eravamo raccontati barzellette e avevamo cantato. Ogni tanto osservavamo la signora Salici e il signor Holm per non perderci qualche eventuale vibrazione. Arrivati al Blautopf la signora Salici naturalmente era estasiata, Susanne sosteneva che avrebbe trovato esaltante pure un mucchio di letame, tanto era cotta. Poi, è successo. Tom si è alzato sul tronco e mentre saltellava da una vescica all’altra, inavvertitamente ha urtato lo zaino, che ha fatto splash ed è finito nel laghetto. Con Agata dentro. Christiana ha lanciato un grido. Tom si è messo a frignare, Agata annega, lui non sapeva nuotare e nemmeno Agata, perché era una tartaruga di terra. La maestra ha domandato, quale tartaruga? Poi c’è stato un secondo splash, Bernard si era tuffato al salvataggio dello zaino. Il terzo splash era di Susanne, lanciata dietro Bernard. Il quarto della signora Salici, per seguire i suoi due alunni. Ci siamo messi tutti a strillare come pazzi, correndo sulla riva. Era uno spettacolo vedere loro tre nuotare in mezzo al laghetto. Bernard aveva recuperato lo zaino e lo teneva alto sopra la testa, Susanne aveva afferrato Bernard con una vera presa da salvataggio e lo trascinava a riva. Richard li ha aiutati a uscire dall’acqua. La maestra avrebbe anche potuto rimanere là, tanto l’acqua le arrivava solo fino al seno. Quando tutti ormai erano usciti dall’acqua, il signor Holm è arrivato di corsa. La signora Salici si è gettata tra le sue braccia, come in un film d’amore, spruzzando gocce d’acqua in tutte le direzioni. Poi il signor Holm l’ha baciata sul serio, mentre diceva Giovanna, amore mio, mia amata! Tom ha tirato fuori dallo zaino Agata, che si era solo un po’ bagnata, se l’è messa davanti al viso e le ha sussurrato Agata, mio unico grande amore, poi l’ha baciata sul guscio. Tutti si sono sbellicati dal ridere. Grazie al cielo la maestra e il signor Holm non si sono arrabbiati con Tom per via di Agata. La cuoca dell’ostello ha preparato un piattino di insalata verde apposta per lei. Dopo cena ho portato Agata in camera. Le ho accarezzato il guscio e lei ha agitato le zampette. Mi sono affacciato alla finestra e sul prato di sotto ho visto Bernard seduto accanto a Susanne, che si tenevano per mano. Quando lei gli ha dato un bacio sulla guancia, ho capito perché quel pomeriggio si era tuffata dietro a lui. L’aria era piena di vibrazioni. (Tratto e adattato da: Steinhöfel A., traduzione di Petrelli A., Dirk e io, BEISLER editore, 2017, Roma) ",5.0,multipla 327,"B1. Nelle tre righe introduttive all’inizio dell’articolo si dice “ne succedono… di tutti i colori”. Con quale significato viene usata questa espressione? A. Avvengono fatti che riguardano tutti B. Si vedono cose appariscenti C. Accadono cose insolite D. Si verificano fatti che possono spaventare",C,multiple choice,41.0,['item_41_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,multipla 328,"B2. “Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo” (righe 12-13). La notizia di cui si parla è A. il cambiamento della data dell’inizio dell’anno B. la nascita della tradizione del pesce d’aprile C. il divieto di festeggiare Capodanno a fine marzo D. il permesso di fare burle e scherzi alle “teste dure”",A,multiple choice,42.0,['item_42_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,multipla 329,"B4. Nel primo paragrafo, a quali persone si fa riferimento con l’espressione “teste dure” (riga 15)? A. Alle persone che continuavano a festeggiare il Capodanno secondo il vecchio calendario B. Alle persone che disturbavano gli altri facendo scherzi e burle nel giorno di Capodanno C. Alle persone che avevano accolto con entusiasmo la nuova data del Capodanno D. Alle persone che consideravano",A,multiple choice,44.0,['item_44_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,multipla 330,"B7. In base al testo, perché fu il pesce a essere scelto come simbolo della giornata del 1° aprile? A. Perché il pesce è un animale presente in tutti i Paesi in cui si è diffusa la tradizione B. Perché in occasione dei banchetti di Capodanno si era soliti mangiare pesce C. Perché le persone a cui piace fare scherzi sono vivaci come i pesci D. Perché chi cade nello scherzo viene tratto in inganno come il pesce con l’esca",D,multiple choice,47.0,['item_47_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,multipla 331,"B8. In base a quello che hai letto nel secondo paragrafo, indica quale tra le seguenti affermazioni è una notizia vera e non uno scherzo. A. Lirpa Loof è un famoso giornalista sportivo B. Due anni fa uno dei campioni dell’FC Barcelona è passato al Real Madrid per 500 milioni C. Patrick Moore è un astronomo D. Una",C,multiple choice,48.0,['item_48_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,multipla 332,"B9. Nelle ultime righe del testo si parla di un video sui pinguini. Come è stato realizzato questo video? A. Riprendendo dal vivo la corsa e il volo di un gruppo di pinguini B. Unendo il filmato della corsa dei pinguini a una sequenza di disegni di pinguini in volo C. Facendo riprese di altri uccelli in volo che da lontano potevano essere scambiati per pinguini D. Utilizzando immagini di pinguini",B,multiple choice,49.0,['item_49_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,multipla 333,"B10. Quattro ragazzi hanno letto questo articolo e devono dire ai compagni in poche parole che cos’è il “pesce di aprile”. Chi di loro dà la spiegazione corretta? A È il nome dato a chi non vuole festeggiare il 1° aprile B È il nome dato alla persona a cui vengono fatti degli scherzi nella giornata del 1° aprile C È il nome dato ai pesci che vengono regalati per scherzo nella giornata del 1° aprile D È il nome dato alla tradizione di fare scherzi nella giornata del 1° aprile",D,multiple choice,50.0,['item_50_0.png'],2023_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il primo giorno del mese di aprile ne succedono davvero di tutti i colori: può comparire il sale nella zuccheriera o potreste trovare delle monete sul pavimento… ma è impossibile raccoglierle perché sono incollate… v 1 ……… Ma come è nata questa curiosa tradizione? Per capire come è nata la tradizione di fare gli scherzi nel primo giorno di aprile dobbiamo tornare indietro con la macchina del tempo di almeno cinque secoli e spostarci in Francia. Fu qui che, intorno alla fine de l XVI secolo, si contestò la decisione di papa Gregorio XIII il quale aveva cambiato il calendario, adottandone uno nuovo. Il calendario precedente prevedeva che il nuovo anno venisse festeggiato tra il 25 marzo e il 1° aprile, giorno, quest’ultimo, dedicato a banchetti, brindisi e scambi di doni. Con l’avvento del nuovo calendario, il Capodanno fu spostato al primo di gennaio. Come spesso succede davanti alle novità, non tutti accolsero la notizia con entusiasmo e negli anni successivi c’era ancora chi si ostinava a festeggi are Capodanno il 1° aprile. Fu così che nacque il “pesce d’aprile”: le “teste dure” diventarono bersaglio di burle e scherzi bonari e furono additati da tutti come sciocchi di aprile. La tradizione dalla Francia si diffuse in tutti i Paesi in cui fu adottato il nuovo calendario, chiamato “gregoriano”. v 2 ……… Che cosa c’entrano i pesci? Anche per questo c’è una spiegazione ed è che i pesci abboccano facilmente all’amo, come le vittime delle burle “abboccano” all’inganno. Va detto però che, a volte, è veramente difficile non cascarci, anche perché la fantasia non ha limiti e gli scherzi nemmeno... possono passare dalle aule di scuola ai parco-giochi, dalla televisione ai siti web. Due anni fa, per esempio, un sito di notizie sul calcio riferì che un famosissimo giocatore dell’FC Barcelona aveva acce ttato un contratto da 500 milioni di euro per passare al Real Madrid, la squadra rivale, per cinque anni. Nessuno fece caso al fatto che l’articolo era firmato “Lirpa Loof” (Fool April, pesce d’aprile in inglese, scritto al contra rio) e tra i tifosi si scatenò il panico. Qualche anno prima, invece, Patrick Moore, famoso astronomo e conduttore radiofonico inglese, annunciò che un eccezionale allineamento di Plutone e Giove, previsto per le 9 e 47 della mattina del primo aprile, avrebbe annullato gli effetti della gravità terrestre e tu tti gli abitanti del pianeta avrebbero iniziato a fluttuare come gli astronauti nello spazio! Alcuni anni fa un sito inglese presentò la corsa dei cavallucci marini e una compagnia aerea pubblicizzò un aereo che sbatte le ali… Tutto falso!!! Nel 2008 un presentatore della tv inglese BBC2 mostrò un video su una nuova specie di pinguini: i pinguini volanti! Gli animali, dopo una corsa sul ghiaccio, prendevano il volo e si alzavano in cielo ad ali spiegate. Il filmato lasciò tutti a bocca aperta: mai nessuno prima di allora aveva visto i pinguini volare. E non a caso! Il video infatti era una bufala per il primo di aprile. Nei giorni successivi, in un altro video, spiegarono il trucco: i pinguini volanti non erano veri, ma disegnati copiando quelli di alcune riprese girate in precedenza. In altre parole la corsa dei pinguini era vera ma il volo era stato aggiunto in seguito. ",5.0,multipla 334,"A1. Chi sta sempre appeso a testa in giù? A) Gisella B) Il Saggio Gufo C) I giovani animali D) Il testo non lo dice",A,multiple choice,52.0,['item_52_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 335,"A2. Chi si stupisce e corre a chiedere consiglio? A) Gisella B) Il Saggio Gufo C) I giovani animali D) Il testo non lo dice",C,multiple choice,53.0,['item_53_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 336,"A3. Chi riflette prima di prendere una decisione? A) Gisella B) Il Saggio Gufo C) I giovani animali D) Il testo non lo dice",B,multiple choice,54.0,['item_54_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 337,"A4. Dopo aver letto questo racconto possiamo capire con quale scena inizia la storia. Qual è la scena iniziale? A. Gisella arriva in un nuovo posto dove incontra un gruppo di giovani animali B. Gisella è sul suo albero preferito circondata dai suoi vecchi amici C. Gisella dorme sul ramo di un albero e gli altri animali la svegliano D. Gisella trova nel bosco un gruppo di animali vecchi e saggi",A,multiple choice,55.0,['item_55_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 338,"A5. Gli animali pensano che Gisella “capiva tutto a rovescio”. Per quale motivo pensano questo? A. Gisella è testarda e vuole avere sempre ragione B. Gisella vede le cose in modo diverso da loro C. Gisella si distrae mentre loro parlano con lei D. Gisella vuole essere originale e farsi notare",B,multiple choice,56.0,['item_56_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 339,"A6. Per quale motivo il Saggio Gufo chiede agli animali di scoprire che cosa piace a Gisella? A. Vuole scoprire qual è il carattere di Gisella B. Vuole insegnare agli animali a essere curiosi C. Vuole accogliere Gisella con un bel dono D. Vuole far sentire agli animali la voce di Gisella",C,multiple choice,57.0,['item_57_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 340,"A8. Dopo aver ascoltato Gisella gli animali corrono a parlare col Saggio Gufo. Perché corrono dal Gufo? A. Sono arrabbiati con Gisella e vogliono che il Gufo la rimproveri B. Sono contenti del regalo per Gisella e vogliono sapere se piace al Gufo C. Sono divertiti dalle stranezze di Gisella e vogliono far ridere il Gufo D. Sono agitati a causa di Gisella e chiedono al Gufo di intervenire",D,multiple choice,59.0,['item_59_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 341,"A9. Perché il Gufo propone agli animali di mettersi sottosopra appesi ai rami? Perché a testa in giù gli animali… A. potranno divertirsi a imitare Gisella B. vedranno le cose come le vede Gisella C. potranno diventare agili come Gisella D. impareranno a dormire come Gisella",B,multiple choice,60.0,['item_60_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 342,"A10. Dopo che gli animali hanno provato a stare a testa in giù appesi ai rami, che cosa potrebbero dire di Gisella? A. Gisella è proprio matta! B. Gisella aveva ragione! C. Gisella ha bisogno di occhiali! D. Gisella ci prendeva in giro!",B,multiple choice,61.0,['item_61_0.png'],2022_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"GISELLA PIPISTRELLA Parte 1 C'era una volta una pipistrella di nome Gisella, che capiva tutto a rovescio. O almeno questo era quello che i cuccioli degli animali pensavano di lei. Tutto era cominciato con il suo arrivo. Il Saggio Gufo, che voleva offrirle un regalo di benvenuto, chiese agli animali di scoprire che cosa le sarebbe piaciuto. — Mi piacerebbe un ombrello per riparare i piedi dalla pioggia — disse Gisella. — Gli ombrelli riparano la testa, non i piedi! — bisbigliò l’elefantino. — Questa pipistrella è proprio matta! Tuttavia le regalarono un ombrello nuovo, molto carino. Gisella disse un’altra cosa assai bizzarra: — Grazie davvero per questo ombrello. Stanno arrivando dei terribili nuvoloni nel cielo, qui sotto. — Sciocca di una pipistrella! — ridacchiò la piccola giraffa — il cielo è sopra, non sotto. Fu allora che Gisella disse un’altra cosa strampalata: — Se dovesse piovere tanto, il fiume si gonfierà e le mie orecchie si bagneranno. — Il fiume semmai bagnerebbe le nostre zampe e non le nostre orecchie! — ruggi il leoncino. Parte 2 Ormai tutti gli animali pensavano che Gisella fosse completamente matta e corsero a parlare con il Saggio Gufo. — È matta, dice cose troppo strane! — disse il piccolo elefante. — Può essere pericolosa — aggiunse il leoncino — Devi fare qualcosa! — Perché pensate che Gisella sia matta? — chiese il Gufo. — Perché vede le cose diverse da noi — disse il giovane rinoceronte. ITAO2F1 4 Il Gufo si fece pensieroso, poi disse: — Voglio fare a Gisella qualche domanda e poi vi dirò cosa penso. Così andarono tutti insieme da Gisella. Il Gufo le chiese: — Come è fatto un albero? — Facile! — disse subito la pipistrella - Un albero ha un tronco in cima e le foglie in basso. Tutti ridacchiarono. II Gufo continuò: — Come è fatta una montagna? — Anche questa è semplice! — disse Gisella — Una montagna ha una parte larga sulla cima e una punta in basso. — Un'ultima domanda — disse il Gufo — e questa volta voglio che rispondano tutti gli animali tranne Gisella. — Avete mai provato a guardare le cose dal punto di vista di Gisella? — e li fece mettere tutti sottosopra appesi ai rami, proprio come lei. Videro allora che la punta della montagna, vista da lì era proprio in basso, l’albero aveva le foglie sotto e il tronco sopra. In quel momento iniziò a piovere, a piovere, a piovere... gli animali vollero scendere perché il fiume stava salendo e le loro orecchie si stavano bagnando... non i loro piedi! Gisella, allora prestò loro il suo ombrello nuovo per ripararsi. Tutti gli animali si scusarono con lei per aver detto che era matta. FINE (Testo tratto e adattato da: J. Willis, illustrazioni di T. Ross, Gisella Pipistrella, Milano, Ed. Il castoro, 2007) ",2.0,multipla 343,"B2. Quale di queste parole deve essere scritta con la lettera iniziale maiuscola? A. anna B. elefante C. mare D. città",A,multiple choice,66.0,['item_66_0.png'],2022_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,2.0,multipla 344,"B1. Nel sottotitolo trovi la parola “illuminazione”. Indica in quale frase questa parola viene usata con lo stesso significato che ha nel testo. A. Nelle case moderne gli architetti curano molto l’illuminazione degli ambienti B. Nel mio paese l’illuminazione pubblica spesso funziona male e crea grossi problemi C. Sfogliando il libro ho avuto un’illuminazione su come svolgere il tema D. L’illuminazione era così scarsa che non si potevano distinguere i visi delle persone",C,multiple choice,67.0,['item_67_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,multipla 345,"B2. Nel Paragrafo 1 l’autore parla di un’antica favola persiana per spiegare A. da dove viene il termine serendipità B. che quello che il testo dice sulla serendipità è frutto di fantasia C. che il concetto di serendipità è poco scientifico D. in quanto tempo il termine serendipità si è diffuso",A,multiple choice,68.0,['item_68_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,multipla 346,"B4. Qual è l’elemento di novità introdotto nel Paragrafo 2 rispetto al significato della parola serendipità? A. Viene sottolineato che alla base delle scoperte fatte per caso ci sono degli errori B. Viene detto che la definizione di serendipità presente nei dizionari è sbagliata C. Vengono elencati i molti significati che la parola serendipità ha assunto dal ‘900 D. Viene specificato che a partire dal 1930 il concetto è usato nell’ambito della ricerca scientifica",D,multiple choice,70.0,['item_70_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,multipla 347,"B6. Nel box sulla penicillina si dice che il medico Alexander Fleming “riparò la dimenticanza”. A che cosa si riferisce nel testo la parola “dimenticanza”? A. Al fatto che gli egizi usavano già la penicillina per curare le infezioni B. Al fatto che gli egizi non hanno scritto la ricetta della penicillina C. Al fatto che Fleming ha usato un vetrino contaminato dalla muffa D. Al fatto che il numero dei batteri sul vetrino non era cresciuto",B,multiple choice,72.0,['item_72_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,multipla 348,"B7. Nel Paragrafo 4 “INVENZIONI CREATIVE” si parla di quello che ha fatto Percy Spencer. Per quale ragione la sua vicenda è stata inserita in questo testo sulla serendipità? Perché la vicenda di Percy Spencer A. presenta un caso particolare di serendipità, in cui una scoperta già nota viene letta e applicata in modo nuovo B. chiarisce l’idea che per fare una nuova scoperta è necessario essere esperti in tanti campi C. mostra che anche le scoperte fatte per caso devono essere approvate con un brevetto D. evidenzia la necessità di collaborare con altri anche quando le scoperte sono fatte per caso",A,multiple choice,73.0,['item_73_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,multipla 349,"B9. L’autore ha scritto questo testo per far capire al lettore che cos’è la serendipità. Come ha “costruito” il testo? A. - Introduce il termine di serendipità con una fiaba - Definisce il concetto di serendipità - Sviluppa il concetto di serendipità anche con esempi B. - Narra una fiaba sulla serendipità - Spiega il senso della fiaba - Dimostra il rapporto tra la fiaba e i casi reali di serendipità C. - Spiega come il termine serendipità viene usato in una fiaba - Presenta i personaggi o le persone che hanno utilizzato il termine serendipità - Mostra in quali casi concreti si può utilizzare il termine serendipità D. - Racconta una fiaba sulla serendipità per spiegare alcune scoperte scientifiche - Illustra l’utilità di queste scoperte - Spiega che cosa differenzia la fiaba dalla serendipità",A,multiple choice,75.0,['item_75_0.png'],2022_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SERENDIPITY: LE INVENZIONI NATE PER CASO Ti è mai capitato di avere un'illuminazione mentre pensavi ad altro? Allora anche tu sei stato vittima della “serendipità”. Paragrafo 1. Un’antica favola persiana narra di tre principi, figli di Jafer, re di Serendip (antico nome di Ceylon, attuale Sri- Lanka), che durante il loro viaggio alla scoperta del mondo scoprono continuamente, per caso e per intuito, cose che non stavano cercando: piante, animali, pietre preziose e oggetti sconosciuti. Dal titolo della favola “Viaggi e avventure dei tre Principi di Serendip”, lo scrittore britannico Horace Walpole, nel 1754, inventò il termine serendipity per indicare una scoperta fatta per caso mentre si sta cercando qualcos'altro, come accadde ai tre principi. II meccanismo di queste scoperte è simile a quello che succede a voi quando vi viene in mente la soluzione a un problema di matematica mentre state pensando a tutt'altro, tipo il compito di italiano o la partita di calcio. Un celebre esempio di serendipità ce lo dà Cristoforo Colombo: nel 1492 scoprì l'America mentre cercava un passaggio verso occidente per arrivare alle Indie. Paragrafo 2. PER CASO, MA STUDIATE Solo dagli anni Trenta del ‘900, però, grazie a Walter B. Cannon, professore di fisiologia della Harvard Medical School, il termine viene associato alle invenzioni nate per caso (o per sbaglio) in campo scientifico. Se oggi cercate sul dizionario la parola “serendipità”, infatti, trovate questa definizione: “capacità di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale durante una ricerca scientifica orientata verso altri campi di indagine”. Tuttavia il caso non basta per fare scoperte così: lo scienziato francese Louis Pasteur diceva che “nel campo dell’osservazione la casualità favorisce solo le menti preparate”, in grado insomma di notare l’imprevisto e renderlo costruttivo. DALL’ANTIBIOTICO... AL DOLCE Oltre al caso, infatti, ci vuole l’intuito, affina grazie a una solida preparazione, come quella che avevano Alexander Fleming e Wilhelm Réntgen, della penicillina e dei raggi X (leggi le storie nei riquadri), scoperte per caso, ma comunque nel corso di esperimenti scientifici. RAGGI X L'8 novembre del 1895, 120 anni fa, il fisico tedesco Wilhelm Ròntgen scoprì per caso l’esistenza dei raggi X, novità che nel giro di pochi mesi avrebbe rivoluzionato la medicina: l’anno successivo nel Regno Unito era già in funzione il primo dipartimento di radiologia all’interno di un ospedale e nel giro di poco tempo i raggi X cominciarono ad essere usati in tutto il mondo per ottenere immagini delle fratture di ossa e di ferite d'arma da fuoco. Nel 1901 la scoperta fece vincere a Ròntgen il premio Nobel. LA PENICILLINA Qualcuno sostiene che già gli egizi usassero la penicillina per curare le infezioni. Peccato che non avessero scritto la ricetta! Duemila e 500 anni dopo, nel 1929, il medico scozzese Alexander Fleming riparò la dimenticanza. Infatti, si accorse che su un vetrino di coltura batterica contaminato dalla muffa, la crescita dei batteri si era interrotta. Incuriosito volle approfondire la cosa e inventò il primo antibiotico, uno dei mezzi più potenti che abbiamo per curare le malattie! Fu invece proprio un caso se il chimico James Schlatter nel 1965 scoprì un dolcificante: per girare le pagine di un libro, si leccò il dito sporco di aspartame, che quel giorno aveva sintetizzato per fare esperimenti su un farmaco anti- ulcera. Assaggiandolo scoprì che era dolce come lo zucchero, ma ci vollero quasi 10 anni perché fosse approvato il suo utilizzo in campo alimentare e dietetico. Paragrafo 4. INVENZIONI CREATIVE A volte la serendipità non viene dall'essere i primi a vedere qualcosa, ma dall'essere il primo a vederlo in un modo nuovo. Come fece Percy Spencer quando notò che le microonde dal magnetron (strumento inventato nel 1921 che generava le microonde del segnale radar) avevano sciolto la barretta di cioccolato nella sua tasca. Non era stato il primo a notare che le microonde generavano calore, ma è stato l’unico a pensare di utilizzarle per cucinare cibo. Nella figura del suo brevetto appare la prima cosa che Spencer e i suoi colleghi provarono a cucinare col nuovo forno: il pop-corn. E come finisce la storia dei principi di Serendip? A furia di scoprire le cose per caso o per intuito, divennero i più saggi di tutto il regno. (Tratto e adattato da: www.focusjunior.it; www.ilpost.it) ",5.0,multipla 350,"C2. Leggi la frase: “Luca raccontò a Sara che aveva visto una stella marina sugli scogli”. Nella frase che hai letto si dice che Luca compie due azioni: “racconta a Sara” e “vede una stella marina”. In quale ordine Luca compie le due azioni nella realtà? A. Prima racconta a Sara e poi vede una stella marina B. Racconta a Sara che vedrà una stella marina C. Prima vede una stella marina e poi lo racconta a Sara D. Mentre vede una stella marina, lo racconta a Sara",C,multiple choice,77.0,['item_77_0.png'],2022_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 351,"C3. In quale delle seguenti frasi l’articolo determinativo “il” è usato per indicare non un singolo gatto ma tutti i gatti? A. Il gatto si è rotto la zampa B. Il gatto sta dormendo sul divano C. Il gatto ha quattro zampe D. Il gatto di mia zia si chiama Baby",C,multiple choice,78.0,['item_78_0.png'],2022_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 352,"C4. Quale di questi nomi può essere anche un verbo? A. circo B. dito C. lago D. bagno",D,multiple choice,79.0,['item_79_0.png'],2022_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 353,"C5. Indica in quale di queste parole stra- NON è un prefisso. A. straniero B. straricco C. strafelice D. stracarico",A,multiple choice,80.0,['item_80_0.png'],2022_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 354,"C8. Indica la frase che ha la virgola al posto giusto. A. Quando vanno, in montagna Sara e Luca fanno lunghe passeggiate nei boschi B. Quando vanno in montagna, Sara e Luca fanno lunghe passeggiate nei boschi C. Quando vanno in montagna Sara e Luca, fanno lunghe passeggiate nei boschi D. Quando vanno in montagna Sara e Luca fanno, lunghe passeggiate nei boschi",B,multiple choice,83.0,['item_83_0.png'],2022_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 355,"C9. Le parole che seguono sono tutte formate con il prefisso in- per indicare il contrario dell’aggettivo di base (es. in-felice = non felice). incapace, impossibile, inutile, incredibile, imperdonabile, impaziente, inadatto Perché in alcune parole il prefisso in- diventa im-? A. Perché in quelle parole in- è davanti a una p B. Perché si tratta di parole molto lunghe C. Perché quelle parole oggi sono poco usate D. Perché quelle parole terminano in -bile",A,multiple choice,84.0,['item_84_0.png'],2022_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 356,"C10. Indica in quale frase la parola “pietra” è usata in senso figurato, cioè non indica la pietra vera e propria. A. La mia vecchia casa ha i muri di pietra B. Lo smeraldo è una pietra preziosa C. Ci sono persone che hanno il cuore di pietra D. In giardino ho un grande tavolo in pietra",C,multiple choice,85.0,['item_85_0.png'],2022_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 357,"A1. Chi racconta quello che è successo nella storia? A) Lisa B) Anna C) Nonno D) Il testo non lo dice",A,multiple choice,86.0,['item_86_0.png'],2021_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Ecco i personaggi del racconto che leggerai: Lisa è la bambina che racconta quello che è successo nella storia che leggerai. Ha 7 anni e vive in un paesino dove non ci si annoia mai. Anna Anna ha la stessa età di Lisa ed è la sua grande amica. Quando si tratta di giocare non si tira mai indietro, neanche di fronte ai giochi più avventurosi. Questo è il nonno di Anna. Quando era bambino è rimasto orfano, non era felice ed è scappato di casa. Ora sta spesso con Anna e Lisa, ricorda con loro le avventure che ha vissuto e gioca con loro. I pezzettini di testo vicino ai personaggi danno informazioni che permettono di rispondere alle domande che trovi sotto. ",2.0,multipla 358,"A4. Anna viene presentata come una bambina che nel gioco “non si tira mai indietro”. Come si comporta una bambina che “non si tira mai indietro”? A. Vuole sempre arrivare prima B. Si mostra prepotente e pretende di avere ragione C. Si butta volentieri in nuove esperienze D. È spericolata e combina grossi guai",C,multiple choice,89.0,['item_89_0.png'],2021_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ecco i personaggi del racconto che leggerai: Lisa è la bambina che racconta quello che è successo nella storia che leggerai. Ha 7 anni e vive in un paesino dove non ci si annoia mai. Anna Anna ha la stessa età di Lisa ed è la sua grande amica. Quando si tratta di giocare non si tira mai indietro, neanche di fronte ai giochi più avventurosi. Questo è il nonno di Anna. Quando era bambino è rimasto orfano, non era felice ed è scappato di casa. Ora sta spesso con Anna e Lisa, ricorda con loro le avventure che ha vissuto e gioca con loro. I pezzettini di testo vicino ai personaggi danno informazioni che permettono di rispondere alle domande che trovi sotto. ",2.0,multipla 359,"B1. Alle bambine viene l’idea di scappare. Da dove nasce questa idea? A. Da una notizia trovata sulle pagine del giornale che le bambine leggevano al nonno B. Da un gioco che molti facevano nel paesino dove non ci si annoia mai C. Dalla voglia di fare capire ai genitori che ormai sono diventate grandi D. Dal racconto ascoltato tante volte delle avventure del nonno da piccolo",D,multiple choice,90.0,['item_90_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 360,"B3. Le parole riportate nel fumetto aiutano a capire che cosa provano le bambine nei confronti del nonno. ""Tu cosa dici, nonno? Secondo te possiamo?"" Che cosa provano le bambine verso il nonno? A. Sorpresa B. Vergogna C. Fiducia D. Paura",C,multiple choice,92.0,['item_92_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 361,"B4. Perché il nonno risponde alle bambine che per un pochino potevano anche scappare di casa? Perché non vuole frenare l’entusiasmo delle bambine, ma… A. vuole che tornino presto a casa a leggergli il giornale B. non vuole che saltino giorni di scuola C. vuole che fuggano solo per gioco e tornino subito D. non vuole che i genitori si arrabbino con lui",C,multiple choice,93.0,['item_93_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 362,"B5. Anna raccoglie delle foglie secche da mettere nel letto. Perché Anna decide di metterle nel letto? A. Anna pensa che le foglie secche renderanno il letto scomodo, faranno rumore e la terranno sveglia B. Anna vuole provare a dormire sulle foglie secche, come dovrà fare dopo la fuga C. Anna pensa che le foglie secche la obbligheranno a stare ferma nel letto e così sarà più riposata al momento di scappare D. Anna vuole fare un mucchio di foglie sotto le coperte, in modo che i genitori non si accorgano del letto vuoto",A,multiple choice,94.0,['item_94_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 363,"B6. Anna e Lisa avevano deciso di incontrarsi alle dieci e mezza della sera. Quando arriva quell’ora, dove si trovano le bambine? A. Le due bambine sono nel luogo stabilito, pronte a scappare B. Le due bambine sono nelle loro case, ognuna nel proprio letto C. Lisa è a casa di Anna e la chiama per svegliarla D. Anna è sotto la casa di Lisa e tira il cordino legato al ditone dell’amica",B,multiple choice,95.0,['item_95_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 364,"B8. A che cosa serve il filo che Lisa lega al dito del suo piede? A. Serve a Lisa per stare sveglia tutta la notte B. Serve ad Anna per svegliare Lisa senza entrare in casa sua C. Serve a ricordare a Lisa l’appuntamento che ha con Anna D. Serve ad avvisare Anna che tu??o è pronto per la fuga",B,multiple choice,97.0,['item_97_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 365,"B9. Lisa si sveglia e si accorge che “… è giorno fatto”. Che cosa significa questa espressione? A. È mattina B. È ora di pranzo C. Il giorno è finito D. È passato un intero giorno",A,multiple choice,98.0,['item_98_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 366,"B10. ""Forse Anna è scappata da sola…"" Quale frase del testo fa capire perché Lisa pensa che Anna sia scappata da sola? A. “ho pianto per un pezzo” B. “Mi sono svegliata di soprassalto” C. “sono andata alla finestra” D. “mi sono accorta che era giorno fatto”",D,multiple choice,99.0,['item_99_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 367,"B11. Alla fine del racconto Anna dice: “«Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno»”. Con questa frase Anna vuole A. proporre all’amica di dormire anche lei su un letto fatto con foglie secche B. fare una battuta spiritosa visto che non è riuscita a restare sveglia C. convincere tutti che le foglie secche nel letto aiutano a dormire profondamente D. suggerire all’amica una nuova idea per migliorare il loro piano di fuga",B,multiple choice,100.0,['item_100_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 368,"B12. Ora che sai come finisce la storia, come potresti completare il titolo del racconto? QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA E INVECE… A. Anna non è stata al gioco B. il nonno non ha mantenuto il segreto C. pensare alla mamma mi ha fatto cambiare idea D. il sonno è stato più forte di noi",D,multiple choice,101.0,['item_101_0.png'],2021_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"QUELLA VOLTA CHE IO E ANNA DOVEVAMO SCAPPARE DI CASA Nelle giornate piovose io e la mia amica Anna stiamo spesso nella stanza di suo nonno a leggergli il giornale. Un giorno di questi Anna ha chiesto: «Nonno, racconta di quando sei scappato di casa». «Oh povero me» ha risposto il nonno. «L’avete già sentita tante volte, quella storia!». Ma noi abbiamo insistito e alla fine lui l’ha raccontata. Dopo Anna ha detto: «Bello scappare, però. Vorrei farlo anch’io». «Dai, facciamolo!» ho detto io. «Tu cosa dici, nonno?» ha chiesto Anna. «Secondo te possiamo?» E il nonno ha risposto che certo, per un pochino potevamo anche scappare di casa. Allora abbiamo deciso di farlo. Naturalmente doveva succedere di notte e non doveva saperlo nessuno. Abbiamo detto al nonno che doveva mantenere il segreto e lui ha promesso. Io faccio sempre una gran fatica a restare sveglia la sera e così non capivo proprio come fare per non addormentarmi prima che fosse ora di scappare, ma Anna ha detto: «Tu dormi pure! Possiamo legarti al ditone del piede un filo che lasciamo penzolare giù dalla finestra della tua camera, così quando arrivo io, do uno strattone e ti svegli». Anna ha anche detto che avrebbe raccolto delle foglie secche da mettersi nel letto, così sarebbe riuscita a restare sveglia finché non si fossero addormentati tutti gli altri, poi ci siamo date appuntamento per quella sera, alle dieci e mezza. Sono salita in camera mia e mi sono legata il filo al ditone e l’ho lasciato penzoloni fuori dalla finestra. Sono andata a letto e ho pensato che era meglio dormire subito per non essere troppo stanca all’ora di scappare. Ho tentato in tu i modi, ma appena mi muovevo nel letto sentivo tirare il filo intorno al ditone. E poi mi sono messa a pensare a cos’avrebbe detto la mamma trovando il letto vuoto. Così ho cominciato a piangere e ho pianto per un pezzo. Mi sono svegliata di soprassalto; sono andata alla finestra e mi sono accorta che era giorno fatto. Ho pensato che forse Anna era scappata da sola, allora sono corsa a casa sua e l’ho trovata nel letto. Stava russando. L’ho chiamata e si è svegliata. «Che ore sono?» ha detto. Quando le ho risposto che erano le otto di mana ha detto: «Quelli che non riescono a dormire di notte dovrebbero provare a mettersi le foglie secche nel letto, perché è incredibile quanto fanno venire sonno». (Testo tratto e adattato: A. Lindgren, illustrazioni di I. Vang Nyman, Il libro di Bullerby, Milano, Salani Editore, 2018) ",2.0,multipla 369,"C2. In quale di queste frasi Marco dice che non gli piace qualcosa? A. La torta alle mele è squisita. B. I panini al burro sono deliziosi. C. Il budino è davvero disgustoso. D. La pasta al pomodoro è ottima.",C,multiple choice,104.0,['item_104_0.png'],2021_02_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,2.0,multipla 370,"A3. Gli “uffa” di Martina danno molto fastidio alla mamma (righe 13-17). Qual è la ragione fondamentale di questo fastidio? La mamma ritiene che… A. “uffa” sia quasi peggio di una parolaccia B. “uffa” non sia nemmeno una parola, ma solo un rumore fastidioso C. “uffa” sia il motto delle persone viziate, che lei non può vedere D. “uffa” sia una parola che viene sbrodolata senza motivo",C,multiple choice,107.0,['item_107_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 371,"A4. L’autore ci fa conoscere quello che la madre pensa dell’abitudine della figlia di dire sempre “uffa”. A quale scopo dà queste informazioni? A. Per fornire una descrizione più dettagliata del carattere della madre B. Per far capire il valore che la promessa di Martina ha per la madre C. Per chiarire che la madre e la figlia hanno opinioni differenti D. Per far capire che la madre era una persona che si arrabbiava facilmente",B,multiple choice,108.0,['item_108_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 372,"A6. A riga 18 si legge “Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo?” Quale informazione può essere messa al posto di “quindi” per rendere più chiaro il significato di questa affermazione? A. Quale miglior promessa, visto che la mamma cominciava a chiamarla Marta considerandola una persona grande, per ottenere in cambio un bel cucciolo? B. Quale miglior promessa, visto che la mamma in fondo aveva ragione, per ottenere in cambio un bel cucciolo? C. Quale miglior promessa, visto che la mamma detestava quella parola e non ne poteva più di sentirla, per ottenere in cambio un bel cucciolo? D. Quale miglior promessa, visto che non voleva passare per una bambina viziata con la mamma, per ottenere in cambio un bel cucciolo?",C,multiple choice,110.0,['item_110_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 373,"A8. Dopo avere letto la parte 2, si può concludere che Martina ha capito che A. può trasformare in un’opportunità quello che la mamma considera un problema B. occorre imbrogliare la mamma per riuscire ad avere il suo consenso C. deve prepararsi a una delusione perché difficilmente la mamma la accontenterà D. per avere ciò che desidera è meglio aspettare che sia la mamma a fare la prima mossa",A,multiple choice,112.0,['item_112_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 374,"A11. La mamma, dopo aver visto la gioia di Martina per il regalo ricevuto, “con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «Io non mi sono dimenticata della tua promessa… vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa!” (righe 41-45) Qual è l’atteggiamento della mamma rivelato da queste parole? A. La mamma mantiene il suo modo di fare duro e severo, ma cerca di nasconderlo B. La mamma si mostra più indulgente e tollerante verso il continuo uso di “uffa” da parte della figlia C. La mamma non rinuncia a ricordare a Martina il suo impegno, ma lo fa in modo scherzoso D. La mamma, vedendo Martina così contenta, dà meno importanza alla promessa che la figlia le ha fatto",C,multiple choice,115.0,['item_115_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 375,"A12. Che cosa rende il comportamento di Martina veramente imperdonabile agli occhi della madre? Il fatto che Martina possa aver… A. dimostrato di essersi presto annoiata del cucciolo, così come si comportano le bambine viziate B. mostrato di non saper trattare con pazienza il cucciolo, pretendendo di addestrarlo subito a ubbidire ai suoi ordini C. ricominciato a dire “uffa” per avanzare nuove richieste, fare nuove promesse alla madre e ottenere altri regali D. ? rotto così rapidamente il patto, ignorando l’impegno preso senza preoccuparsi di quello che avrebbe provato la mamma",D,multiple choice,116.0,['item_116_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 376,"A14. “Mamma! Indovina? L’ho chiamato UFFA!”. Quale effetto spera di ottenere Martina pronunciando le parole che concludono il racconto? A. Prendere tempo con la mamma, chiedendole di indovinare il nome del cane B. Convincere la madre della originalità del nome scelto per il cane C. Sciogliere la tensione letta nello sguardo della mamma e prevenire i rimproveri D. Distrarre la madre e farle dimenticare tutte le volte in cui l’ha fatta uscire dai gangheri",C,multiple choice,118.0,['item_118_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 377,"A15. Dal modo in cui è costruito il personaggio di Martina e dalle sue caratteristiche, si capisce che l’autore vuole suscitare nel lettore una reazione emotiva nei confronti della bambina. Quale reazione vuole suscitare? A. Tenerezza per l’entusiasmo e la spontaneità di Martina B. Simpatia per l’ingegnosità e la prontezza di Martina C. Diffidenza per la freddezza e l’inaffidabilità di Martina D. Disapprovazione per l’impertinenza e la disobbedienza di Martina",B,multiple choice,119.0,['item_119_0.png'],2021_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UFFA «Se mi prendi un cucciolo la smetto di dire uffa alla fine di ogni frase!» Fu così, perentoriamente, che Martina fece irruzione in cucina, affrontando la mamma tutta intenta a cucinare chissà cosa. «Non ora, Marta. Ne parliamo un’altra volta» fu la risposta. Ma quel nome, Marta anziché Martina, era il segno che una breccia era stata aperta e che qualcosa, forse, sarebbe accaduto. Era il nome dei discorsi seri, mentre Martina era quello di tutti i giorni e soprattutto dei momenti allegri. In effetti, Martina quell’uffa lo appiccicava davvero a troppe frasi, spesso a sproposito e quasi per abitudine. Uffa qua, uffa là, andava poi a finire che quando un bell’uffa, in qualche discorso, ci stava proprio a pallino, perdeva inesorabilmente di incisività, inflazionato com'era da tutti gli altri uffa spbrodolati senza motivo. E la mamma quella parola non la sopportava proprio. Non la considerava nemmeno una parola, ma un suono, o meglio un rumore. Quasi preferiva una parolaccia, magari non troppo pesante, ma uffa spesso la faceva andare fuori dai gangheri. Secondo lei, e non aveva poi tutti i torti, era il motto delle persone viziate, che non poteva nemmeno vedere. Quale miglior promessa, quindi, per ottenere in cambio un bel cucciolo? Non sarebbe stato nemmeno uno sforzo troppo grande. Bastava un minimo di autocontrollo e quell’abitudine l'avrebbe persa in meno di una settimana. Fu così che, certa di aver toccato i sentimenti della mamma, Martina non aggiunse nulla, e facendo finta di niente se ne tornò di là, sgranocchiando una carota, ad aspettare che la cena fosse pronta. L'argomento “cucciolo” non si toccò più per qualche giorno, ma Martina badò bene di non dimenticare nessun uffa per strada, cercando anche di sottolinearli tutti con il tono, per far sì che la mamma non si scordasse. Mancavano due settimane, anzi due settimane meno un giorno al suo compleanno e la richiesta per il regalo era partita. Inequivocabilmente. Se qualcuno voleva capire, bene, altrimenti amen. Anzi, uffa! | piani perfetti, si sa, sono tali perché non falliscono mai, e quello di Martina, il giorno del suo compleanno, si rivelò proprio un piano perfetto. Tornata da scuola, infatti, non fece intempo a lanciare lo zaino nel solito angolo che un coso minuscolo e peloso cominciò ad aggrapparsi alla zampa destra dei suoi pantaloni! Descrivere le urla emozionate di Martina è assolutamente superfluo e comunque non sarebbe possibile rendere l’idea a parole. Intanto lamamma se ne stava in disparte, appoggiata allo stipite del soggiorno, a godersi quello spettacolo. Credo che la gioia esplosiva di Martina la fece sentire molto orgogliosa del regalo, di sé e anche della figlia. Dopo una buona mezz'ora di versi, salti, strilli e follie, quando la situazione parve tranquillizzarsi almeno un po’, non perse però tempo e con tono affettuosamente severo la ammonì: «Martina!» già, questa volta non disse Marta! «lo non mi sono dimenticata della tua promessa... vediamo di mantenerla.» E poi, sorridendo, ci aggiunse un bell’uffa! «Tranqui, ma’, promettissimo!!!» rispose Martina, e poi se ne andò in soggiorno ad arrotolarsi col cane. Il pomeriggio passò in fretta. Quando, verso sera, la mamma passò davanti alla camera di Martina non poté non udire la voce di sua figlia intenta a raccontarsi cose con il cane. Non solo ne udì la voce, ma ne sentì chiaramente le parole: «Vieni qua, uffa! Siediti, uffa! Non così, dai, uffa!» Lo sguardo le si incupì. Certo si aspettava che Martina potesse avere qualche ricaduta, ma non che tradisse la sua promessa così presto e, soprattutto, così spudoratamente. Aprì con decisione la porta della camera e vi si piazzò davanti ritta. «Marta...» rieccola col nome solenne. In uno sguardo lungo tre o quattro secondi la mamma racchiuse una quantità incredibile di pensieri, che andavano dal concetto di obbedienza a quello di fiducia, passando per le gerarchie familiari e il senso di responsabilità. Cominciò anche a vagliare alcune ipotesi sul destino di quella bestiola, così tenera e, almeno lei, innocente. Il tutto, ripeto, in non più di quattro secondi. Non ebbe infatti il tempo di esporre a parole tutto questo, perché Martina, con un sorriso da qua a là la anticipò e, porgendole il cucciolo, disse: «Mamma! Indovina? L'ho chiamato UFFA!» (Tratto e adattato da: A. Valente, Sotto i/ banco, Milano, Fabbri Editori, Contrasti, 2011) ",5.0,multipla 378,"B1. Il paragrafo 1 permette di ricavare che cosa significa la parola “autocontrollo”. Che cosa significa? L’autocontrollo è A. la capacità di padroneggiare le proprie azioni e reazioni B. la possibilità di decidere al posto degli altri C. la tendenza a rinunciare a ogni iniziativa D. l’abilità di reagire in risposta ai propri bisogni e soddisfarli",A,multiple choice,120.0,['item_120_0.png'],2021_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"CORPO E AZIONE 1. Non parlare, non dormire, non mangiare Quasi tutto quanto viviamo e pensiamo viene tradotto in azioni. Per esempio sentiamo la temperatura e decidiamo di indossare un giaccone, se all'improvviso ci ritroviamo sotto un temporale, corriamo alla ricerca di un riparo. Ma oltre a questo procedimento rivolto all’azione ne esiste un altro, e cioè prendere la decisione di non fare nulla. Non siamo solo in grado di parlare, dormire, mangiare, ecc., ma abbiamo anche la capacità di non parlare, non dormire, non mangiare, semplicemente perché abbiamo deciso così. Questa abilità — chiamata dagli studiosi “autocontrollo” — è molto interessante. Lo studio di questa abilità ha permesso di giungere a conclusioni inaspettate. 2. Un esperimento con bambini, biscotti e marshmallow Tutto cominciò negli anni Sessanta del secolo scorso, quando uno scienziato decise di mettere in una stanza tanti bambini di 4 anni e un piatto di dolcetti. Obiettivo: studiare la loro capacità di controllare i propri impulsi e di posticipare una piccola gratificazione in cambio di una maggiore, ma non immediata. Metodo: ogni bambino venne fatto entrare in una stanza con dentro una sedia, un tavolo, un vassoio di dolci e una campanella. Lo scienziato (che si chiamava Walter Mischel) spiegò ai bambini che lui doveva uscire un momento dalla stanza e disse loro che se fossero riusciti a non toccare i dolcetti mentre era fuori, il loro sforzo sarebbe stato ricompensato al suo ritorno con due pasticcini; se un bambino non fosse riuscito a resistere, avrebbe potuto suonare la campanella e Walter sarebbe tornato subito per dargli un dolcetto (ma uno soltanto). Risultato: Walter osservò che tutti i bambini erano tentati dai dolcetti, ma mentre alcuni riuscirono a distrarsi (tappandosi gli occhi, giocherellando con le ciocche di capelli), la maggioranza non riuscì ad aspettare più di 3 minuti (Walter sarebbe rimasto fuori dalla stanza circa 15 minuti... un'eternità, con un piatto di dolcetti davanti!). Alcuni bambini si mostrarono addirittura così impazienti da non suonare nemmeno la campanella e si buttarono subito sul vassoio! 3. Ma la cosa più interessante deve ancora venire... Quel gruppo di bambini venne seguito dagli studiosi per diversi anni, per provare a scoprire se ci fosse qualche relazione tra la loro capacità di attesa e la loro vita futura. Per esempio, chi era riuscito a controllarsi e ad aspettare la ricompensa avrebbe avuto maggiori o minori problemi durante la ricreazione? Avrebbe gestito meglio o peggio le sue ansie? Avrebbe avuto voti migliori o peggiori? I dati mostrarono che in generale chi era riuscito a posticipare la gratificazione immediata avrebbe avuto meno problemi a scuola, con gli amici e più tardi nella vita lavorativa! Perché? Perché riuscire a mettere in atto strategie per raggiungere obiettivi a lungo termine — come mangiare due marshmallow anziché uno, ma anche cose più serie come conseguire un diploma, portare avanti un allenamento sportivo e così via — può avere conseguenze importanti per la nostra vita. Piccola annotazione: tutto ciò riguarda tra l’altro la capacità di anticipare le conseguenze e di prevedere quello che accadrà. Bene, questa è una specialità della corteccia prefrontale, una parte del cervello che nei bambini e negli adolescenti è ancora in via di formazione. Quando siamo giovani, quindi, può risultare più difficile pensare a un futuro lontano e di conseguenza resistere e non buttarsi sul primo vassoio di ghiottonerie che ci piazzano davanti. A questo punto: spendo tutti i soldi della paghetta in gelatine alla frutta o risparmio per comprare quel gioco pazzesco che mi piace tanto? Nessuno ha mai detto che la vita è semplice... (Tratto e adattato da: I. M. Martins, M. M. Pedrosa, illustrazioni di M. Matoso, Qui dentro. Guida alla scoperta della mente, Milano, Mondadori, 2018) ",5.0,multipla 379,"B4. Rispetto all’obiettivo dell’esperimento descritto nel paragrafo 2, quale elemento permette di valutare la capacità di autocontrollo dei bambini? A. Il numero dei dolci che i bambini prendono dal vassoio B. Il tempo di attesa dei bambini di fronte ai dolci C. Il gradimento dimostrato dai bambini nei confronti dei dolci offerti D. L’uso che i bambini fanno della campanella per chiamare lo scienziato",B,multiple choice,123.0,['item_123_0.png'],2021_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"CORPO E AZIONE 1. Non parlare, non dormire, non mangiare Quasi tutto quanto viviamo e pensiamo viene tradotto in azioni. Per esempio sentiamo la temperatura e decidiamo di indossare un giaccone, se all'improvviso ci ritroviamo sotto un temporale, corriamo alla ricerca di un riparo. Ma oltre a questo procedimento rivolto all’azione ne esiste un altro, e cioè prendere la decisione di non fare nulla. Non siamo solo in grado di parlare, dormire, mangiare, ecc., ma abbiamo anche la capacità di non parlare, non dormire, non mangiare, semplicemente perché abbiamo deciso così. Questa abilità — chiamata dagli studiosi “autocontrollo” — è molto interessante. Lo studio di questa abilità ha permesso di giungere a conclusioni inaspettate. 2. Un esperimento con bambini, biscotti e marshmallow Tutto cominciò negli anni Sessanta del secolo scorso, quando uno scienziato decise di mettere in una stanza tanti bambini di 4 anni e un piatto di dolcetti. Obiettivo: studiare la loro capacità di controllare i propri impulsi e di posticipare una piccola gratificazione in cambio di una maggiore, ma non immediata. Metodo: ogni bambino venne fatto entrare in una stanza con dentro una sedia, un tavolo, un vassoio di dolci e una campanella. Lo scienziato (che si chiamava Walter Mischel) spiegò ai bambini che lui doveva uscire un momento dalla stanza e disse loro che se fossero riusciti a non toccare i dolcetti mentre era fuori, il loro sforzo sarebbe stato ricompensato al suo ritorno con due pasticcini; se un bambino non fosse riuscito a resistere, avrebbe potuto suonare la campanella e Walter sarebbe tornato subito per dargli un dolcetto (ma uno soltanto). Risultato: Walter osservò che tutti i bambini erano tentati dai dolcetti, ma mentre alcuni riuscirono a distrarsi (tappandosi gli occhi, giocherellando con le ciocche di capelli), la maggioranza non riuscì ad aspettare più di 3 minuti (Walter sarebbe rimasto fuori dalla stanza circa 15 minuti... un'eternità, con un piatto di dolcetti davanti!). Alcuni bambini si mostrarono addirittura così impazienti da non suonare nemmeno la campanella e si buttarono subito sul vassoio! 3. Ma la cosa più interessante deve ancora venire... Quel gruppo di bambini venne seguito dagli studiosi per diversi anni, per provare a scoprire se ci fosse qualche relazione tra la loro capacità di attesa e la loro vita futura. Per esempio, chi era riuscito a controllarsi e ad aspettare la ricompensa avrebbe avuto maggiori o minori problemi durante la ricreazione? Avrebbe gestito meglio o peggio le sue ansie? Avrebbe avuto voti migliori o peggiori? I dati mostrarono che in generale chi era riuscito a posticipare la gratificazione immediata avrebbe avuto meno problemi a scuola, con gli amici e più tardi nella vita lavorativa! Perché? Perché riuscire a mettere in atto strategie per raggiungere obiettivi a lungo termine — come mangiare due marshmallow anziché uno, ma anche cose più serie come conseguire un diploma, portare avanti un allenamento sportivo e così via — può avere conseguenze importanti per la nostra vita. Piccola annotazione: tutto ciò riguarda tra l’altro la capacità di anticipare le conseguenze e di prevedere quello che accadrà. Bene, questa è una specialità della corteccia prefrontale, una parte del cervello che nei bambini e negli adolescenti è ancora in via di formazione. Quando siamo giovani, quindi, può risultare più difficile pensare a un futuro lontano e di conseguenza resistere e non buttarsi sul primo vassoio di ghiottonerie che ci piazzano davanti. A questo punto: spendo tutti i soldi della paghetta in gelatine alla frutta o risparmio per comprare quel gioco pazzesco che mi piace tanto? Nessuno ha mai detto che la vita è semplice... (Tratto e adattato da: I. M. Martins, M. M. Pedrosa, illustrazioni di M. Matoso, Qui dentro. Guida alla scoperta della mente, Milano, Mondadori, 2018) ",5.0,multipla 380,"B5. L’immagine seguente rappresenta un momento dell’esperimento e mostra il comportamento di alcuni bambini. Tenendo conto di quanto dice il testo, quale frase spiega correttamente l’immagine? A. Alcuni bambini chiudono gli occhi: non hanno compreso che cosa devono fare e sono un po’ imbarazzati B. Alcuni bambini chiudono gli occhi: dimenticano la consegna e si mettono a giocare a moscacieca C. Alcuni bambini chiudono gli occhi: fanno come i bambini piccoli quando restano soli e hanno paura D. Alcuni bambini chiudono gli occhi: hanno trovato una strategia per resistere più a lungo e sopportare l’attesa",D,multiple choice,124.0,['item_124_0.png'],2021_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"CORPO E AZIONE 1. Non parlare, non dormire, non mangiare Quasi tutto quanto viviamo e pensiamo viene tradotto in azioni. Per esempio sentiamo la temperatura e decidiamo di indossare un giaccone, se all'improvviso ci ritroviamo sotto un temporale, corriamo alla ricerca di un riparo. Ma oltre a questo procedimento rivolto all’azione ne esiste un altro, e cioè prendere la decisione di non fare nulla. Non siamo solo in grado di parlare, dormire, mangiare, ecc., ma abbiamo anche la capacità di non parlare, non dormire, non mangiare, semplicemente perché abbiamo deciso così. Questa abilità — chiamata dagli studiosi “autocontrollo” — è molto interessante. Lo studio di questa abilità ha permesso di giungere a conclusioni inaspettate. 2. Un esperimento con bambini, biscotti e marshmallow Tutto cominciò negli anni Sessanta del secolo scorso, quando uno scienziato decise di mettere in una stanza tanti bambini di 4 anni e un piatto di dolcetti. Obiettivo: studiare la loro capacità di controllare i propri impulsi e di posticipare una piccola gratificazione in cambio di una maggiore, ma non immediata. Metodo: ogni bambino venne fatto entrare in una stanza con dentro una sedia, un tavolo, un vassoio di dolci e una campanella. Lo scienziato (che si chiamava Walter Mischel) spiegò ai bambini che lui doveva uscire un momento dalla stanza e disse loro che se fossero riusciti a non toccare i dolcetti mentre era fuori, il loro sforzo sarebbe stato ricompensato al suo ritorno con due pasticcini; se un bambino non fosse riuscito a resistere, avrebbe potuto suonare la campanella e Walter sarebbe tornato subito per dargli un dolcetto (ma uno soltanto). Risultato: Walter osservò che tutti i bambini erano tentati dai dolcetti, ma mentre alcuni riuscirono a distrarsi (tappandosi gli occhi, giocherellando con le ciocche di capelli), la maggioranza non riuscì ad aspettare più di 3 minuti (Walter sarebbe rimasto fuori dalla stanza circa 15 minuti... un'eternità, con un piatto di dolcetti davanti!). Alcuni bambini si mostrarono addirittura così impazienti da non suonare nemmeno la campanella e si buttarono subito sul vassoio! 3. Ma la cosa più interessante deve ancora venire... Quel gruppo di bambini venne seguito dagli studiosi per diversi anni, per provare a scoprire se ci fosse qualche relazione tra la loro capacità di attesa e la loro vita futura. Per esempio, chi era riuscito a controllarsi e ad aspettare la ricompensa avrebbe avuto maggiori o minori problemi durante la ricreazione? Avrebbe gestito meglio o peggio le sue ansie? Avrebbe avuto voti migliori o peggiori? I dati mostrarono che in generale chi era riuscito a posticipare la gratificazione immediata avrebbe avuto meno problemi a scuola, con gli amici e più tardi nella vita lavorativa! Perché? Perché riuscire a mettere in atto strategie per raggiungere obiettivi a lungo termine — come mangiare due marshmallow anziché uno, ma anche cose più serie come conseguire un diploma, portare avanti un allenamento sportivo e così via — può avere conseguenze importanti per la nostra vita. Piccola annotazione: tutto ciò riguarda tra l’altro la capacità di anticipare le conseguenze e di prevedere quello che accadrà. Bene, questa è una specialità della corteccia prefrontale, una parte del cervello che nei bambini e negli adolescenti è ancora in via di formazione. Quando siamo giovani, quindi, può risultare più difficile pensare a un futuro lontano e di conseguenza resistere e non buttarsi sul primo vassoio di ghiottonerie che ci piazzano davanti. A questo punto: spendo tutti i soldi della paghetta in gelatine alla frutta o risparmio per comprare quel gioco pazzesco che mi piace tanto? Nessuno ha mai detto che la vita è semplice... (Tratto e adattato da: I. M. Martins, M. M. Pedrosa, illustrazioni di M. Matoso, Qui dentro. Guida alla scoperta della mente, Milano, Mondadori, 2018) ",5.0,multipla 381,"B7. Il paragrafo 3 ha come titolo “Ma la cosa più interessante deve ancora venire…”. Quale delle seguenti frasi, prese dal testo, dice qual è “la cosa più interessante”? A. “Quel gruppo di bambini venne seguito dagli studiosi per diversi anni” B. “I dati mostrarono che in generale chi era riuscito a posticipare la gratificazione immediata avrebbe avuto meno problemi a scuola, con gli amici e più tardi nella vita lavorativa!” C. “questa è una specialità della corteccia prefrontale, una parte del cervello che nei bambini e negli adolescenti è ancora in via di formazione.” D. “Quando siamo giovani, quindi, può risultare più difficile pensare a un futuro lontano”",B,multiple choice,126.0,['item_126_0.png'],2021_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"CORPO E AZIONE 1. Non parlare, non dormire, non mangiare Quasi tutto quanto viviamo e pensiamo viene tradotto in azioni. Per esempio sentiamo la temperatura e decidiamo di indossare un giaccone, se all'improvviso ci ritroviamo sotto un temporale, corriamo alla ricerca di un riparo. Ma oltre a questo procedimento rivolto all’azione ne esiste un altro, e cioè prendere la decisione di non fare nulla. Non siamo solo in grado di parlare, dormire, mangiare, ecc., ma abbiamo anche la capacità di non parlare, non dormire, non mangiare, semplicemente perché abbiamo deciso così. Questa abilità — chiamata dagli studiosi “autocontrollo” — è molto interessante. Lo studio di questa abilità ha permesso di giungere a conclusioni inaspettate. 2. Un esperimento con bambini, biscotti e marshmallow Tutto cominciò negli anni Sessanta del secolo scorso, quando uno scienziato decise di mettere in una stanza tanti bambini di 4 anni e un piatto di dolcetti. Obiettivo: studiare la loro capacità di controllare i propri impulsi e di posticipare una piccola gratificazione in cambio di una maggiore, ma non immediata. Metodo: ogni bambino venne fatto entrare in una stanza con dentro una sedia, un tavolo, un vassoio di dolci e una campanella. Lo scienziato (che si chiamava Walter Mischel) spiegò ai bambini che lui doveva uscire un momento dalla stanza e disse loro che se fossero riusciti a non toccare i dolcetti mentre era fuori, il loro sforzo sarebbe stato ricompensato al suo ritorno con due pasticcini; se un bambino non fosse riuscito a resistere, avrebbe potuto suonare la campanella e Walter sarebbe tornato subito per dargli un dolcetto (ma uno soltanto). Risultato: Walter osservò che tutti i bambini erano tentati dai dolcetti, ma mentre alcuni riuscirono a distrarsi (tappandosi gli occhi, giocherellando con le ciocche di capelli), la maggioranza non riuscì ad aspettare più di 3 minuti (Walter sarebbe rimasto fuori dalla stanza circa 15 minuti... un'eternità, con un piatto di dolcetti davanti!). Alcuni bambini si mostrarono addirittura così impazienti da non suonare nemmeno la campanella e si buttarono subito sul vassoio! 3. Ma la cosa più interessante deve ancora venire... Quel gruppo di bambini venne seguito dagli studiosi per diversi anni, per provare a scoprire se ci fosse qualche relazione tra la loro capacità di attesa e la loro vita futura. Per esempio, chi era riuscito a controllarsi e ad aspettare la ricompensa avrebbe avuto maggiori o minori problemi durante la ricreazione? Avrebbe gestito meglio o peggio le sue ansie? Avrebbe avuto voti migliori o peggiori? I dati mostrarono che in generale chi era riuscito a posticipare la gratificazione immediata avrebbe avuto meno problemi a scuola, con gli amici e più tardi nella vita lavorativa! Perché? Perché riuscire a mettere in atto strategie per raggiungere obiettivi a lungo termine — come mangiare due marshmallow anziché uno, ma anche cose più serie come conseguire un diploma, portare avanti un allenamento sportivo e così via — può avere conseguenze importanti per la nostra vita. Piccola annotazione: tutto ciò riguarda tra l’altro la capacità di anticipare le conseguenze e di prevedere quello che accadrà. Bene, questa è una specialità della corteccia prefrontale, una parte del cervello che nei bambini e negli adolescenti è ancora in via di formazione. Quando siamo giovani, quindi, può risultare più difficile pensare a un futuro lontano e di conseguenza resistere e non buttarsi sul primo vassoio di ghiottonerie che ci piazzano davanti. A questo punto: spendo tutti i soldi della paghetta in gelatine alla frutta o risparmio per comprare quel gioco pazzesco che mi piace tanto? Nessuno ha mai detto che la vita è semplice... (Tratto e adattato da: I. M. Martins, M. M. Pedrosa, illustrazioni di M. Matoso, Qui dentro. Guida alla scoperta della mente, Milano, Mondadori, 2018) ",5.0,multipla 382,"B9. Nel riquadro finale l’autore presenta al lettore un esempio attraverso una domanda formulata in prima persona. Quale scopo intende raggiungere l’autore con il riquadro? A. Vuole coinvolgere il lettore e farlo riflettere sulle sue scelte nella vita quotidiana B. Vuole suggerire al lettore un esperimento che può riprodurre facilmente in casa C. Vuole spiegare al lettore che l’esperimento prima descritto può avere risultati imprevisti D. Vuole mettere in guardia il lettore contro i pericoli dei comportamenti impulsivi",A,multiple choice,128.0,"['item_128_0.png', 'item_128_1.png']",2021_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"CORPO E AZIONE 1. Non parlare, non dormire, non mangiare Quasi tutto quanto viviamo e pensiamo viene tradotto in azioni. Per esempio sentiamo la temperatura e decidiamo di indossare un giaccone, se all'improvviso ci ritroviamo sotto un temporale, corriamo alla ricerca di un riparo. Ma oltre a questo procedimento rivolto all’azione ne esiste un altro, e cioè prendere la decisione di non fare nulla. Non siamo solo in grado di parlare, dormire, mangiare, ecc., ma abbiamo anche la capacità di non parlare, non dormire, non mangiare, semplicemente perché abbiamo deciso così. Questa abilità — chiamata dagli studiosi “autocontrollo” — è molto interessante. Lo studio di questa abilità ha permesso di giungere a conclusioni inaspettate. 2. Un esperimento con bambini, biscotti e marshmallow Tutto cominciò negli anni Sessanta del secolo scorso, quando uno scienziato decise di mettere in una stanza tanti bambini di 4 anni e un piatto di dolcetti. Obiettivo: studiare la loro capacità di controllare i propri impulsi e di posticipare una piccola gratificazione in cambio di una maggiore, ma non immediata. Metodo: ogni bambino venne fatto entrare in una stanza con dentro una sedia, un tavolo, un vassoio di dolci e una campanella. Lo scienziato (che si chiamava Walter Mischel) spiegò ai bambini che lui doveva uscire un momento dalla stanza e disse loro che se fossero riusciti a non toccare i dolcetti mentre era fuori, il loro sforzo sarebbe stato ricompensato al suo ritorno con due pasticcini; se un bambino non fosse riuscito a resistere, avrebbe potuto suonare la campanella e Walter sarebbe tornato subito per dargli un dolcetto (ma uno soltanto). Risultato: Walter osservò che tutti i bambini erano tentati dai dolcetti, ma mentre alcuni riuscirono a distrarsi (tappandosi gli occhi, giocherellando con le ciocche di capelli), la maggioranza non riuscì ad aspettare più di 3 minuti (Walter sarebbe rimasto fuori dalla stanza circa 15 minuti... un'eternità, con un piatto di dolcetti davanti!). Alcuni bambini si mostrarono addirittura così impazienti da non suonare nemmeno la campanella e si buttarono subito sul vassoio! 3. Ma la cosa più interessante deve ancora venire... Quel gruppo di bambini venne seguito dagli studiosi per diversi anni, per provare a scoprire se ci fosse qualche relazione tra la loro capacità di attesa e la loro vita futura. Per esempio, chi era riuscito a controllarsi e ad aspettare la ricompensa avrebbe avuto maggiori o minori problemi durante la ricreazione? Avrebbe gestito meglio o peggio le sue ansie? Avrebbe avuto voti migliori o peggiori? I dati mostrarono che in generale chi era riuscito a posticipare la gratificazione immediata avrebbe avuto meno problemi a scuola, con gli amici e più tardi nella vita lavorativa! Perché? Perché riuscire a mettere in atto strategie per raggiungere obiettivi a lungo termine — come mangiare due marshmallow anziché uno, ma anche cose più serie come conseguire un diploma, portare avanti un allenamento sportivo e così via — può avere conseguenze importanti per la nostra vita. Piccola annotazione: tutto ciò riguarda tra l’altro la capacità di anticipare le conseguenze e di prevedere quello che accadrà. Bene, questa è una specialità della corteccia prefrontale, una parte del cervello che nei bambini e negli adolescenti è ancora in via di formazione. Quando siamo giovani, quindi, può risultare più difficile pensare a un futuro lontano e di conseguenza resistere e non buttarsi sul primo vassoio di ghiottonerie che ci piazzano davanti. A questo punto: spendo tutti i soldi della paghetta in gelatine alla frutta o risparmio per comprare quel gioco pazzesco che mi piace tanto? Nessuno ha mai detto che la vita è semplice... (Tratto e adattato da: I. M. Martins, M. M. Pedrosa, illustrazioni di M. Matoso, Qui dentro. Guida alla scoperta della mente, Milano, Mondadori, 2018) ",5.0,multipla 383,"B10. Il primo paragrafo finisce con l’affermazione che lo studio della capacità di autocontrollo ha portato a “conclusioni inaspettate”. In base all’intero testo, a quali conclusioni inaspettate sono arrivati gli scienziati che hanno studiato questa capacità? La capacità di autocontrollo A. varia da un individuo all’altro, si sviluppa con l’età ed è un vantaggio per la vita B. si manifesta negli adulti solo se viene sviluppata nei bambini fin da piccoli C. rende più sensibili ai bisogni degli altri, quando viene coltivata fin da bambini D. appartiene a poche persone, anche se gli adulti la possiedono in misura maggiore rispetto ai bambini",A,multiple choice,129.0,['item_129_0.png'],2021_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"CORPO E AZIONE 1. Non parlare, non dormire, non mangiare Quasi tutto quanto viviamo e pensiamo viene tradotto in azioni. Per esempio sentiamo la temperatura e decidiamo di indossare un giaccone, se all'improvviso ci ritroviamo sotto un temporale, corriamo alla ricerca di un riparo. Ma oltre a questo procedimento rivolto all’azione ne esiste un altro, e cioè prendere la decisione di non fare nulla. Non siamo solo in grado di parlare, dormire, mangiare, ecc., ma abbiamo anche la capacità di non parlare, non dormire, non mangiare, semplicemente perché abbiamo deciso così. Questa abilità — chiamata dagli studiosi “autocontrollo” — è molto interessante. Lo studio di questa abilità ha permesso di giungere a conclusioni inaspettate. 2. Un esperimento con bambini, biscotti e marshmallow Tutto cominciò negli anni Sessanta del secolo scorso, quando uno scienziato decise di mettere in una stanza tanti bambini di 4 anni e un piatto di dolcetti. Obiettivo: studiare la loro capacità di controllare i propri impulsi e di posticipare una piccola gratificazione in cambio di una maggiore, ma non immediata. Metodo: ogni bambino venne fatto entrare in una stanza con dentro una sedia, un tavolo, un vassoio di dolci e una campanella. Lo scienziato (che si chiamava Walter Mischel) spiegò ai bambini che lui doveva uscire un momento dalla stanza e disse loro che se fossero riusciti a non toccare i dolcetti mentre era fuori, il loro sforzo sarebbe stato ricompensato al suo ritorno con due pasticcini; se un bambino non fosse riuscito a resistere, avrebbe potuto suonare la campanella e Walter sarebbe tornato subito per dargli un dolcetto (ma uno soltanto). Risultato: Walter osservò che tutti i bambini erano tentati dai dolcetti, ma mentre alcuni riuscirono a distrarsi (tappandosi gli occhi, giocherellando con le ciocche di capelli), la maggioranza non riuscì ad aspettare più di 3 minuti (Walter sarebbe rimasto fuori dalla stanza circa 15 minuti... un'eternità, con un piatto di dolcetti davanti!). Alcuni bambini si mostrarono addirittura così impazienti da non suonare nemmeno la campanella e si buttarono subito sul vassoio! 3. Ma la cosa più interessante deve ancora venire... Quel gruppo di bambini venne seguito dagli studiosi per diversi anni, per provare a scoprire se ci fosse qualche relazione tra la loro capacità di attesa e la loro vita futura. Per esempio, chi era riuscito a controllarsi e ad aspettare la ricompensa avrebbe avuto maggiori o minori problemi durante la ricreazione? Avrebbe gestito meglio o peggio le sue ansie? Avrebbe avuto voti migliori o peggiori? I dati mostrarono che in generale chi era riuscito a posticipare la gratificazione immediata avrebbe avuto meno problemi a scuola, con gli amici e più tardi nella vita lavorativa! Perché? Perché riuscire a mettere in atto strategie per raggiungere obiettivi a lungo termine — come mangiare due marshmallow anziché uno, ma anche cose più serie come conseguire un diploma, portare avanti un allenamento sportivo e così via — può avere conseguenze importanti per la nostra vita. Piccola annotazione: tutto ciò riguarda tra l’altro la capacità di anticipare le conseguenze e di prevedere quello che accadrà. Bene, questa è una specialità della corteccia prefrontale, una parte del cervello che nei bambini e negli adolescenti è ancora in via di formazione. Quando siamo giovani, quindi, può risultare più difficile pensare a un futuro lontano e di conseguenza resistere e non buttarsi sul primo vassoio di ghiottonerie che ci piazzano davanti. A questo punto: spendo tutti i soldi della paghetta in gelatine alla frutta o risparmio per comprare quel gioco pazzesco che mi piace tanto? Nessuno ha mai detto che la vita è semplice... (Tratto e adattato da: I. M. Martins, M. M. Pedrosa, illustrazioni di M. Matoso, Qui dentro. Guida alla scoperta della mente, Milano, Mondadori, 2018) ",5.0,multipla 384,"C2. In quale delle frasi che seguono il verbo NON è al modo indicativo? A. Il pulmino della scuola ha avuto un piccolo incidente. B. Come mai non avevi capito l’ora dell’appuntamento? C. Dopo pranzo andremo tutti insieme al parco. D. Potresti aiutarmi con i compiti per favore?",D,multiple choice,132.0,['item_132_0.png'],2021_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 385,"C3. In quale delle frasi che seguono la parola sottolineata è usata in funzione di nome? A. Sonia sta facendo una sciarpa con la lana rosa. B. Lucia ha comprato una maglietta rosa pallido. C. Il rosa è un colore particolarmente delicato. D. Questo pennarello rosa è tuo?",C,multiple choice,133.0,['item_133_0.png'],2021_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 386,"C4. In quale delle frasi che seguono il verbo “essere” è usato come verbo ausiliare? A. Stamattina Susanna è arrivata in bicicletta. B. Fare gli allenamenti in piscina è stancante. C. La gelateria è lontana da casa mia. D. Maria Pia è la mia amica del cuore.",A,multiple choice,134.0,['item_134_0.png'],2021_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 387,"C7. Leggi la seguente frase: Anche oggi siamo arrivati puntuali alla lezione. Con quale delle seguenti espressioni puoi sostituire la parola sottolineata, senza cambiare il significato della frase? A. in ritardo B. in orario C. in anticipo D. per ultimi",B,multiple choice,137.0,['item_137_0.png'],2021_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 388,"C8. In quale delle seguenti frasi la punteggiatura NON è corretta? A. Chi viene a cena da noi questa sera? B. Ho appena finito di studiare matematica, adesso faccio un giro in bici. C. Ho comperato tutto l’occorrente per la scuola, l’astuccio, il diario e i quaderni. D. Luca, il mio migliore amico, è partito per le vacanze.",C,multiple choice,138.0,['item_138_0.png'],2021_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 389,"A1. Segui la freccia che parte dal naso dell’orso. Il pezzetto di testo collegato fa capire che cosa significa che “il naso dell’orso e` molto sensibile”. Significa che A. il naso dell’orso sente e riconosce con facilita` tanti odori diversi B. il naso dell’orso e` morbido e può essere ferito dalla puntura delle api C. il naso dell’orso avverte subito il freddo e il caldo D. il naso dell’orso si irrita a causa del polline dei fiori in primavera",A,multiple choice,141.0,['item_141_0.png'],2019_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO SE TU FOSSI UN ORSO... ... ti arrampicheresti sugli alberi, nuoteresti benissimo, saresti molto forte e sapresti anche pulire il pesce. Passeresti il tempo ad annusare. Il naso dell'orso è molto sensibile: può fiutare un pericolo, la presenza di cibo e di altri orsi. Avresti una pelliccia folta. È abitata da pidocchi, pulci e formiche, però protegge l'orso dal freddo e dagli artigli dei nemici. Avresti artigli lunghi 10 centimetri. Servono all’orso per arrampicarsi sugli alberi o scavare buche. Non sono retrattili. Quando arriva l’inverno, l'orso si chiude in una caverna o in una tana e dorme per diversi mesi: va in letargo. Quando la primavera ritorna, si sveglia, dimagrito e pronto a riprendere la vita normale. (Tratto e adattato da: D. Grinberg, L'orso, Trieste-Firenze, Editoriale Scienza, 2014) ",2.0,multipla 390,"A2. Segui la freccia che parte dalla pelliccia dell’orso. Il pezzetto di testo collegato fa pensare che l’orso e` fortunato ad avere una pelliccia folta. Perché? A. Perché nella pelliccia l’orso può dare riparo ad animali che gli tengono caldo B. Perché la pelliccia rende l’orso più grosso e spaventoso per i nemici C. Perché la pelliccia e` soffice e quando l’orso dorme per terra sta comodo D. Perché la pelliccia ripara l’orso dal freddo e dai graffi degli animali che lo attaccano",D,multiple choice,142.0,['item_142_0.png'],2019_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO SE TU FOSSI UN ORSO... ... ti arrampicheresti sugli alberi, nuoteresti benissimo, saresti molto forte e sapresti anche pulire il pesce. Passeresti il tempo ad annusare. Il naso dell'orso è molto sensibile: può fiutare un pericolo, la presenza di cibo e di altri orsi. Avresti una pelliccia folta. È abitata da pidocchi, pulci e formiche, però protegge l'orso dal freddo e dagli artigli dei nemici. Avresti artigli lunghi 10 centimetri. Servono all’orso per arrampicarsi sugli alberi o scavare buche. Non sono retrattili. Quando arriva l’inverno, l'orso si chiude in una caverna o in una tana e dorme per diversi mesi: va in letargo. Quando la primavera ritorna, si sveglia, dimagrito e pronto a riprendere la vita normale. (Tratto e adattato da: D. Grinberg, L'orso, Trieste-Firenze, Editoriale Scienza, 2014) ",2.0,multipla 391,"A4. Le ultime tre righe del testo, in fondo alla pagina, dicono che a primavera l’orso “si sveglia dimagrito” e permettono di capire il perché. Perché l’orso si sveglia dimagrito? A. Perché con il freddo dell’inverno non vuole uscire a trovare il cibo B. Perché in inverno dorme per molto tempo e non mangia C. Perché quando fa freddo si dimagrisce sempre D. Perché d’inverno l’orso perde parte del pelo e sembra più magro",B,multiple choice,144.0,['item_144_0.png'],2019_02_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO SE TU FOSSI UN ORSO... ... ti arrampicheresti sugli alberi, nuoteresti benissimo, saresti molto forte e sapresti anche pulire il pesce. Passeresti il tempo ad annusare. Il naso dell'orso è molto sensibile: può fiutare un pericolo, la presenza di cibo e di altri orsi. Avresti una pelliccia folta. È abitata da pidocchi, pulci e formiche, però protegge l'orso dal freddo e dagli artigli dei nemici. Avresti artigli lunghi 10 centimetri. Servono all’orso per arrampicarsi sugli alberi o scavare buche. Non sono retrattili. Quando arriva l’inverno, l'orso si chiude in una caverna o in una tana e dorme per diversi mesi: va in letargo. Quando la primavera ritorna, si sveglia, dimagrito e pronto a riprendere la vita normale. (Tratto e adattato da: D. Grinberg, L'orso, Trieste-Firenze, Editoriale Scienza, 2014) ",2.0,multipla 392,"B1. Che cosa sta facendo l’orso all’inizio del racconto? A. Va a caccia di farfalle B. Scende dalle montagne C. Va a cercare cose nuove D. Ammira i fiori di un prato",B,multiple choice,145.0,['item_145_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 393,"B2. All’inizio si dice che l’orso vede una cosa che non aveva mai visto. L’orso pensa che quella cosa sia una farfalla perché A. è colorata B. odora di polline C. sembra avere delle ali D. sta volando",C,multiple choice,146.0,['item_146_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 394,"B3. Perché l’orso rimane a guardare il libro? A. Perché è un libro illustrato e l’orso è attirato da immagini di animali che conosce B. Perché le pagine del libro si girano da sole e l’orso pensa che siano magiche C. Perché è un libro perduto da un bambino e l’orso cerca indizi per capire chi è questo bambino D. Perché è un libro aperto e l’orso vuole sentire che odore ha",A,multiple choice,147.0,['item_147_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 395,"B4. “Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso”. Come si può sostituire “vennero” per chiarire il significato di questa parte di testo? Ma la pagina si giro` e... A. arrivarono lì vicino all’orso un corvo, una volpe, un cervo... B. all’orso apparvero le figure di un corvo, una volpe, un cervo... C. all’orso sembro` di vedere in lontananza un corvo, una volpe, un cervo... D. all’orso vennero in mente un corvo, una volpe, un cervo...",B,multiple choice,148.0,['item_148_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 396,"B6. Nel testo trovi “L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito”. A che cosa serve dire “come una madre che raccolga un cucciolo ferito” in questa parte di testo? Serve a farti capire che A. l’orso tratta il libro con grande attenzione e con tanta delicatezza B. una mamma orsa si comporta come le mamme di tutti gli altri animali C. l’orso aveva una mamma premurosa che si prendeva cura di lui quando stava male D. il libro che l’orso ha raccolto e ha portato nella sua tana era mal ridotto",A,multiple choice,150.0,['item_150_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 397,"B7. Quell’inverno succede qualcosa di diverso dal solito nella tana. Che cosa succede di diverso? A. L’orso dorme poco perché l’unica cosa che vuole fare è leggere il libro B. L’orso non dorme perché è infastidito dalla luce che illumina la grotta C. L’orso è disturbato da corvi, volpi e aquile: sono agitati e fanno rumore D. L’orso si sveglia ogni giorno per ammirare la luce dell’alba",A,multiple choice,151.0,['item_151_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 398,"B8. Immagina di chiedere all’orso perché ha sognato aquile, corvi, volpi... Quale risposta potrebbe darti? Tieni conto di quello che gli e` successo. L’orso potrebbe risponderti che A. quegli animali lo inseguono spesso anche nei sogni B. nella tana è buio e con il buio si sognano quegli animali C. nel libro ha visto quegli animali che ora popolano la sua fantasia D. quegli animali, che ha visto nel libro, sono quelli preferiti dagli orsi",C,multiple choice,152.0,['item_152_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 399,"B9. Alla fine del racconto, quando l’orso si sveglia ed esce dalla tana, ha in mente di fare qualcosa di importante. Che cosa ha in mente di fare? A. Vuole andare a cercare un altro libro perché leggere e sognare gli e` piaciuto B. Vuole scendere verso il villaggio per cercare il proprietario del libro e restituirglielo C. Vuole andare a cercare da mangiare perché è magro e ha fame D. Vuole mettersi subito in cammino perché è ora di fare le cose che fa di solito",A,multiple choice,153.0,['item_153_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 400,"B11. Quella che hai letto è la storia di un orso A. che rimane affascinato da un libro e dimentica le cose che un orso dovrebbe fare B. che non ama dormire e approfitta di un libro per stare sveglio una notte dopo l’altra C. che va alla ricerca di cose nuove, si lascia incuriosire da un libro, ma si trova in difficoltà D. che non conosce il mondo e un libro gli fa venire la voglia di viaggiare",A,multiple choice,155.0,['item_155_0.png'],2019_02_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'ORSO NON DORME PARTE 1 Un orso grande e bruno, di quelli che vivono sulle montagne, scese una mattina verso i boschi e vide, tra i fiori di un prato, una cosa che non aveva mai visto. “Che strana farfalla!” pensò. “Così grande e con tutte quelle ali, non riesce a volare!” Si avvicinò alla cosa e l’annusò. “Di polline non sa: non è una farfalla. Ma allora che cos'è?” Era un libro illustrato, aperto all'insù, caduto sul sentiero a chissà quale bambino. Il vento gli sfogliava le pagine. L'occhio dell'orso si fermò su una figura: era un’aquila che volava tra le nuvole. Ma la pagina si girò e vennero un corvo, una volpe, un cervo e per ultimo proprio un orso: lo stesso muso morbido e terribile che vedeva quando si specchiava sull'acqua del lago. PARTE 2 L’orso prese il libro tra le labbra, con cura, come una madre che raccolga un cucciolo ferito, e lo portò nella sua tana. Era tempo di mettersi in letargo, e tutto era pronto, là dentro, per la lunga dormita. Quell’inverno l’orso bruno dormì poco. C'era una fessura che mandava un filo di luce, nella sua grotta, e lui passò i giorni a leggere il libro e le notti ad aspettare il chiarore dell’alba per ricominciare. Verso primavera crollò in un sonno profondissimo e sognò aquile e corvi e volpi e cervi, e ancora corvi rossi come volpi e cervi che volavano come aquile, e tante altre magiche immagini ricche di sole e di colori. Quando il caldo dell’estate lo svegliò, si mise subito in cammino, magro com'era, e scese verso il villaggio degli uomini a cercare un altro libro da leggere. (Tratto e adattato da: N. Cinquetti, Ultimo venne il verme, Milano, Bompiani, 2016) ",2.0,multipla 401,"A1. Il racconto si apre con la scena in cui il protagonista e Francesco vedono la macchina dei carabinieri (da riga 1 a riga 11). In base al racconto, che cosa può aver pensato il protagonista alla vista della macchina dei carabinieri? A. Aiuto! Mi hanno scoperto... B. Accidenti! Ho superato il limite di velocità. C. Possibile!? Il nonno ha di nuovo combinato qualcosa. D. Mamma mia! Sarà successo qualcosa a casa?",A,multiple choice,156.0,['item_156_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 402,"A2. Perché l’autore, nella prima parte del testo, non spiega la ragione per cui il protagonista ha paura quando vede la macchina dei carabinieri? Perché l’autore A. ritiene più importante raccontare al lettore che cosa è successo a casa mentre il protagonista era assente B. vuole coinvolgere il lettore facendo nascere in lui la curiosità di scoprire che cosa è successo al protagonista C. vuol far capire al lettore che quello che è successo al protagonista non è grave D. pensa che sia più divertente per il lettore che il racconto cominci dalla discussione degli adulti con le guardie",B,multiple choice,157.0,['item_157_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 403,"A3. “Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa” (righe 9-10); “ ‘sta cosa” si riferisce a una parte di testo che abbiamo sintetizzato in una parola. Quale parola sintetizza questa parte di testo? A. Arresto B. Sgridata C. Furto D. Litigata",A,multiple choice,158.0,['item_158_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 404,"A4. All’inizio del testo c’e` scritto che i due amici arrivavano lanciatissimi nel cortile della casa del protagonista. Da dove venivano i due amici? A. Dal campo di calcio B. Dal campo di cocomeri C. Dall’argine del fiume D. Dalla casa di Francesco",D,multiple choice,159.0,['item_159_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 405,"A6. Il bambino, arrivato a casa col suo amico, capisce che i carabinieri non sono li` per lui. In base al testo, la prima cosa che glielo fa capire e` che A. i carabinieri stanno discutendo col babbo e col nonno B. il babbo scuote la testa e ride in modo isterico C. la mamma lo accoglie in modo normale D. il nonno e` pronto a difendere il pollaio",C,multiple choice,161.0,['item_161_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 406,"A7. Qual e` il motivo per cui i carabinieri si trovano a casa del protagonista? A. Qualcuno è accusato di imbroglio B. Qualcuno è stato ucciso C. Qualcuno è minacciato con un fucile D. Qualcuno ha rubato qualcosa",D,multiple choice,162.0,['item_162_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 407,"A10. Il protagonista risponde “Neanche per sogno” all’invito di Paolino di tornare a prendere un cocomero. Se Paolino gli avesse chiesto “Perche´?”, in che modo il protagonista avrebbe potuto giustificare questo rifiuto? Indica la giustificazione che tiene conto del testo. A. “Non mi fido più di te e non voglio rischiare di trovarmi nei pasticci” B. “Non ne ho più voglia, è inutile fare tanta fatica per un cocomero” C. “Non ne vale la pena: mi diverto di più ad andare in bicicletta” D. “Non ci penso proprio: mi è dispiaciuto sprecare un cocomero”",A,multiple choice,165.0,['item_165_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 408,"A14. Quattro bambini hanno letto ciascuno un racconto diverso e ne parlano. Solo uno di loro ha letto il racconto che hai appena letto tu. Quale bambino ha letto il tuo stesso racconto? A. Carlo: “Il racconto e` avvincente perché le situazioni vissute dai personaggi sono rischiose, sfortunate e anche buffe.” B. Laura: “Il racconto è inquietante perché le situazioni vissute dai personaggi sono intricate, difficili e senza via di uscita.” C. Barbara: “Il racconto è noioso perché le situazioni vissute dai personaggi sono prevedibili: sai già dall’inizio come va a finire.” D. Davide: “Il racconto è interessante perché le situazioni vissute dai personaggi insegnano a tirarsi fuori dai problemi.”",A,multiple choice,169.0,['item_169_0.png'],2019_05_SNV_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"AGOSTO 1963 Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me. Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti. — Ohi ohi! — disse lui. lo non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava a cento all'ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ‘sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida. — Dai, — diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto — sei piccolo, mica ti possono arrestare... — Sì che possono, rispondevo io... La porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma. — Ah, sei qua, — disse. — Allora, vi siete divertiti? Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima aveva festeggiato il suo compleanno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me. — Cosa è successo? — Stanotte ci hanno rubato dei polli. — Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli? — Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? — disse la mamma. — È da mezz'ora che parlano col babbo e col nonno, e mi sa che non si sono ancora capiti. Due carabinieri stavano discutendo ad alta voce con mio padre, che scuoteva la testa e rideva in modo isterico. — Questa poi, — diceva, — Le supera tutte! Ma state scherzando o fate sul serio? Mio nonno abbandonò la scena, partì camminando verso casa spedito, quasi correndo. — Ehi... — dissi allora al babbo — Ma cosa succede? — Succede che questi qui, invece di cercare i nostri polli, ci vogliono portare via anche quelli che i ladri non hanno rubato! — Non vogliamo portare via niente, — disse uno dei militari. — Abbiamo soltanto detto che la descrizione coincide: ai vostri vicini hanno rubato dodici galline bianche, e qui ci sono dodici galline bianche. — Il babbo diventò ancora più paonazzo. — Sentite un po’ questa, bambini! Sembra una barzelletta! — Signore, non si permetta... — disse il carabiniere che fino ad allora aveva taciuto, ma si interruppe subito perché stava arrivando il nonno di gran carriera con la doppietta in mano. Il nonno si piazzò davanti al pollaio e disse — Chi tocca le galline, lo impallino. I due in divisa parlottarono tra loro e poi se ne andarono zitti zitti. — Andiamo a fare un giro? — chiesi a Francesco. Pedalammo fino all’argine del fiume, posammo le bici e ci sedemmo nell'erba a guardare l’acqua che scorreva verde e lenta. — Ero sicuro che fossero venuti per me, — dissi - Un omicidio è sempre un omicidio, altro che furto di polli! Insomma, era successo che una settimana prima io e Paolino, un bambino che aveva un paio d'anni meno di me, eravamo andati, di sera, a prenderci un cocomero da un vicino. Ne aveva così tanti! Arrivati sul posto c'eravamo divisi i compiti: io oltrepassavo la recinzione, lui mi aspettava dall'altra parte, attento che non venisse nessuno. Superata la recinzione, ero saltato giù nel campo, avevo abituato gli occhi all’oscurità e mi ero messo, carponi, a cercare la preda. A un certo punto l’avevo trovata: era il cocomero più grosso che avessi mai visto; tenendolo in mano non mi sarei potuto arrampicare sulla barriera. Allora avevo detto a Paolino, che non vedevo per via delle foglie: — Te lo butto, poi scavalco e ce la filiamo. — Va bene! — aveva risposto lui. Mi ero messo il cocomero sulla testa con le mani appoggiate sotto, poi, con una bella spinta la refurtiva era volata oltre la recinzione. E avevo sentito un rumore sordo che non mi era piaciuto affatto. — Tutto bene? — avevo chiesto. Nessuna risposta. — Ehi, Paolino, ci sei? Niente. Avevo scavalcato con un gran brutto presentimento, e mi si era presentata una scena agghiacciante. Il mio complice era steso per terra e intorno aveva un sacco di poltiglia rossa. Il cocomero doveva averlo preso in pieno, e secondo me in quella pozza si mescolavano cocomero e contenuto della testa di Paolino in quantità più o meno uguali. In preda al panico ero saltato sulla bicicletta e via. Ora, devo dire la verità, non è che friggessi dal rimorso o dal senso di colpa: se Paolino c'era rimasto secco col cocomero era colpa sua che doveva essersi distratto. Però avevo il terrore che qualcuno scoprisse che ero stato io. Ecco perché vedere i carabinieri mi faceva venire i sudori freddi. Quando tornai a casa vidi due cose. La prima fu il nonno che, ancora con il fucile in mano, se ne stava di sentinella al pollaio. La seconda fu Paolino che transitava in bicicletta sulla strada. — Ehi! — gli gridai, stupito e decisamente sollevato. Lui venne da me e mi disse: — M'hai fatto male con quel cocomero, sai? — Ma non sei tu che al campetto vuoi sempre giocare in porta? Neanche un cocomero sai parare! — Riproviamo a prenderne uno, stasera? — mi chiese. — Neanche per sogno, — e gli girai le spalle. (Tratto e adattato da: E. Baldini, L’uomo nero e la bicicletta blu, Torino, Einaudi Stile libero, 2011) ",5.0,multipla 409,"B2. Quando si descrive un esperimento scientifico vengono fornite indicazioni per la sua realizzazione. Quale tra le seguenti indicazioni e` riportata nell’INTRODUZIONE per realizzare gli esperimenti descritti nel testo? A. Servono strumenti per registrare i dati raccolti B. Servono oggetti che si possono trovare in casa C. Servono protezioni per il viso e le mani D. Servono a volte materiali pericolosi",B,multiple choice,171.0,['item_171_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,multipla 410,"B4. Secondo il testo l’impenetrabilità dei corpi si manifesta in mille modi. Che cosa significa questa affermazione? Significa che l’impenetrabilità A. si rileva una volta su mille B. si può provare solo dopo aver effettuato molti esperimenti C. si osserva in molte situazioni della vita quotidiana D. permette di rivelare le mille proprietà dei corpi",C,multiple choice,173.0,['item_173_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,multipla 411,"B6. A che cosa serve l’affermazione “il cartoncino non si bagnerà”, alla fine dell’ESPERIMENTO 1? Serve a A. fornire la prova che quello che l’esperimento voleva dimostrare è vero B. mostrare quanto e` importante l’abilita` manuale di chi esegue l’esperimento C. sottolineare che il cartoncino e` un materiale adatto all’esperimento D. suggerire che a volte accadono cose inspiegabili",A,multiple choice,175.0,['item_175_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,multipla 412,"B8. Nell’ESPERIMENTO 2, accanto alla bottiglia si mette una candela. Per quale motivo? A. Per dimostrare come l’acqua che esce dalla bottiglia rischi di spegnere la fiamma B. Perche´ la fiamma che si piega dimostri la fuoriuscita dell’aria dalla bottiglia C. Per dimostrare come il calore della candela spinga l’aria verso l’alto D. Perche´ il calore della candela ammorbidisca la plastilina dimostrando che e` un materiale modellabile",B,multiple choice,177.0,['item_177_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,multipla 413,"B9. Servendoti delle informazioni e delle spiegazioni date nell’ESPERIMENTO 2 puoi affrontare il problema che segue. Il papà di Matteo vuole travasare dell’olio in una bottiglia e usa un imbuto il cui collo aderisce quasi perfettamente all’imboccatura della bottiglia. Si accorge che in questo modo l’olio scende nella bottiglia molto lentamente. Perché succede questo? A. La bottiglia ha un’imboccatura stretta B. L’olio è molto denso e va giù lentamente C. L’imbuto è troppo piccolo per quella bottiglia D. L’aria ha poco spazio per uscire dalla bottiglia",D,multiple choice,178.0,['item_178_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,multipla 414,"B10. All’inizio dei due esperimenti trovi le seguenti informazioni: “Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire.” (ESPERIMENTO 1) “...se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che e` all’interno deve uscire.” (ESPERIMENTO 2) Che cosa rappresentano queste informazioni nella descrizione degli esperimenti? A. Quello che deve essere dimostrato dall’esperimento B. Una fase nello svolgimento dell’esperimento C. Ciò che suggerisce come realizzare al meglio l’esperimento D. Un modo per far capire la difficoltà dell’esperimento",A,multiple choice,179.0,['item_179_0.png'],2019_05_SNV_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SCIENZIATI IN CASA Introduzione Materia, energia e forza sono indagate dagli scienziati. Ovunque tu sia, tutto quello che ti circonda è fatto di materia: per esempio quello che indossi, che mangi e anche il tuo stesso corpo e l’aria che respiri. Tutta la materia è composta di piccolissime particelle, gli atomi, a loro volta fatti di particelle ancora più minuscole. Tutti gli eventi, dalla scarica di un fulmine all’allacciarsi le scarpe, sono possibili grazie all'energia. Senza energia niente potrebbe succedere: per esempio persone e animali usano energia ricavata dal cibo per camminare e correre, le piante crescono grazie all'energia del sole. Ogni volta che un oggetto cambia il modo di muoversi, cioè la sua velocità, è in gioco una forza: per esempio c'è bisogno di una forza per metterlo in movimento, o per arrestarlo; occorre una forza anche solo per aumentare o diminuire la sua velocità. Una forza può anche essere responsabile della deformazione o della rottura di qualcosa, e ci sono forze che tengono assieme le cose. Di seguito troverai alcuni esperimenti per scoprire una proprietà della materia: l’impenetrabilità!. Per fare questi esperimenti ti servono cose e materiali della vita di ogni giorno, facili da trattare e trovare (spesso sono presenti in casa). Cerca di organizzare un angolo tutto tuo della casa (garage, veranda, camera) dove poter tenere l'attrezzatura e lavorare senza intralci per il resto della famiglia. Materia L’impenetrabilità La parola impenetrabilità indica una proprietà di certi corpi che si manifesta intorno a te in mille modi; significa che due corpi non possono occupare contemporaneamente la stessa regione di spazio: ad esempio lo spazio occupato da un libro sul tavolo non può essere “contemporaneamente” occupato da un altro libro. Un bicchiere pieno d’aria non può contenere contemporaneamente dell’acqua: se ci versi dentro l’acqua, l’aria deve uscire. Se, con qualche accorgimento, impedisci all'aria di uscire, l’acqua entrerà fino a un certo punto, comprimendo l’aria, ma poi si fermerà. Sperimentalo con un bicchiere, un cartoncino e un grande vaso di vetro pieno a metà di acqua. * Ritaglia un dischetto di cartoncino largo quanto il fondo interno del bicchiere, in modo che aderisca al fondo, senza cadere, anche a bicchiere capovolto. * Immergi lentamente il bicchiere capovolto nel vaso: l’acqua salirà all’interno del bicchiere per qualche millimetro, ma poi si fermerà. * Anche a bicchiere completamente sommerso e tenuto premuto sul fondo del vaso, l’acqua rimarrà sempre allo stesso livello e il cartoncino non si bagnerà. LE CAMPANE SUBACQUEE Usate dai primi esploratori sottomarini, funzionavano come il bicchiere rovesciato dell'esperimento, trattenendo l’aria e consentendo la respirazione dei subacquei. | primi esperimenti risalgono al 1538, in Spagna, ma si dice che Alessandro Magno ne abbia usata una nel 332 a.C. L’acqua in bottiglia - ESPERIMENTO 2 Dato che aria e acqua non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, se si versa dell’acqua in una bottiglia, l’aria che è all’interno deve uscire. Lo vedrai con questa prova, per la quale ti servono una bottiglia a collo piuttosto largo, un piccolo imbuto di plastica, una cannuccia da bibite piegabile, un po’ di plastilina e una candela. * Infila nella bocca della bottiglia l’imbuto e la cannuccia da bibite, piegata quasi ad angolo retto (osserva il disegno). Tappa ermeticamente con la plastilina tutti i vuoti all'imboccatura della bottiglia, * Accendi la candela e sistemala all’altezza dello sbocco della cannuccia. Ora versa l’acqua nell’imbuto. Noterai che man mano che il liquido entra nella bottiglia la fiamma si piega: l’aria, scacciata dall'acqua, esce dalla cannuccia e soffia sulla candela. (Tratto e adattato da: L. Pizzorni, !/ manuale del giovane scienziato, Milano, Fabbri Editori, 1980) ",5.0,multipla 415,"C2. Uno dei seguenti nomi NON è un nome composto: trovalo. A) Capogiro B) Caporale C) Capolavoro D) Capostazione",B,multiple choice,181.0,['item_181_0.png'],2019_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 416,"C4. Che cos’hanno in comune questi quattro nomi? ZUCHHERIERA – GIORNALISTA – FOGLIAME – GELATERIA A. Sono tutti nomi composti. B. Sono tutti nomi collettivi. C. Sono tutti nomi derivati. D. Sono tutti nomi alterati.",C,multiple choice,183.0,['item_183_0.png'],2019_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 417,"C5. In quale delle seguenti frasi la divisione in gruppi sintattici (sintagmi) è corretta? A. Quest’anno/ mia cugina Rachele/ ha/ vinto/ la gara di sci. B. Quest’anno/ mia cugina Rachele/ ha vinto la gara/ di sci. C. Quest’anno mia cugina/ Rachele/ ha vinto/ la gara di sci. D. Quest’anno/ mia cugina Rachele/ ha vinto/ la gara di sci.",D,multiple choice,184.0,['item_184_0.png'],2019_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 418,"C6. Indica in quale frase è possibile sostituire i due punti (:) con ""infatti"" senza cambiare il senso della frase A. Dobbiamo fare un dolce: per favore, compra uova, zucchero, farina e lievito. B. Stanotte la temperatura è scesa sotto lo zero: il laghetto si è ghiacciato C. Anna Maria guardò fuori dalla finestra: nel cielo splendeva la luna. D. La tartaruga è scappata: cerchiamola prima che il gatto la trovi.",B,multiple choice,185.0,['item_185_0.png'],2019_05_SNV_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 419,"A1. In quale periodo storico si svolgono le vicende narrate nel testo? a) All’epoca del Risorgimento italiano b) Durante la prima guerra mondiale c) Negli anni tra le due guerre mondiali d) Nel secondo dopoguerra",C,multiple choice,190.0,['item_190_0.png'],2019_08_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Balordo Idee politiche il maestro Bordigoni si procurava il piacere di non averne; e se ne aveva, si negava il piacere di manifestarle. Il fascismo a quei tempi badava solo a crescere e a fortificarsi; più tardi, verso il ’28 o il ’29, diventato esigente, si accorse del Bordigoni. Il maestro Cometta, fiduciario dell’Opera nazionale Balilla, un giorno lo avvicinò e cercò di fargli capire ch e il nuovo clima in cui doveva crescere la gioventù italiana, esigeva dagli insegnanti una partecipazione attiva nel formare anche i più piccoli all’amore e alla devozione verso la patria fascista. Il Bordigoni ascoltò, ora fissando attraverso le lenti il piccolo Cometta, ora guardandosi intorno con il suo sguardo che non vedeva nulla e sembrava rimandato indietro dalla concavità delle lenti a illuminargli la fronte. Ascoltò e non rispose. Dopo qualche mese il Cometta lo condusse dal professor Bistoletti, f iduciario del partito per la classe insegnante, perché l’esortazione si trasformasse in un ordine perentorio. Il Bistoletti se ne lavò le mani e lo rinviò al segretario politico. Il segretario politico, che era alto quanto il Bordigoni ma molto più giovane e magro come un chiodo, quando se lo vide davanti lo prese in simpatia e gli parlò bonariamente, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo fino a sfiorargli la pancia. “Camerata Bordigoni” gli disse “tu sei dei nostri. E lavorerai con noi, non sol o nella scuola, ma anche fuori. Domenica ti voglio qui in sede. Per me sei già iscritto al Partito”. Ma il Bordigoni la domenica dopo dimenticò di andare in sede e a scuola non gli venne mai in mente di parlare del fascismo che probabilmente non sapeva nep pure cosa fosse di preciso. Finirono col dimenticarsi di lui. Il segretario politico si giustificò dicendo che il Bordigoni, in divisa e camicia nera, sarebbe stato ridicolo e avrebbe dato un’idea sbagliata del fascismo che era una cosa dinamica, agile e soprattutto giovane. In verità sarebbe stato una caricatura; e fu la sua mole a salvarlo dai cortei, dai saluti romani, dagli alalà e dalle altre prescrizioni di quegli anni. Con tutta la libertà di cui disponeva, e col tempo che la scuola gli lasciava per molte ore del giorno e per tutti i mesi dell’estate, Anselmo Bordigoni poteva coltivare i suoi piaceri e incrementare i suoi guadagni mettendo a profitto due profonde conoscenze connaturate alla sua personalità: la pesca e la musica. La pesca per lui era f orse più un riposo e un capriccio che un espediente per integrare il suo salario di maestro elementare. Gli rendeva sì e no in un anno una cinquantina di pasti a base di agoni, persici e alborelle. La musica, invece, oltre ad essere la sua grande passione, gli serviva come mezzo di sussistenza. Dava lezione di qualunque strumento, generalmente di flauto, di clarinetto o di cornetta a operai o barbieri con buona inclinazione, e di pianoforte a qualche figlio di famiglia. Le sue lezioni erano una o due al gi orno; e le impartiva sul tardi, a pesca finita, diffondendo sulla chioma degli ippocastani, dalla finestra aperta, le note del piano o del clarinetto. Dopo cena, alle otto in punto, andava a sedersi al pianoforte del Cinema Tiraboschi, sotto il bianco telo ne, con la schiena rivolta al pubblico. Attaccava subito a suonare mentre la gente entrava ancora, e si fermava solo dopo il primo tempo. Insieme al riaccendersi delle immagini sullo schermo riprendeva la musica, per sostare brevemente negli intervalli fra un tempo e l’altro, fino alla farsa finale. Cosa suonasse, nessuno era in grado di dirlo; ed era opinione comune che egli pestasse sui tasti come veniva, ispirandosi in qualche modo alle scene che vedeva succedersi sul telone, se pur gli era possibile ved ere qualche cosa stando ai piedi della ribalta. ",8.0,multipla 420,"A3. Il fiduciario dell'Opera nazionale Balilla vuole a) far crescere la gioventù italiana in un modo nuovo e attivo b) iscrivere tutti gli insegnanti al partito fascista c) coinvolgere i maestri nell’educazione fascista dei ragazzi d) far partecipare anche i ragazzi più giovani alla rinascita dell’Italia",C,multiple choice,192.0,['item_192_0.png'],2019_08_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Balordo Idee politiche il maestro Bordigoni si procurava il piacere di non averne; e se ne aveva, si negava il piacere di manifestarle. Il fascismo a quei tempi badava solo a crescere e a fortificarsi; più tardi, verso il ’28 o il ’29, diventato esigente, si accorse del Bordigoni. Il maestro Cometta, fiduciario dell’Opera nazionale Balilla, un giorno lo avvicinò e cercò di fargli capire ch e il nuovo clima in cui doveva crescere la gioventù italiana, esigeva dagli insegnanti una partecipazione attiva nel formare anche i più piccoli all’amore e alla devozione verso la patria fascista. Il Bordigoni ascoltò, ora fissando attraverso le lenti il piccolo Cometta, ora guardandosi intorno con il suo sguardo che non vedeva nulla e sembrava rimandato indietro dalla concavità delle lenti a illuminargli la fronte. Ascoltò e non rispose. Dopo qualche mese il Cometta lo condusse dal professor Bistoletti, f iduciario del partito per la classe insegnante, perché l’esortazione si trasformasse in un ordine perentorio. Il Bistoletti se ne lavò le mani e lo rinviò al segretario politico. Il segretario politico, che era alto quanto il Bordigoni ma molto più giovane e magro come un chiodo, quando se lo vide davanti lo prese in simpatia e gli parlò bonariamente, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo fino a sfiorargli la pancia. “Camerata Bordigoni” gli disse “tu sei dei nostri. E lavorerai con noi, non sol o nella scuola, ma anche fuori. Domenica ti voglio qui in sede. Per me sei già iscritto al Partito”. Ma il Bordigoni la domenica dopo dimenticò di andare in sede e a scuola non gli venne mai in mente di parlare del fascismo che probabilmente non sapeva nep pure cosa fosse di preciso. Finirono col dimenticarsi di lui. Il segretario politico si giustificò dicendo che il Bordigoni, in divisa e camicia nera, sarebbe stato ridicolo e avrebbe dato un’idea sbagliata del fascismo che era una cosa dinamica, agile e soprattutto giovane. In verità sarebbe stato una caricatura; e fu la sua mole a salvarlo dai cortei, dai saluti romani, dagli alalà e dalle altre prescrizioni di quegli anni. Con tutta la libertà di cui disponeva, e col tempo che la scuola gli lasciava per molte ore del giorno e per tutti i mesi dell’estate, Anselmo Bordigoni poteva coltivare i suoi piaceri e incrementare i suoi guadagni mettendo a profitto due profonde conoscenze connaturate alla sua personalità: la pesca e la musica. La pesca per lui era f orse più un riposo e un capriccio che un espediente per integrare il suo salario di maestro elementare. Gli rendeva sì e no in un anno una cinquantina di pasti a base di agoni, persici e alborelle. La musica, invece, oltre ad essere la sua grande passione, gli serviva come mezzo di sussistenza. Dava lezione di qualunque strumento, generalmente di flauto, di clarinetto o di cornetta a operai o barbieri con buona inclinazione, e di pianoforte a qualche figlio di famiglia. Le sue lezioni erano una o due al gi orno; e le impartiva sul tardi, a pesca finita, diffondendo sulla chioma degli ippocastani, dalla finestra aperta, le note del piano o del clarinetto. Dopo cena, alle otto in punto, andava a sedersi al pianoforte del Cinema Tiraboschi, sotto il bianco telo ne, con la schiena rivolta al pubblico. Attaccava subito a suonare mentre la gente entrava ancora, e si fermava solo dopo il primo tempo. Insieme al riaccendersi delle immagini sullo schermo riprendeva la musica, per sostare brevemente negli intervalli fra un tempo e l’altro, fino alla farsa finale. Cosa suonasse, nessuno era in grado di dirlo; ed era opinione comune che egli pestasse sui tasti come veniva, ispirandosi in qualche modo alle scene che vedeva succedersi sul telone, se pur gli era possibile ved ere qualche cosa stando ai piedi della ribalta. ",8.0,multipla 421,"A5. Rileggi il capoverso evidenziato nel testo. Dal contesto, si può dedurre che ""agoni, persici e alborelle"" sono dei tipi di a) carni b) pesci c) verdure d) frutti",B,multiple choice,194.0,['item_194_0.png'],2019_08_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Balordo Idee politiche il maestro Bordigoni si procurava il piacere di non averne; e se ne aveva, si negava il piacere di manifestarle. Il fascismo a quei tempi badava solo a crescere e a fortificarsi; più tardi, verso il ’28 o il ’29, diventato esigente, si accorse del Bordigoni. Il maestro Cometta, fiduciario dell’Opera nazionale Balilla, un giorno lo avvicinò e cercò di fargli capire ch e il nuovo clima in cui doveva crescere la gioventù italiana, esigeva dagli insegnanti una partecipazione attiva nel formare anche i più piccoli all’amore e alla devozione verso la patria fascista. Il Bordigoni ascoltò, ora fissando attraverso le lenti il piccolo Cometta, ora guardandosi intorno con il suo sguardo che non vedeva nulla e sembrava rimandato indietro dalla concavità delle lenti a illuminargli la fronte. Ascoltò e non rispose. Dopo qualche mese il Cometta lo condusse dal professor Bistoletti, f iduciario del partito per la classe insegnante, perché l’esortazione si trasformasse in un ordine perentorio. Il Bistoletti se ne lavò le mani e lo rinviò al segretario politico. Il segretario politico, che era alto quanto il Bordigoni ma molto più giovane e magro come un chiodo, quando se lo vide davanti lo prese in simpatia e gli parlò bonariamente, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo fino a sfiorargli la pancia. “Camerata Bordigoni” gli disse “tu sei dei nostri. E lavorerai con noi, non sol o nella scuola, ma anche fuori. Domenica ti voglio qui in sede. Per me sei già iscritto al Partito”. Ma il Bordigoni la domenica dopo dimenticò di andare in sede e a scuola non gli venne mai in mente di parlare del fascismo che probabilmente non sapeva nep pure cosa fosse di preciso. Finirono col dimenticarsi di lui. Il segretario politico si giustificò dicendo che il Bordigoni, in divisa e camicia nera, sarebbe stato ridicolo e avrebbe dato un’idea sbagliata del fascismo che era una cosa dinamica, agile e soprattutto giovane. In verità sarebbe stato una caricatura; e fu la sua mole a salvarlo dai cortei, dai saluti romani, dagli alalà e dalle altre prescrizioni di quegli anni. Con tutta la libertà di cui disponeva, e col tempo che la scuola gli lasciava per molte ore del giorno e per tutti i mesi dell’estate, Anselmo Bordigoni poteva coltivare i suoi piaceri e incrementare i suoi guadagni mettendo a profitto due profonde conoscenze connaturate alla sua personalità: la pesca e la musica. La pesca per lui era f orse più un riposo e un capriccio che un espediente per integrare il suo salario di maestro elementare. Gli rendeva sì e no in un anno una cinquantina di pasti a base di agoni, persici e alborelle. La musica, invece, oltre ad essere la sua grande passione, gli serviva come mezzo di sussistenza. Dava lezione di qualunque strumento, generalmente di flauto, di clarinetto o di cornetta a operai o barbieri con buona inclinazione, e di pianoforte a qualche figlio di famiglia. Le sue lezioni erano una o due al gi orno; e le impartiva sul tardi, a pesca finita, diffondendo sulla chioma degli ippocastani, dalla finestra aperta, le note del piano o del clarinetto. Dopo cena, alle otto in punto, andava a sedersi al pianoforte del Cinema Tiraboschi, sotto il bianco telo ne, con la schiena rivolta al pubblico. Attaccava subito a suonare mentre la gente entrava ancora, e si fermava solo dopo il primo tempo. Insieme al riaccendersi delle immagini sullo schermo riprendeva la musica, per sostare brevemente negli intervalli fra un tempo e l’altro, fino alla farsa finale. Cosa suonasse, nessuno era in grado di dirlo; ed era opinione comune che egli pestasse sui tasti come veniva, ispirandosi in qualche modo alle scene che vedeva succedersi sul telone, se pur gli era possibile ved ere qualche cosa stando ai piedi della ribalta. ",8.0,multipla 422,"A6. Quale delle seguenti frasi può sostituire ""se pur gli era possibile vedere qualcosa stando ai piedi della ribalta""? a) Ammesso che gli fosse possibile vedere qualcosa stando ai piedi della ribalta b) Dal momento che gli era possibile vedere qualcosa stando ai piedi della ribalta c) Sebbene gli fosse possibile vedere qualcosa stando ai piedi della ribalta d) Quando gli era possibile vedere qualcosa stando ai piedi della ribalta",A,multiple choice,195.0,['item_195_0.png'],2019_08_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Balordo Idee politiche il maestro Bordigoni si procurava il piacere di non averne; e se ne aveva, si negava il piacere di manifestarle. Il fascismo a quei tempi badava solo a crescere e a fortificarsi; più tardi, verso il ’28 o il ’29, diventato esigente, si accorse del Bordigoni. Il maestro Cometta, fiduciario dell’Opera nazionale Balilla, un giorno lo avvicinò e cercò di fargli capire ch e il nuovo clima in cui doveva crescere la gioventù italiana, esigeva dagli insegnanti una partecipazione attiva nel formare anche i più piccoli all’amore e alla devozione verso la patria fascista. Il Bordigoni ascoltò, ora fissando attraverso le lenti il piccolo Cometta, ora guardandosi intorno con il suo sguardo che non vedeva nulla e sembrava rimandato indietro dalla concavità delle lenti a illuminargli la fronte. Ascoltò e non rispose. Dopo qualche mese il Cometta lo condusse dal professor Bistoletti, f iduciario del partito per la classe insegnante, perché l’esortazione si trasformasse in un ordine perentorio. Il Bistoletti se ne lavò le mani e lo rinviò al segretario politico. Il segretario politico, che era alto quanto il Bordigoni ma molto più giovane e magro come un chiodo, quando se lo vide davanti lo prese in simpatia e gli parlò bonariamente, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo fino a sfiorargli la pancia. “Camerata Bordigoni” gli disse “tu sei dei nostri. E lavorerai con noi, non sol o nella scuola, ma anche fuori. Domenica ti voglio qui in sede. Per me sei già iscritto al Partito”. Ma il Bordigoni la domenica dopo dimenticò di andare in sede e a scuola non gli venne mai in mente di parlare del fascismo che probabilmente non sapeva nep pure cosa fosse di preciso. Finirono col dimenticarsi di lui. Il segretario politico si giustificò dicendo che il Bordigoni, in divisa e camicia nera, sarebbe stato ridicolo e avrebbe dato un’idea sbagliata del fascismo che era una cosa dinamica, agile e soprattutto giovane. In verità sarebbe stato una caricatura; e fu la sua mole a salvarlo dai cortei, dai saluti romani, dagli alalà e dalle altre prescrizioni di quegli anni. Con tutta la libertà di cui disponeva, e col tempo che la scuola gli lasciava per molte ore del giorno e per tutti i mesi dell’estate, Anselmo Bordigoni poteva coltivare i suoi piaceri e incrementare i suoi guadagni mettendo a profitto due profonde conoscenze connaturate alla sua personalità: la pesca e la musica. La pesca per lui era f orse più un riposo e un capriccio che un espediente per integrare il suo salario di maestro elementare. Gli rendeva sì e no in un anno una cinquantina di pasti a base di agoni, persici e alborelle. La musica, invece, oltre ad essere la sua grande passione, gli serviva come mezzo di sussistenza. Dava lezione di qualunque strumento, generalmente di flauto, di clarinetto o di cornetta a operai o barbieri con buona inclinazione, e di pianoforte a qualche figlio di famiglia. Le sue lezioni erano una o due al gi orno; e le impartiva sul tardi, a pesca finita, diffondendo sulla chioma degli ippocastani, dalla finestra aperta, le note del piano o del clarinetto. Dopo cena, alle otto in punto, andava a sedersi al pianoforte del Cinema Tiraboschi, sotto il bianco telo ne, con la schiena rivolta al pubblico. Attaccava subito a suonare mentre la gente entrava ancora, e si fermava solo dopo il primo tempo. Insieme al riaccendersi delle immagini sullo schermo riprendeva la musica, per sostare brevemente negli intervalli fra un tempo e l’altro, fino alla farsa finale. Cosa suonasse, nessuno era in grado di dirlo; ed era opinione comune che egli pestasse sui tasti come veniva, ispirandosi in qualche modo alle scene che vedeva succedersi sul telone, se pur gli era possibile ved ere qualche cosa stando ai piedi della ribalta. ",8.0,multipla 423,"B2. Le acque dolci rappresentano a) i 2/3 della superficie della Terra b) il 2,5% del totale delle acque c) il 66% circa del totale delle acque d) 1/3 della superficie della Terra",B,multiple choice,197.0,['item_197_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 424,"B3. Dove si trova l'acqua dolce disponibile per il consumo umano? a) Nei ghiacciai delle montagne b) Nelle zone polari c) Nei corsi d’acqua e nelle falde acquifere d) Nei bacini artificiali",C,multiple choice,198.0,['item_198_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 425,"B4. Tenendo conto di quanto il testo dice, completa la seguente frase: L'acqua dolce disponibile ""sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta…"" a) se fosse distribuita equamente fra tutti i popoli e non vi fossero sprechi b) se i paesi poveri avessero la possibilità di aumentare il loro consumo di acqua c) se le multinazionali che gestiscono l’acqua ne diminuissero il costo d) se il clima delle zone calde della Terra divenisse più mite",A,multiple choice,199.0,['item_199_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 426,"B5. Nei prossimi decenni, quanti saranno, presumibilmente, i paesi che dovranno affrontare il problema della scarsità d'acqua? a) 26 b) 25 c) 51 d) 230",C,multiple choice,200.0,['item_200_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 427,"B6. Qual è la causa principale delle differenze nel consumo di acqua tra i vari paesi del mondo? a) Le diverse condizioni ambientali b) I modi di vivere e il grado di sviluppo economico c) L’inquinamento delle acque che le rende non potabili d) Le diverse abitudini igieniche",B,multiple choice,201.0,['item_201_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 428,"B8. Perché nel testo si usa l'espressione ""oro blu"" in riferimento all'acqua? a) Il prezzo dell’acqua potabile è destinato a crescere nel prossimo futuro b) Come l’oro, sarà sempre più difficile estrarre l’acqua dal sottosuolo c) Il consumo d’acqua nei paesi meno sviluppati diventerà pari a quello dei paesi sviluppati d) Le guerre e i conflitti sociali renderanno difficile alle popolazioni approvvigionarsi di acqua",A,multiple choice,203.0,['item_203_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 429,"B9. Nell'ultima frase del testo, come si può sostituire ""A fronte di""? a) Vista questa situazione problematica b) Nonostante questa situazione problematica c) Oltre a questa situazione problematica d) Invece di questa situazione problematica",A,multiple choice,204.0,['item_204_0.png'],2019_08_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 430,"C1. Nella prima riga del testo si dice che Galileo è ""il padre della scienza moderna"" perché a) si è ispirato alle Sacre Scritture b) ha derivato le sue teorie dalle opere dei grandi filosofi dell’antichità c) la fama delle sue scoperte ha superato quella di Copernico di Keplero d) ha inventato il metodo sperimentale",D,multiple choice,206.0,['item_206_0.png'],2019_08_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,multipla 431,"C2. Il dizionario riporta più significati per la parola ""principio"". Indica fra i seguenti quello con cui è usata nel testo (parte evidenziata). a) Inizio b) Origine c) Concetto fondamentale d) Costituente base di una sostanza",C,multiple choice,207.0,['item_207_0.png'],2019_08_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,multipla 432,"C8. Nella frase evidenziata, con quale altro connettivo si può sostituire ""poi""? a) Inoltre b) Invece c) Infatti d) Dopo",A,multiple choice,213.0,['item_213_0.png'],2019_08_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l'enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un'affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un'ipotesi; 3. verifica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l'ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la natura: “[l’universo]... non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati sperimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristotelico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terrestre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiuto abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall'albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell'Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,multipla 433,"D1. La parola ""premessa"" evidenziata nel titolo significa a) giustificazione b) introduzione c) previsione d) contrapposizione",B,multiple choice,214.0,['item_214_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,multipla 434,"D2. Qual è il senso della poesia di Peter Rosegger che apre il testo? a) L’amore e la rabbia sono i sentimenti che dominano i nostri comportamenti b) Un amore eccessivo per qualcuno può suggerire comportamenti sbagliati c) Solo le azioni che si compiono per amore e non per rabbia hanno un esito felice d) La rabbia è una cattiva consigliera e porta a compiere azioni di cui poi ci si sente",C,multiple choice,215.0,['item_215_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,multipla 435,"D3. L'autore mette tra virgolette la parola ""libri"" (evidenziata nel testo), per indicare che vuole riferirsi a a) tutti i libri che descrivono gli animali b) libri di animali scritti con interesse scientifico c) libri che trattano di animali scritti da lui stesso d) libri che trattano in modo errato di animali",D,multiple choice,216.0,['item_216_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,multipla 436,"D7. A quale campo di indagine l'autore ha dedicato tutta la vita? a) Lo studio comprato della biologia umana e animale b) La descrizione delle caratteristiche fisiche degli animali c) La comprensione dei rapporti fra uomo e animale d) Lo studio del comportamento degli animali",D,multiple choice,220.0,['item_220_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,multipla 437,"D8. Perché il libro di Lorenz potrebbe essere distrutto dalla pioggia? a) Perché accade che i manoscritti siano distrutti dagli agenti atmosferici b) Perché è stato scritto sulla spinta della rabbia c) Perché l’autore scrive stando all’aria aperta d) Perché le convinzioni che esprime potrebbero essere contestate",B,multiple choice,221.0,['item_221_0.png'],2019_08_SIM_D,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’anello di re Salomone - premessa “Ciò che seminai nell'ira crebbe in una notte rigogliosamente ma la pioggia lo distrusse. Ciò che seminai con amore germinò lentamente maturò tardi ma in benedetta abbondanza”. PETER ROSEGGER Per scrivere sugli animali bisogna essere ispirati da un affetto caldo e genuino per le creature viventi, e penso che a me questo requisito verrà senz'altro riconosciuto. Ma ho voluto citare i bei versi di Peter Rosegger, perché questo libro è scaturito non solo dal mio grande amore per gli “animali”, ma anche dalla mia ira contro i “libri” che trattano di animali. E devo riconoscere che se mai nella mia vita ho agito sotto l'impulso dell'ira, è stato proprio nella stesura di queste storie di animali. Ma di che cosa mi adiravo? Delle molte storie di animali, incredibilmente false e cattive, che ci vengono offerte oggi in tutte le librerie; dei molti pennaioli che pretendono di parlare degli animali senza saperne un bel nulla. Chi scrive che le api urlano e spalancano le fauci, o che i lucci, lottando tra loro, si prendono per la gola, dimostra di non possedere neppur la più pallida idea dei caratteri di quegli animali, che pretende invece di avere direttamente e amorevolmente osservato. Se per compilare un libro sugli animali bastassero alcune informazioni delle esistenti società di allevatori, persone come Heck senior, Bengt Berg, Paul Eipper, Ernest Seton Thompson, o Wäscha Kwonnesin, che hanno dedicato tutta la vita alle ricerche sugli animali, sarebbero da considerarsi sciocche. Non si possono sottovalutare gli innumerevoli errori che queste irresponsabili storie di animali diffondono fra i lettori, e soprattutto tra i giovani, vivamente interessati a questo argomento. E non si obietti che queste falsificazioni sono una legittima libertà della rappresentazione artistica. Certo, i poeti hanno diritto di “stilizzare” anche gli animali, come qualsiasi altro oggetto, secondo le necessità del processo artistico: i lupi e le pantere di Rudyard Kipling, il suo impareggiabile mungo Rikhi-tikkitavi parlano come gli uomini, e l'ape Maja di Waldemar Bonsels può esibire un comportamento non meno corretto e gentile del loro. Ma queste stilizzazioni sono permesse solo a chi conosce veramente l'animale. Anche gli artisti figurativi non sono tenuti a rappresentare le cose con precisione scientifica, ma guai a colui che non conosce l'oggetto che pretende di rappresentare, e che si serve della stilizzazione solo per mascherare la propria ignoranza! Io sono uno scienziato, non un artista, e quindi non mi permetto nessuna libertà e nessuna “stilizzazione”. Inoltre ritengo che queste libertà non siano affatto necessarie, e che sia molto meglio attenersi, come nei veri e propri lavori scientifici, semplicemente ai fatti, se si vuole dischiudere al lettore la bellezza del mondo animale. Le verità dell'universo organico si impongono infatti sempre più al nostro amore e alla nostra ammirazione e divengono sempre più belle quanto più profondamente si penetra in ogni loro peculiarità, ed è proprio insensato credere che l'oggettività della ricerca, il sapere, la conoscenza dei fenomeni naturali, possano far diminuire la gioia procurataci dalle meraviglie della natura. Anzi, quanto più l'uomo impara a conoscere la natura, tanto più viene preso profondamente e tenacemente dalla sua viva realtà. E in ogni buon biologo che sia stato chiamato alla sua professione dal godimento interiore che gli procurava la bellezza delle creature viventi, tutte le conoscenze acquistate attraverso la professione non hanno fatto che approfondire il godimento e l'amore della natura e del proprio lavoro. Per il campo di indagine cui ho dedicato la mia vita, cioè lo studio del comportamento animale, ciò vale ancor più che per ogni altro campo di ricerca nel mondo vivente: questo studio esige una dimestichezza così immediata con il mondo animale, ma anche una pazienza così disumana da parte dell'osservatore, che non basterà a sostenerlo il solo interesse teorico per gli animali, se mancherà l'amore che nel comportamento dell'uomo e dell'animale riesce a cogliere e constatare quell'affinità di cui aveva già da prima un'intuizione. Oso dunque sperare che questo libro non mi venga distrutto dalla pioggia: ammetto infatti io stesso di averlo concepito nell'ira, ma quest'ira è frutto a sua volta del mio grande amore per gli animali! Altenberg, estate 1949. KONRAD LORENZ ",8.0,multipla 438,"F1. Indica in quale dei seguenti periodi il pronome ne si riferisce a un'intera frase. a) Ieri gli Azzurri hanno vinto sulla fortissima Spagna con quattro gol di scarto, e naturalmente ne parlano tutti b) Mio fratello ieri ha visto il film che ha vinto il festival di Berlino me ne ha parlato molto bene. c) Parla sempre di musica pop, ma secondo me non ne capisce proprio niente. d) La professoressa dice che i libri della serie di Harry Potter sono molto divertenti, ma io non ne ho letto nessuno.",A,multiple choice,225.0,['item_225_0.png'],2019_08_SIM_F,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 439,"F4. Leggi la seguente frase. ""Maria ha ricevuto assieme a me il premio dell'amicizia."" Solo una delle seguenti affermazioni è vera. Quale? a) Il soggetto si trova alla fine della frase b) Il soggetto non compie l’azione c) Il soggetto è sottinteso d) Il soggetto è un pronome personale",B,multiple choice,228.0,['item_228_0.png'],2019_08_SIM_F,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 440,"F5. Indica in quale delle seguenti coppie le due parole che le compongono sono formate da un verbo + un nome. a) Doposcuola, soprabito b) Colabrodo, apripista c) Fermoposta, monopattino d) Pescecane, cassapanca",B,multiple choice,229.0,['item_229_0.png'],2019_08_SIM_F,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 441,"A1. A chi appartiene la voce narrante? a) A Ettore b) A Omero c) Alla nutrice d) All’autore",C,multiple choice,230.0,['item_230_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,multipla 442,"A2. Perché il bambino piange durante l'incontro con Ettore? a) Non riconosce suo padre nel guerriero armato b) È stato rimproverato dalla nutrice c) Vuole andare in braccio alla madre d) Vuole indossare l’elmo con il pennacchio del padre",A,multiple choice,231.0,['item_231_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,multipla 443,"A3. Quale preghiera Ettore rivolge agli dei per il figlio quando sarà adulto? a) Che ricordi con rimpianto suo padre b) Che diventi un eroe più forte e glorioso di suo padre c) Che non debba mai diventare prigioniero del nemico d) Che possa vivere in un tempo di pace",B,multiple choice,232.0,['item_232_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,multipla 444,"A5. Quale concezione del destino esprime Ettore con le sue parole? a) Il destino non esiste se non nell’immaginazione umana b) Il comportamento coraggioso dell’uomo può modificare il destino c) Nessun uomo in nessun caso può sottrarsi al suo destino d) Il destino non si cura dei deboli e dei vigliacchi",C,multiple choice,234.0,['item_234_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,multipla 445,"A6. Quale sentimento domina Ettore mentre va al duello? a) Disperazione per la sorte sua e della famiglia b) Sicurezza di sé e sottovalutazione dell’avversario c) Senso del dovere per la famiglia e per la patria d) fiducia nella protezione degli dei e nella vittoria",C,multiple choice,235.0,['item_235_0.png'],2019_10_SIM_A,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pubblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso, e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bronzo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strinse tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfino più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tutti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arrivare, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,multipla 446,"B1. Il termine ""testimonial"" evidenziato nel testo, che accompagna il nome di Andrea Camilleri, indica che l'autore siciliano a) è il finanziatore della grande manifestazione “Ispirati dagli archivi 2016” b) è uno scrittore che conosce il valore degli archivi c) è un personaggio famoso che mette il suo nome per sostenere un evento d) è l’ispiratore dell’evento “Ispirati dagli archivi 2016”",C,multiple choice,237.0,['item_237_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 447,"B2. Le pagine custodite negli archivi sono definite ""preziose"" (parola evidenziata nel testo) perché a) sono ricercate dagli antiquari b) sono considerate delle rarità c) conservano la memoria del paese d) permettono di risalire all’origine dei fatti",C,multiple choice,238.0,['item_238_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 448,"B3. Il pronome ""lei"" evidenziato nel testo a quale elemento del testo rinvia? a) Alla scolaresca b) Alla maestra c) Alla archivista d) Ad Agatha Christie",C,multiple choice,239.0,['item_239_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 449,"B5. Nel testo gli archivi sono detti ""Memoria palpabile del nostro passato"" perché a) custodiscono documenti scritti che testimoniano quel che è stato b) permettono di ricordare eventi tangibili c) custodiscono vecchi testi che suscitano emozioni che vengono dal passato d) sono edifici la cui vista richiama la nostra storia",A,multiple choice,241.0,['item_241_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 450,"B7. Qual è lo scopo del testo? a) Raccontare la storia dei luoghi e dei supporti della memoria b) Descrivere la condizione lavorativa degli archivisti c) Dimostrare l’importanza degli archivi per la memoria di un Paese e la sua storia d) Informare tutti circa un evento culturale promosso dall’associazione degli archivisti",C,multiple choice,243.0,['item_243_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 451,"B8. Che cosa intende dire l'autrice dell'articolo là dove scrive che ""gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti""? a) Negli archivi si può trovare e ricostruire la storia di ciascuno b) Nella memoria collettiva ognuno può ritrovare un pezzo della propria storia c) Gli archivi nascondo e conservano le vite e le storie di tutti e di ciascuno d) Gli archivi sono luoghi di tutti dal momento che vi accedono storici, giornalisti, ricercatori",B,multiple choice,244.0,['item_244_0.png'],2019_10_SIM_B,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel linguaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custodiscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimila, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vite, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi raccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di formazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereotipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controversie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei francescani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalisti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 452,"C1. L'autore con l'espressione ""Non ci si può non domandare"" (evidenziata nel testo) usa una doppia negazione per a) sottolineare la necessità della domanda b) evidenziare l’impossibilità di una risposta c) richiamare l’opportunità di una domanda d) avanzare un dubbio sulla risposta",A,multiple choice,245.0,['item_245_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 453,"C2. Nella frase ""spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza"" evidenziata nel testo i due ne si riferiscono a) al pedagogo b) al padre c) alla sorella d) al poeta spagnolo",C,multiple choice,246.0,['item_246_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 454,"C3. Chi è per Isabella il simbolo dell'agognata libertà? a) Carlo V b) Francesco I c) Il padre d) Il poeta spagnolo",C,multiple choice,247.0,['item_247_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 455,"C4. Il testo è un articolo che si intitola ""La poetessa della libertà ora ha meno segreti"". Quale libertà sperimenta Isabella Morra? a) La libertà di incontrare artisti o poeti b) La libertà di avere un legame con il poeta Diego Sandoval c) La libertà di mettere in atto la fuga per raggiungere il padre d) La libertà di studiare e scrivere versi",D,multiple choice,248.0,['item_248_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 456,"C5. Il castello in cui si svolgono i fatti narrati è definito cupo, sinistro, claustrofobico perché a) prefigura la drammatica sconfitta dei francesi b) domina la valle in modo minaccioso e incombente c) anticipa la reclusione e la tragedia della poetessa d) è un luogo isolato all’interno del feudo dei baroni Morra",C,multiple choice,249.0,['item_249_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 457,"C6. L'uso del futuro nella frase ""La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata"" fa riferimento a ciò che a) è stato scoperto nel passato b) si sa oggi della poetessa c) si potrà scoprire nel futuro d) si sapeva ai tempi della poetessa",B,multiple choice,250.0,['item_250_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 458,"C7. La storia di Isabella Morra ha assunto carattere di leggenda perché racconta di a) una donna che ricerca la propria libertà in una società ostile b) una tragica vicenda di conflitti familiari c) una contrastata storia d’amore d) un padre che diventa per la figlia un simbolo di libertà",A,multiple choice,251.0,['item_251_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 459,"C8. Nel testo si parla del sospetto legame sentimentale di Isabella con il poeta spagnolo Sandoval. Quale espressione dimostra che il sospetto era infondato? a) La natura della relazione non sarà mai accertata b) Le sue liriche non anelano all'amore, ma alla libertà c) I suoi scritti sono stati analizzati e ristampati più volte d) i fratelli riescono a intercettare lettere e poesie che scambiava con Sandoval",B,multiple choice,252.0,['item_252_0.png'],2019_10_SIM_C,0.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segreti Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetessa Isabella Morra (1520-1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, non lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita nel rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo la vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incolti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio» scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della famiglia» uccidendo quest'ultimo, poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non lascia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 460,"A3. Quale delle seguenti è la sintesi più appropriata del racconto? a) Una fotografia di famiglia diventa un documento “rilevatore” perché dalla sua descrizione nasce una riflessione sui diversi modi di vivere e raccontare l’esperienza della guerra. b) Una fotografia di famiglia diventa un documento “rivelatore perché, come altri documenti simili, fornisce un efficace spaccato storico e si rivela un simbolo di eroismo epico c) Una fotografia di famiglia diventa lo strumento più adatto per raccontare l’estraneità della gente comune rispetto ad avvenimenti del tutto lontani dall’esperienza quotidiana. d) Una fotografia della famiglia permette al narratore di avvolgere l’avvenimento storico in un’atmosfera fiabesca e sognante, riconducendolo a una dimensione intima e privata.",A,multiple choice,255.0,['item_255_0.png'],2019_13_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Immagine familiare di guerra Mia madre scende dal marcia piedi con la minore delle mie sorelle. Sta per attraversare la piazza del Popolo, ha una borsa sotto il braccio, un cappotto scuro di taglio militare. È robusta, solida, irriconoscibile rispetto alla piccola gracile donna della mia infanzia, e all’anziana signora di dopo la pensione, tutta nervi, impalpabile quasi nella sensibilità che la fa sussultare ad ogni rumore. Qui il volto è teso, duro, pieno d’ombre; dietro affissa al muro, una striscia di carta, la pubblicità d’un giornale: Secolo XIX. Con la tensione cupa di mia madre, contrasta la figuretta di mia sorella appena treenne, con un cappottino di pelliccia di gatto e un cappuccetto che la fa assomigliare a un folletto di bosco; è biondina e trotterellante, per mano a mia madre, ma un passo dietro, quasi trainata su una strada che sembra percorra malvolentieri. Forse vorrebbe andare al Pincio o a Villa Borghese, a giocare, non sa che non si gioca, che è pericoloso anche andare in strada, non sa che una schiera di quegli uomini vestiti di verde che parlano una lingua sconosciuta potrebbero bloccare all’improvviso le strade e urlare e caricare tutti su un camion, colpendo gli attardati con il calcio del fucile. Ha grandi occhi ingenui; non ha mai veduto, e forse non vedrà mai, la foto di un altro bambino, ebreo, con le mani alzate e i neri occhi sgranati davanti al mitra di uno di quegli uomini con l’elmetto in testa e una smorfia di belva tranquilla in viso. La stretta di mia madre la guida verso la casa, la penombra, la sicurezza, non verso i giochi pericolosi del sole e dei bambini. Mia madre la protegge con un’espressione in volto di concentrato timore rovesciato in decisione. Chissà se quegli anni rivivono nella mente delle mie sorelle, o sono passati come un sogno nella loro lieve coscienza. Non hanno ricevuto danni personali dalla guerra, forse essa è passata come una nuvola nera, come uno scoppio di tuoni sulle loro testoline di creature. Mia madre invece la guerra l’ha passata tutta combattendo nella sua trincea, prima nelle cantine - rifugio, poi correndo agli allarmi aerei con tutti noi verso il tunnel della Roma-Nord, poi partendo per il suo lavoro di maestra alle sei del mattino alla volta di Sant’Oreste, per cinque ore di lezione nelle gelide aule del palazzo del Vignola, pranzo portato in borsa e una minestra calda nell’Osteria degli Scarponi, poi due ore di attesa nel fumo dell’osteria o nella tramontana della valle del Tevere, la corriera, il ritorno in treno alle quindici e trenta, a Roma, e ancora a fare la misera spesa per la cena, e l’oscuramento, la breve notte, e alle sei del mattino di nuovo in piedi. Stremata, s’era infine stabilita con la minore delle sorelle a Sant’Oreste, mentre la maggiore era presso gli zii. Quegli anni senza requie, con poco denaro e pochi cibi, di corse, di patemi, di orrori visti o risaputi, avrebbero potuto spezzarla, con quell’accenno di male ai polmoni che aveva avuto da giovane, e invece la fecero rifiorire, senza la grazia dei fiori, ma con la durezza dei cardi. Non so dove fossi io, al tempo della foto, forse in montagna, forse chiuso in qualche casa, o forse libero e guardingo come un gatto selvatico. Mio padre era sempre in viaggio, con i suoi trasporti, e una volta gli mitragliarono anche il camion che s’incendiò e lui si salvò buttandosi in un prato. Portava sempre qualcosa del carico: lo pagavano in natura; una volta un prosciutto, che lui tagliava a tavola tenendolo come un violino, una volta una latta piena di miele, un’altra volta cinquanta bottiglie di cognac che mettemmo sotto la mia branda, e bevevamo a tavola come vino, senza ubriacarci, malgrado pochi bocconi che mandavamo giù. La guerra ci ha torturato lentamente, ma non ci ha colpito come tanti altri. Siamo sempre riusciti a scampare, a sopravvivere. Ne è segno, non eroico, non funebre o epico, non disperato, ma aspramente prosaico, quotidianamente ribattuto nel ferro di una resistenza isolata, questa foto con la mia piccola sorella che mi sembra addolcire il buio dei volti dei passanti e le labbra tirate di mia madre, mentre un fotografo ambulante, un eroe anche lui della giornata sottratta alla fame e alla morte, inquadrava nel pacifico mirino della sua macchina un autentico e per me rivelatore documento di guerra. (Luca Canali, 1980, Il sorriso di Giulia, Pordenone: Editori Riuniti, pp. 95-98) ",13.0,multipla 461,"B1. In questo breve testo l’autore annuncia che parlerà poco dei matematici italiani, e lo farà per due ragioni. Quali? a) Conosce poco i matematici italiani, ma pensa che la loro attività sia nota in quanto la loro storia è ben ricostruita b) È convinto che i matematici, a differenza dei fisici, siano conosciuti per la presenza di alcuni di loro nella vita politica. c) Conosce solo indirettamente i matematici italiani, e sa poco del loro lavoro che si è sviluppato lontano dalla società. d) Pensa che il lavoro dei matematici sia discreto e molto appartato, e per questo non ne conosce le vicende",C,multiple choice,256.0,['item_256_0.png'],2019_13_DR_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dirò qui molto meno dei matematici italiani per due motivi: il primo è che ho una conoscenza personale del loro ambiente e delle loro vicende scientifiche assai più indiretta, mentre ne esistono, a differenza dal caso dei fisici, eccellenti ricostruzioni storiche (come quella di Umberto Bottazzini). Il secondo è che, come si vedrà, i matematici hanno avuto e hanno rapporti alquanto distaccati con la società per quanto riguarda lo svolgimento del loro lavoro; il che non vuol dire che non abbiano preso individualmente parte ai fatti politici che hanno marcato la vita del paese. (Tratto da: Carlo Bernardini, 1999, La fisica nella cultura italiana del Novecento, Roma-Bari: Laterza, p. 7) ",13.0,multipla 462,"B2. Che cosa intende dire implicitamente l’autore là dove afferma “a differenza dal caso dei fisici” a) Che fisici si sono occupati delle loro ricerche e sono rimasti ai margini della vita sociale b) Che i fisici non hanno una loro storia scritta e documentata c) Che i fisici non si sono impegnati a scrivere la storia delle loro scoperte d) Che i fisici, a differenza dei matematici, non si sono preoccupati di farsi conoscere dal grande pubblico",B,multiple choice,257.0,['item_257_0.png'],2019_13_DR_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dirò qui molto meno dei matematici italiani per due motivi: il primo è che ho una conoscenza personale del loro ambiente e delle loro vicende scientifiche assai più indiretta, mentre ne esistono, a differenza dal caso dei fisici, eccellenti ricostruzioni storiche (come quella di Umberto Bottazzini). Il secondo è che, come si vedrà, i matematici hanno avuto e hanno rapporti alquanto distaccati con la società per quanto riguarda lo svolgimento del loro lavoro; il che non vuol dire che non abbiano preso individualmente parte ai fatti politici che hanno marcato la vita del paese. (Tratto da: Carlo Bernardini, 1999, La fisica nella cultura italiana del Novecento, Roma-Bari: Laterza, p. 7) ",13.0,multipla 463,"B3. Di seguito si forniscono quattro riformulazioni sintetiche del contenuto del testo, con particolare attenzione all’inserimento di alcuni connettivi testuali. Tra tali riformulazioni quale rappresenta correttamente l’ordine e l’andamento logico-sintattico del testo restituendone più compiutamente il significato? a) L’autore del brano parlerà poco dei matematici perché la storia dei matematici è scritta ed è a disposizione di tutti. Nonostante ciò la società conosce poco il lavoro e le ricerche dei matematici anche se questi hanno partecipato alla vita politica. b) L’autore del brano parlerà poco dei materiali italiani perché conosce solo indirettamente il loro ambiente e le loro vicende scientifiche anche se la loro storia è ben documentata. È inoltre i matematici hanno avuto pochi rapporti con la società per la natura del loro lavoro anche se individualmente hanno partecipato agli eventi politici più importanti del paese. c) L’autore del brano parlerà poco dei matematici italiani perché li conosce indirettamente, e ne conosce poco le vicende scientifiche, anche se le storie delle loro scoperte sono scritte. inoltre i matematici hanno rapporti distaccati con la società e non hanno inciso sulla vita del paese. d) L’autore del brano parlerà poco dei matematici italiani perché la storia dei matematici è ben documentata mentre quella dei fisici è pressoché sconosciuta. Nonostante ciò la società conosce poco il lavoro dei matematici anche se questi hanno inciso sulla vita del paese.",B,multiple choice,258.0,['item_258_0.png'],2019_13_DR_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dirò qui molto meno dei matematici italiani per due motivi: il primo è che ho una conoscenza personale del loro ambiente e delle loro vicende scientifiche assai più indiretta, mentre ne esistono, a differenza dal caso dei fisici, eccellenti ricostruzioni storiche (come quella di Umberto Bottazzini). Il secondo è che, come si vedrà, i matematici hanno avuto e hanno rapporti alquanto distaccati con la società per quanto riguarda lo svolgimento del loro lavoro; il che non vuol dire che non abbiano preso individualmente parte ai fatti politici che hanno marcato la vita del paese. (Tratto da: Carlo Bernardini, 1999, La fisica nella cultura italiana del Novecento, Roma-Bari: Laterza, p. 7) ",13.0,multipla 464,"C1. In che osa consiste “l’approccio fisiologico al problema” del protagonista? a) il protagonista si affida per il funzionamento della sua memoria a automatismi, non conoscendo le risorse della razionalità b) il protagonista si rifiuta di ricorrere a meccanismi razionali per risolvere i problemi di memoria nei quali viene coinvolto c) il protagonista non ha dubbi sull’efficacia dei meccanismi di funzionamento della sua memoria che ha fallito d) il protagonista è sicuro che la sinestesia non è una malattia, e che la tecnica dei loci può risolvere ogni problema di memoria",A,multiple choice,259.0,['item_259_0.png'],2019_13_DR_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Uno che non dimenticava nulla La cosa irritante di Shereshevsky, pensava spesso il suo direttore, era che non prendeva mai appunti. In un quotidiano non ci si possono permettere errori: il compito giornaliero andava svolto alla perfezione, senza alcuna dimenticanza. Per cui un giorno, non potendone più, il direttore di «Izvestia» additò Shereshevsky e lo rimproverò di fronte a tutti per non essersi appuntato il compito della giornata. Il rimprovero di un direttore di giornale – in Unione Sovietica nel 1960 – è una cosa che probabilmente non lasciava indifferenti, e i colleghi del povero giornalista lo guardarono con commiserazione. Commiserazione che si trasformò in meraviglia quando Shereshevsky ripeté parola per parola il compito che l’uomo gli aveva assegnato. Il proprio, e quello degli undici colleghi. Fu così che il giorno dopo S. si ritrovò catapultato nel laboratorio di A.R. Lurija, il più grande neurologo sovietico, che iniziò a testare la sua stupefacente memoria. La quale, almeno in apparenza, non aveva limiti. Shereshevsky era in grado di ricordare una matrice di cinquanta numeri di quattro cifre, organizzate in quattro colonne da dodici più due numeri sparsi che gli erano stati letti ad alta voce l’uno dopo l’altro, con tre secondi di pausa dopo ogni numero. Non solo, era in grado di ripetere questi elementi: 1) esattamente nell’ordine in cui erano stati dati; 2) in ordine inverso (se qualcuno di voi lo trova facile, provi a ripetere l’alfabeto in ordine inverso e vediamo se non fate errori); 3) a zig zag, o un numero ogni tre. Già questo sarebbe stupefacente. Aggiungeteci poi che Lurija gli richiese la stessa lista di numeri una seconda volta, qualche tempo dopo, e Shereshevsky gliela ripeté nuovamente senza errori. Particolare: erano passati quindici anni dalla prima (ultima) volta in cui tale sequenza gli era stata letta. La storia di Shereshevsky è stata narrata in molti libri. L’uomo aveva un’incredibile capacità di ricordare dovuta sia a caratteristiche fisiologiche che metodologiche. In primo luogo, S. soffriva di sinestesia, una condizione per cui aree deputate a diverse elaborazioni percettive elaborano simultaneamente uno stesso stimolo esterno, come se si fondessero tra loro: per esempio, vedeva i numeri pari di colore caldo e i numeri dispari di colore freddo, e ognuno aveva un colore diverso e un odore diverso. In secondo luogo, S. usava in modo del tutto intuitivo la cosiddetta tecnica dei loci, una procedura nota sin dall’antichità (la usavano i retori romani come Cicerone) che consisteva nell’associare ogni elemento da ricordare a un luogo fisico specifico che conosciamo alla perfezione. Un po’ come appendere quadri virtuali contenenti l’informazione che vogliamo ricordare alle pareti di casa nostra, dei nostri genitori, dei nostri amici, una per parete in ogni stanza. Purtuttavia, Shereshevsky aveva un limite. E questo limite, come avrete capito, non era la memoria. Un giorno, Lurija dette al suo paziente una serie di cinquanta numeri piuttosto facile da ricordare: 1234 2345 3456 4567 5678 6789 7890 8901 9012 0123 E così via, ripetuto cinque volte. Sorprendentemente, Shereshevsky impiegò per memorizzarla lo stesso tempo che impiegava per memorizzare qualsiasi altra serie di numeri di quattro cifre. Tre secondi a numero, standard. Al che Lurija chiese all’uomo se non vedeva qualcosa che potesse aiutarlo a ricordare meglio, senza fare tutto quello sforzo. «No» rispose Shereshevsky, «non mi sembra. Non vedo niente di diverso in questa serie.» S., che non dimenticava niente, era assolutamente inconsapevole della regolarità di quei numeri. Una volta che gli venne fatto notare, lo capì: ma il suo approccio fisiologico al problema era stato quello bovino che usava sempre. Non si era posto il problema di fare meno fatica, di cercare un significato in quello che vedeva: e, una volta che gli venne chiesto espressamente, ancora gli sfuggiva. Shereshevsky aveva una memoria eccezionale. Purtroppo, era un cretino. (M. Malvaldi, 2016, L’infinito tra parentesi. Storia sentimentale della scienza da Omero a Borges, Milano: Rizzoli, pp. 111-113) ",13.0,multipla 465,"C2. La storia narrata ha un punto di svolta segnato da un elemento linguistico che, anche sul piano semantico, apre a una inaspettata reazione-risposta del protagonista. Con quale delle seguenti parole è segnata tale svolta? a) Purtroppo, era un cretino b) Sorprendentemente, Shereshevsky impiegò… c) In secondo luogo, S. usava del tutto intuitivo la cosiddetta tecnica… d) Un giorno, Lurija dette al suo paziente…",B,multiple choice,260.0,['item_260_0.png'],2019_13_DR_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Uno che non dimenticava nulla La cosa irritante di Shereshevsky, pensava spesso il suo direttore, era che non prendeva mai appunti. In un quotidiano non ci si possono permettere errori: il compito giornaliero andava svolto alla perfezione, senza alcuna dimenticanza. Per cui un giorno, non potendone più, il direttore di «Izvestia» additò Shereshevsky e lo rimproverò di fronte a tutti per non essersi appuntato il compito della giornata. Il rimprovero di un direttore di giornale – in Unione Sovietica nel 1960 – è una cosa che probabilmente non lasciava indifferenti, e i colleghi del povero giornalista lo guardarono con commiserazione. Commiserazione che si trasformò in meraviglia quando Shereshevsky ripeté parola per parola il compito che l’uomo gli aveva assegnato. Il proprio, e quello degli undici colleghi. Fu così che il giorno dopo S. si ritrovò catapultato nel laboratorio di A.R. Lurija, il più grande neurologo sovietico, che iniziò a testare la sua stupefacente memoria. La quale, almeno in apparenza, non aveva limiti. Shereshevsky era in grado di ricordare una matrice di cinquanta numeri di quattro cifre, organizzate in quattro colonne da dodici più due numeri sparsi che gli erano stati letti ad alta voce l’uno dopo l’altro, con tre secondi di pausa dopo ogni numero. Non solo, era in grado di ripetere questi elementi: 1) esattamente nell’ordine in cui erano stati dati; 2) in ordine inverso (se qualcuno di voi lo trova facile, provi a ripetere l’alfabeto in ordine inverso e vediamo se non fate errori); 3) a zig zag, o un numero ogni tre. Già questo sarebbe stupefacente. Aggiungeteci poi che Lurija gli richiese la stessa lista di numeri una seconda volta, qualche tempo dopo, e Shereshevsky gliela ripeté nuovamente senza errori. Particolare: erano passati quindici anni dalla prima (ultima) volta in cui tale sequenza gli era stata letta. La storia di Shereshevsky è stata narrata in molti libri. L’uomo aveva un’incredibile capacità di ricordare dovuta sia a caratteristiche fisiologiche che metodologiche. In primo luogo, S. soffriva di sinestesia, una condizione per cui aree deputate a diverse elaborazioni percettive elaborano simultaneamente uno stesso stimolo esterno, come se si fondessero tra loro: per esempio, vedeva i numeri pari di colore caldo e i numeri dispari di colore freddo, e ognuno aveva un colore diverso e un odore diverso. In secondo luogo, S. usava in modo del tutto intuitivo la cosiddetta tecnica dei loci, una procedura nota sin dall’antichità (la usavano i retori romani come Cicerone) che consisteva nell’associare ogni elemento da ricordare a un luogo fisico specifico che conosciamo alla perfezione. Un po’ come appendere quadri virtuali contenenti l’informazione che vogliamo ricordare alle pareti di casa nostra, dei nostri genitori, dei nostri amici, una per parete in ogni stanza. Purtuttavia, Shereshevsky aveva un limite. E questo limite, come avrete capito, non era la memoria. Un giorno, Lurija dette al suo paziente una serie di cinquanta numeri piuttosto facile da ricordare: 1234 2345 3456 4567 5678 6789 7890 8901 9012 0123 E così via, ripetuto cinque volte. Sorprendentemente, Shereshevsky impiegò per memorizzarla lo stesso tempo che impiegava per memorizzare qualsiasi altra serie di numeri di quattro cifre. Tre secondi a numero, standard. Al che Lurija chiese all’uomo se non vedeva qualcosa che potesse aiutarlo a ricordare meglio, senza fare tutto quello sforzo. «No» rispose Shereshevsky, «non mi sembra. Non vedo niente di diverso in questa serie.» S., che non dimenticava niente, era assolutamente inconsapevole della regolarità di quei numeri. Una volta che gli venne fatto notare, lo capì: ma il suo approccio fisiologico al problema era stato quello bovino che usava sempre. Non si era posto il problema di fare meno fatica, di cercare un significato in quello che vedeva: e, una volta che gli venne chiesto espressamente, ancora gli sfuggiva. Shereshevsky aveva una memoria eccezionale. Purtroppo, era un cretino. (M. Malvaldi, 2016, L’infinito tra parentesi. Storia sentimentale della scienza da Omero a Borges, Milano: Rizzoli, pp. 111-113) ",13.0,multipla 466,"C3. In più punti del testo, l’autore si rivolge direttamente ai lettori per a) coinvolgerli gradualmente in una storia esemplare b) invitarli a dare una valutazione sulla vicenda c) convincerli a usare tecniche di memorizzazione d) spingerli progressivamente a leggere tutto il racconto.",A,multiple choice,261.0,['item_261_0.png'],2019_13_DR_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Uno che non dimenticava nulla La cosa irritante di Shereshevsky, pensava spesso il suo direttore, era che non prendeva mai appunti. In un quotidiano non ci si possono permettere errori: il compito giornaliero andava svolto alla perfezione, senza alcuna dimenticanza. Per cui un giorno, non potendone più, il direttore di «Izvestia» additò Shereshevsky e lo rimproverò di fronte a tutti per non essersi appuntato il compito della giornata. Il rimprovero di un direttore di giornale – in Unione Sovietica nel 1960 – è una cosa che probabilmente non lasciava indifferenti, e i colleghi del povero giornalista lo guardarono con commiserazione. Commiserazione che si trasformò in meraviglia quando Shereshevsky ripeté parola per parola il compito che l’uomo gli aveva assegnato. Il proprio, e quello degli undici colleghi. Fu così che il giorno dopo S. si ritrovò catapultato nel laboratorio di A.R. Lurija, il più grande neurologo sovietico, che iniziò a testare la sua stupefacente memoria. La quale, almeno in apparenza, non aveva limiti. Shereshevsky era in grado di ricordare una matrice di cinquanta numeri di quattro cifre, organizzate in quattro colonne da dodici più due numeri sparsi che gli erano stati letti ad alta voce l’uno dopo l’altro, con tre secondi di pausa dopo ogni numero. Non solo, era in grado di ripetere questi elementi: 1) esattamente nell’ordine in cui erano stati dati; 2) in ordine inverso (se qualcuno di voi lo trova facile, provi a ripetere l’alfabeto in ordine inverso e vediamo se non fate errori); 3) a zig zag, o un numero ogni tre. Già questo sarebbe stupefacente. Aggiungeteci poi che Lurija gli richiese la stessa lista di numeri una seconda volta, qualche tempo dopo, e Shereshevsky gliela ripeté nuovamente senza errori. Particolare: erano passati quindici anni dalla prima (ultima) volta in cui tale sequenza gli era stata letta. La storia di Shereshevsky è stata narrata in molti libri. L’uomo aveva un’incredibile capacità di ricordare dovuta sia a caratteristiche fisiologiche che metodologiche. In primo luogo, S. soffriva di sinestesia, una condizione per cui aree deputate a diverse elaborazioni percettive elaborano simultaneamente uno stesso stimolo esterno, come se si fondessero tra loro: per esempio, vedeva i numeri pari di colore caldo e i numeri dispari di colore freddo, e ognuno aveva un colore diverso e un odore diverso. In secondo luogo, S. usava in modo del tutto intuitivo la cosiddetta tecnica dei loci, una procedura nota sin dall’antichità (la usavano i retori romani come Cicerone) che consisteva nell’associare ogni elemento da ricordare a un luogo fisico specifico che conosciamo alla perfezione. Un po’ come appendere quadri virtuali contenenti l’informazione che vogliamo ricordare alle pareti di casa nostra, dei nostri genitori, dei nostri amici, una per parete in ogni stanza. Purtuttavia, Shereshevsky aveva un limite. E questo limite, come avrete capito, non era la memoria. Un giorno, Lurija dette al suo paziente una serie di cinquanta numeri piuttosto facile da ricordare: 1234 2345 3456 4567 5678 6789 7890 8901 9012 0123 E così via, ripetuto cinque volte. Sorprendentemente, Shereshevsky impiegò per memorizzarla lo stesso tempo che impiegava per memorizzare qualsiasi altra serie di numeri di quattro cifre. Tre secondi a numero, standard. Al che Lurija chiese all’uomo se non vedeva qualcosa che potesse aiutarlo a ricordare meglio, senza fare tutto quello sforzo. «No» rispose Shereshevsky, «non mi sembra. Non vedo niente di diverso in questa serie.» S., che non dimenticava niente, era assolutamente inconsapevole della regolarità di quei numeri. Una volta che gli venne fatto notare, lo capì: ma il suo approccio fisiologico al problema era stato quello bovino che usava sempre. Non si era posto il problema di fare meno fatica, di cercare un significato in quello che vedeva: e, una volta che gli venne chiesto espressamente, ancora gli sfuggiva. Shereshevsky aveva una memoria eccezionale. Purtroppo, era un cretino. (M. Malvaldi, 2016, L’infinito tra parentesi. Storia sentimentale della scienza da Omero a Borges, Milano: Rizzoli, pp. 111-113) ",13.0,multipla 467,"D2. Nella sequenza “la scelta se occuparsene o ignorarlo” (evidenziata nel testo), il “se” introduce due frasi implicite di tipo: a) interrogativo b) ipotetico c) concessivo d) avversativo",A,multiple choice,263.0,['item_263_0.png'],2019_13_DR_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"TESTO D I conflitti tra i bambini e i genitori aumentano sensibilmente dopo il primo anno. Prima di questa età, l’autonomia molto ridotta del bambino permette di avere su di lui un controllo relativamente facile. Il bambino è dal canto suo più arrendevole che nel periodo successivo, proprio perché cosciente della sua impotenza e dipendenza dall’adulto e perché non ancora spinto così fortemente dalla sua biologica tendenza all’autonomia a opporsi alla volontà degli adulti. La conquista del camminare, con l’aumento di autonomia che ne consegue, in parte rallegra l’adulto ma in parte lo irrita. Pur diventando di giorno in giorno più autonomo, cosa insieme desiderata e temuta, il bambino interferirà più attivamente di prima nella sua vita, lo costringerà ad occuparsi dilui anche se non ne ha voglia e non gli lascerà più come un tempo la scelta se occuparsene o ignorarlo. Il rapporto, diventato più antagonistico, eccita l’autoritarismo dell’adulto. È molto diverso aver a che fare con un bambino che si può confinare nel suo lettino, nel recinto, nel passeggino, sempre ingabbiato e sotto controllo, piuttosto che con un bambino che scorrazza per casa toccando ogni cosa, che ha una mobilità tale che gli consente di sottrarsi tanto più spesso e con maggior successo alle imposizioni dell’adulto. (Tratto da: Elena Gianini Belotti, 1973, Dalla parte delle bambine. L’influenza dei condizionamenti sociali nella formazione del ruolo femminile nei primi anni di vita, Milano: Feltrinelli, pp. 58-59) ",13.0,multipla 468,"A3. Dopo aver letto il racconto, è chiaro quello che il topo ha in mente di fare con la corda all’inizio della storia. Che cosa ha in mente di fare? A) Vuole rendere ridicolo il gatto B) Vuole difendersi dal gatto C) Vuole capire quanto sia abile il gatto D) Vuole tenere fermo il gatto",B,multiple choice,267.0,['item_267_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 469,"A4. All’inizio del racconto il topo ha tra le zampe una corda con un campanello. A che cosa dovrebbe servire il campanello? A) A rendere il gatto giocherellone B) A rendere il gatto originale C) A rendere il gatto rumoroso D) A rendere il gatto nervoso",C,multiple choice,268.0,['item_268_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 470,"A7. Perché il gatto chiede al topo “Quanto siete in famiglia”? (in neretto nella Parte 3) A) Perché è curioso di conoscere la famiglia del topo B) Perché vuol far credere al topo che vuole diventare suo amico C) Perché vuole distrarre il topo e prenderlo di sorpresa D) Perché vuole capire se avrà topi da mangiare nei giorni successivi",D,multiple choice,271.0,['item_271_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 471,"A8. Nel racconto trovi scritto “Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto?” (in neretto nella Parte 1). Quale informazione del testo può far pensare che il topo voglia catturare il gatto? A. Il topo sta su un mattone di terracotta B. Il topo si sta affacciando da una grata C. Il topo sta diventando pazzo D. Il topo sta trafficando con una corda",D,multiple choice,272.0,['item_272_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 472,"A9. Nel racconto c’è scritto “Bravo Topo.” (in neretto nella Parte 1). Che cosa è bravo fare il topo? A. A non far suonare il campanello B. A dondolarsi lentamente C. A tenere la corda tra le zampe D. A non perdere l’equilibrio",A,multiple choice,273.0,['item_273_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 473,"A10. Nel racconto trovi scritto “Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e…” (in neretto nella Parte 2). Questa frase non è finita. Tu che hai letto il racconto come la completeresti? A. Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e i topi sarebbero stati avvisati del suo arrivo. B. Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e il gatto sarebbe diventato più gentile con i topi C. Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e i topi avrebbero potuto farlo ragionare con calma D. Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e il gatto avrebbe obbedito agli ordini dei topi.",A,multiple choice,274.0,['item_274_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 474,"A11. Nel racconto trovi scritto “Aveva l’aria di chi continuava a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti.” (in neretto nella Parte 3). Quali conti stava facendo il gatto? Calcolava … A. quante erano le parole che non gli erano piaciute nel discorso del topo B. quanto era numerosa la famiglia del topo rispetto alla sua C. quanti topi aveva ancora a disposizione nelle vicinanze per riempirsi la pancia D. quante farfalle ci volevano per calmare la sua fame",C,multiple choice,275.0,['item_275_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 475,"A12. Nella storia trovi scritto che il topo “andò subito a raccontare alla sua famiglia… dei terribili propositi del gatto.” (in neretto nel finale del racconto). Che cosa potremmo mettere al posto di “propositi” in modo che la frase mantenga lo stesso significato? A. Andò subito a raccontare alla sua famiglia… le brutte intenzioni del gatto, cioè che triste fine voleva far fare ai topi B. Andò subito a raccontare alla sua famiglia… le offese del gatto, cioè che parolacce usava per insultare i topi C. Andò subito a raccontare alla sua famiglia… le cattive abitudini del gatto, cioè voleva comandare i topi D. Andò subito a raccontare alla sua famiglia… i gesti nervosi del gatto, cioè come se la prendeva con i topi",A,multiple choice,276.0,['item_276_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 476,"A13. Alla fine del racconto i topi dicono che il gatto “- Si sarà fatto buono!” (in neretto nel finale del racconto). Quattro bambini che hanno letto questa storia, di fronte a questa conclusione, hanno quattro idee diverse. Tenendo conto del finale del racconto, quale bambino ha ragione? A. Il gatto è diventato buono. Si è pentito e ha deciso di lasciare in pace i topi. B. Il gatto non è diventato buono. Se non ricevesse più i croccantini avrebbe di nuovo fame e tornerebbe a dare la caccia ai topi. C. Il gatto fa solo finta di essere buono, ma aspetta il momento giusto per acchiapparli. D. Il gatto non è buono, ma si è calmato perché ha paura del topo e della sua famiglia.",B,multiple choice,277.0,['item_277_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 477,"A15. La storia alla fine si conclude con il gatto che ha la pancia piena e con i topi che dicono “-Si sarà fatto buono!”. Ma se ci pensiamo bene, noi lettori sentiamo che il racconto lascia una domanda aperta, senza risposta. Quale? A. Dove farà il prossimo sonnellino il gatto? B. Che fine hanno fatto corda e campanello? C. Cosa farà il topo ora che non deve più scappare dal gatto? D. Fino a quando durerà la calma tra il gatto e i topi?",D,multiple choice,279.0,['item_279_0.png'],2018_02_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"NOVEMBRE Una casa solitaria in mezzo alla campagna, uomini e donne nei campi per la semina. Pomeriggio di novembre, giorno di sole caldo. Un gatto bianco pezzato di nero sonnecchiava al sole sul muretto di un pozzo, di fronte a un fienile. Tutto sembrava tranquillo. Sembrava, perché un topo si era affacciato da una grata della costruzione, stava su un mattone di terracotta e tratteneva tra le zampe una corda. Anzi aveva fatto in fondo alla corda un cappio, cioè un anello attraverso cui poteva passare una testa, e lo stava calando giù, verso il gatto. Ma che faceva quel pazzo di topo? Voleva catturare il gatto? Forse no, perché appeso alla cordicella c'era un minuscolo campanello. Ma sì, voleva mettere un campanello al collo del gatto, approfittando del fatto che stava dormendo. Perché mai quel campanello? Voleva preparare il gatto per una festa? Tentativo rischioso più per il topo che per il gatto, è logico. Ma il topo era abile. La corda calò con lentezza, in modo che il campanello non suonasse. Dondolava, poco però e non suonava. Bravo topo. Il cappio era ormai dinnanzi alla testa del gatto, bastava una mossa decisa e zac! Il gatto sarebbe rimasto imprigionato, preso per il collo e... Però il nostro topo, per quanto ingegnoso, non aveva fatto bene i conti, non aveva considerato un particolare, i baffi del gatto. Baffi quasi invisibili che basta toccarli per far sussultare l’animale. E infatti accadde proprio questo. La corda oscillante sfiorò uno dei baffi, il gatto si svegliò, vide e capì tutto nella frazione di un secondo. Fece un salto, per poco non scivolava nel pozzo, ma si aggrappò alla corda e come un giocoliere saltò di qua e di là dei bordi e finalmente fu a terra. Il topo deluso tirò a sé in fretta la corda, ora il campanello suonò, un suono quasi di allarme, quasi di fallimento. — Din din, din din! Il gatto ritrovò la calma, si compose e guardò in alto verso il topo. — Perché volevi mettermi quel coso al collo? — Per sicurezza! Sai muoverti così silenzioso che non ti sentiamo mai arrivare, bestiaccia. E la settimana scorsa ti sei mangiato due dei miei fratelli, brutto assassino. Volevo metterti al collo un campanello per sentirti arrivare e poterci nascondere! — Quanti siete in famiglia, voglio dire lì nel fienile? — chiese il gatto con aria distratta, come se guardasse una farfalla posata su una siepe di rose. — Siamo rimasti solo 25, compresi mamma e babbo! Disgraziato! II gatto si passò la lingua sui baffi, scosse le orecchie come per scacciare alcune parole che non voleva sentire. Aveva l’aria di chi continua a guardare una farfalla, invece si stava facendo i suoi conti. — Hum, buoni! — concluse — Avrò ottime colazioni a portata di mano per qualche settimana allora! — Cattivo! — squittì il topo. E con le lacrime agli occhi rientrò nel fienile. Il topo andò subito a raccontare alla sua famiglia del fallito tentativo e dei terribili propositi del gatto. Il giorno dopo accadde però un fatto strano. La massaia andò al mercato e tornò con scatolette e croccantini per gatti e glieli mise in una scodella. Il micio bianco pezzato di nero mangiò tutto. Ma ora con la pancia piena si sentiva pesante, e si dimenticò dei topi, non si ricordò nemmeno più che esistessero. Questo per giorni e giorni. Nel fienile i topi stupiti osservavano il nuovo comportamento del gatto. Lo videro ingrassare e farsi sempre più pigro. Cosicché dopo un mesetto conclusero: — Si sarà fatto buono! (Tratto e adattato da: E. Detti e R. Innocenti, Favole di campagna, Roma, Gallucci editore, 2015) ",2.0,multipla 478,"A1. Il racconto inizia con una situazione-problema. Qual è la situazione-problema che Alessandro vive all'inizio del racconto? A. Alessandro va a lezione di violino, ma leggere la musica non gli piace e fa fatica a imparare B. Alessandro vuole imparare a suonare il violino, ma quello che ha è un violino stonato C. Alessandro non ci vede bene, per questo confonde le note musicali D. Alessandro ha paura del suo maestro, davanti a lui fa tanti errori e suona male",A,multiple choice,282.0,['item_282_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 479,"A3. La soluzione di comprare un paio di occhiali si rivela più complicata del previsto. Per quale motivo? A. Non è facile trovare occhiali adatti ad Alessandro B. Un solo paio di occhiali serve a poco per il problema di Alessandro C. Il venditore cinese continua a sbagliare nel dare gli occhiali ad Alessandro D. La vista di Alessandro continua a peggiorare da un giorno all’altro",B,multiple choice,284.0,['item_284_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 480,"A4. Dopo il guaio che combina la mamma (righe 55-58) e dopo quello che il venditore cinese dice ad Alessandro (righe 61-62) Alessandro è in difficoltà. Perché? a. La mamma adesso sa tutto e lo raccontera` in giro b Alessandro non ha piu` gli occhiali con cui suonava bene e non ce ne sono piu` di uguali c. Alessandro e` stanco di portare gli occhiali in tutte le occasioni in cui e` chiamato a suonare d. Il venditore cinese non vuole piu` dargli altri occhiali",B,multiple choice,285.0,['item_285_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,0.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 481,"A6. “Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti!” (righe 79-80). A che cosa servono quegli occhiali senza lenti? A. A far capire ad Alessandro che ormai ha imparato la musica B. A confermare ad Alessandro che il mercante cinese non è un buon venditore di occhiali a volte fa confusione C. A dimostrare ad Alessandro che ora ci vede senza occhiali D. A svelare ad Alessandro che ad aiutarlo non sono state le lenti, ma è stata la montatura degli occhiali.",A,multiple choice,287.0,['item_287_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 482,"A7. Come va a finire il racconto? A. Alessandro impara a suonare il violino quando smette di andare dal vecchio cinese B. Alessandro capisce che per suonare il violino dovrà avere sempre con sé un paio di occhiali, anche senza lenti C. Alessandro impara a suonare il violino a forza di impegno e di studio D. Alessandro capisce che non è fatto per suonare il violino: è troppo preoccupato di sbagliare e di fare brutta figura",C,multiple choice,288.0,['item_288_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 483,"A9. “Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione” (righe 41-42) “Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali.” (righe 42-43) Che cosa dovresti aggiungere alla seconda informazione per chiarire il legame tra le due frasi? A. … e quindi li possedeva tutti B. … e quindi era più tranquillo di fronte al pubblico C. … e quindi aveva difficoltà a trovare il paio giusto D. … e quindi faceva sempre confusione",B,multiple choice,290.0,['item_290_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 484,"A10. “Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d’altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.)” (righe 44-45). A che cosa serve l’informazione tra parentesi? Serve a A. spiegare che Alessandro è disposto a tutto pur di avere tante paia di occhiali B. spiegare che Alessandro spende molti soldi per imparare a suonare C. mostrare che Alessandro rifiuta di fare i compiti che gli dà il suo maestro D. far capire che Alessandro sta cambiando atteggiamento nei confronti della musica",D,multiple choice,291.0,['item_291_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 485,"A12. “Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino.” (righe 74-75). Che cosa intende l’autore quando scrive “Riuscì a far cantare il violino”? Intende dire che Alessandro riesce A. a cantare una canzone mentre suona il violino B. a fare uscire dal violino una melodia intonata C. a produrre con il violino un suono più bello di quello della voce umana D. a far uscire dal violino un suono che somiglia a una voce umana",B,multiple choice,293.0,['item_293_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 486,"A14. Rileggi la parte finale del racconto, da riga 78 al termine. In questa parte di testo ritrovi ancora una volta l’espressione che Alessandro ha già ripetuto più volte :“È … un tormento”. Quale delle seguenti frasi chiarisce che cosa intende Alessandro quando alla fine pensa “È ancora un tormento” (righe 84-85)? A. ""Sempre con queste prediche! Non supporto più questo cinese"" B. ""Mi piaceva la mia collezione di occhiali, mi fa rabbia che il vecchio cinese non voglia più vendermeli"" C. ""Non potrò più aiutarmi con gli occhiali, dovrò fare tutto da solo, ho paura di non farcela"" D. ""Quando potevo contare sugli occhiali mi rimaneva del tempo libero, ora come farò?""",C,multiple choice,295.0,['item_295_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 487,"A17. Tutto il racconto fa capire che il vecchio cinese agisce seguendo un piano che ha in mente. Qual è il suo piano? A. Complicare e rendere poco chiara la situazione di Alessandro B. Nascondere ad Alessandro quanto fosse disastroso il suo modo di suonare C. Ingannare Alessandro approfittando del suo problema per guadagnare soldi D. Facilitare con un espediente-trucco la soluzione del problema di Alessandro",D,multiple choice,298.0,['item_298_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 488,"A18. Dopo aver letto questo racconto quattro ragazzi dicono quello che hanno capito. Chi di loro tiene conto dell’intero racconto e dimostra di averlo compreso? A. Alessandro crede di imbrogliare, in realtà i risultati che raggiunge sono merito del suo impegno. B. Alessandro riesce a imbrogliare il vecchio cinese, che pensava di essere il più furbo, facendogli credere di aver imparato a suonare C. Alessandro si è messo d'accordo con il cinese per ingannare tutti facendo credere che sapeva suonare. D. Alessandro vuole diventare un musicista famoso e per riuscirci inganna gli altri e se stesso.",A,multiple choice,299.0,['item_299_0.png'],2018_05_SNV_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Gli occhiali musicali -1- Alessandro non amava il solfeggio, e addirittura confondeva le note: do re mi sai fo li so da. Che pasticci! Il suo violino strideva: criiiiiiiiiii-ing! - È un tormento! - diceva Alessandro. - Faresti meglio a comprarti un paio di occhiali! - sogghignava il maestro di musica. E così Alessandro si comprò gli occhiali. Il venditore di occhiali musicali era un vecchio cinese curvo e grinzoso; non faceva che ridere con aria beffarda, stropicciandosi le mani: - lh-ih-ih! So bene che cosa ti occorre! Eccoti degli occhiali per leggere il tuo metodo di solfeggio! -2- Erano occhiali prodigiosi. Più nessun bisogno di studiare. Alessandro inforcava gli occhiali e suonava tutto lo spartito senza sforzo. - Che progressi! - esclamò il maestro di musica. - Mai visto niente di simile! Alessandro tornò a casa tutto compiaciuto e ripose il violino in un angolo. Non valeva più la pena di affaticarsi. Ma il mercoledì seguente, che disastro! Aperto il «Metodo di violino», Alessandro inforcò gli occhiali, sollevò l'archetto, e... non riusciva a leggere l'esercizio! - Che aspetti per cominciare? - chiese il maestro, impaziente. - Eeeh ....lo ... Glub ...... Non so ..... - farfugliò penosamente Alessandro. Ripose il violino nell'astuccio, richiuse il «Metodo»; e allora capì che cos'era successo! Aveva comprato degli occhiali per il metodo numero uno, e invece era il numero due quello che avrebbe dovuto decifrare: si era sbagliato! E allora? - È vero - disse il vecchio venditore di occhiali sfregandosi le mani. - Per ogni singolo metodo esistono occhiali particolari. Bisogna cambiare occhiali ogni volta che cambi metodo! - È un tormento! - gemeva Alessandro. Comprò un secondo paio di occhiali. -3- - Sono contento di te, - dichiarò il maestro di musica - potresti studiarmi questo pezzo di Bach per la settimana prossima? Era una partitura difficile. Corse dal vecchio cinese, che lo rassicurò. Ma sì, vendeva anche gli occhiali per suonare quel pezzo di Bach. Alessandro comprò gli occhiali. E nelle settimane che seguirono, comprò altri occhiali per suonare pezzi di Mozart, Beethoven e perfino Esposito-Brambilla. Dicevano che era dotato, che leggeva a meraviglia i pezzi più arzigogolati. Un bel giorno il maestro di musica annunciò: - Daremo un concerto. - Eeeh.... lo..... Glub... No grazie... - farfugliò Alessandro. Si vergognava, aveva paura; però possedeva una cinquantina di paia di occhiali musicali. Il concerto fu un successo. Alessandro venne invitato a suonare alla radio, alla televisione, la sua fotografia era sul giornale. Ma ora possedeva quasi trecento paia di occhiali. (Gli succedeva d'altronde di comprare dei pezzi di musica che il maestro non gli aveva chiesto: li suonava a casa, per suo piacere personale.) - lh-ih-ih ! Cominci ad amare la musica! - ridacchiava il vecchio cinese, sfregandosi le mani. Alessandro non rispondeva. Di nascosto, aveva cercato di leggere dei pezzi di musica senza occhiali. Un disastro! Le note si confondevano come prima. Do rol ma fi sa lo si da! Saltabeccavano sugli spartiti come migliaia di pulci! Si nascondevano dietro le stanghette delle battute come tante pecore quando saltano le staccionate! Erano bianche, nere, di tanti colori! E c'erano pause dappertutto, ma le pause più angosciose erano quelle di Alessandro! - È un tormentooooo! - piagnucolava. Aveva una gran voglia di essere smascherato! -4- Un giorno che era a scuola, successe il disastro. La sua mamma, nel fare le grandi pulizie, scoprì la collezione di occhiali. Li prese per degli stupidi gadget e buttò ogni cosa nella spazzatura! Al suo ritorno, Alessandro non trovò più niente. Si mise a piangere, a gridare, a pestare i piedi. - È un tormentoeeee ! - urlava. Alessandro corse dal venditore di occhiali. Ma il vecchio cinese gli spiegò, sfregandosi le mani, che non possedeva duplicati dei famosi occhiali musicali. Poverino! Come confessare al maestro di musica, ai genitori, ai compagni, agli ammiratori e alle ammiratrici di essere un imbroglione! Tornò a casa e si mise a letto per farsi credere malato. Pensa e ripensa Di colpo balzò giù dal letto e tornò dal venditore di occhiali: -Voglio imparare i vecchi pezzi! - gli disse. - Può lasciarmi esercitare qui da lei, in segreto? Il cinese si sfregò le mani con un sorriso largo così, perché era proprio quello che aveva sperato. -5- Per settimane, per mesi, a mezzogiorno e alla sera, Alessandro prese la strada del piccolo negozio invece di andare a giocare con gli amici. E un po' alla volta imparò il solfeggio. Do re mi fa sol la si do. Facile. Imparò la chiave di sol, la chiave di fa, la chiave di do e tutto il resto del mazzo di chiavi. Un giorno, suonando i vecchi pezzi, riuscì a far cantare il violino. Allora, la pigrizia (o l'abitudine) lo riprese: - Per il prossimo pezzo mi comprerò un paio di occhiali. Il venditore glieli procurò sfregandosi le mani con aria sorniona. Alessandro inforcò gli occhiali e suonò il pezzo senza errori. Era contento. Ma il vecchio scoppiò a ridere riprendendosi i famosi occhiali, ih-ih-ih. Passò le dita nei fori: erano occhiali senza lenti! - Ma allora...? Che significa tutto questo? - Significa - ridacchiò il venditore - che ora conosci la musica e non hai più bisogno di occhiali! Alessandro aggrottò le sopracciglia, «È ancora un tormento» pensò. Ma sollevò l'archetto e suonò di nuovo il pezzo senza occhiali. Quando ebbe terminato, senza una sola nota falsa, restò un momento in silenzio con l'archetto in aria. Era commosso. (Tratto e adattato da: V. Rivais, Calma e sangue freddo!, Trieste, EMME EDIZIONI, 1993) ",5.0,multipla 489,"B2. “Cuore che batte all’impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime...”. Quale espressione potrebbe proseguire questo elenco e quindi accordarsi con l’informazione che trovi subito dopo nel testo? A. Mani che prendono B. Mani che sudano C. Mani che sfiorano D. Mani che salutano",B,multiple choice,301.0,['item_301_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,multipla 490,"B5. Nel sottotitolo si dice che “Non c’è ancora una teoria che metta d’accordo tutti gli specialisti”. A che cosa dovrebbe servire questa teoria condivisa? A. A chiarire la distinzione tra emozione, sentimento, carattere e umore B. A spiegare l'origine comune delle emozioni, dei sentimenti, del carattere e dell'umore C. A descrivere alcuni aspetti del carattere di ciascuno e insegnare a controllare gli sbalzi d'umore D. A sostenere che la capacità di provare sentimenti ed emozioni è tipica dell'essere umano",A,multiple choice,304.0,['item_304_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,multipla 491,"B6. Considera le prime tre righe dell’ultimo paragrafo, “Emozioni in bella vista”. Che cosa significa dire “E, grazie ad alcune apparecchiature mediche, è anche possibile individuare quali sono le parti del corpo coinvolte”? Significa dire che A. per mezzo di alcune apparecchiature mediche, è anche possibile individuare quali sono le parti del corpo coinvolte B. a causa di alcune apparecchiature mediche, è anche possibile individuare quali sono le parti del corpo coinvolte C. nonostante alcune apparecchiature mediche, è anche possibile individuare quali sono le parti del corpo coinvolte D. in assenza di alcune apparecchiature mediche, è anche possibile individuare quali sono le parti del corpo coinvolte.",A,multiple choice,305.0,['item_305_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,multipla 492,"B8. Nel paragrafo 2 si afferma che “Oggi la vita è diversa”. Che cosa è cambiato rispetto al passato? A. La capacità di tenere sotto controllo le emozioni B. Il fatto che le emozioni ci proteggono C. Il tipo di situazioni che scatenano le emozioni D. Il modo in cui percepiamo le emozioni",C,multiple choice,307.0,['item_307_0.png'],2018_05_SNV_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella pagina che segue trovi un articolo sulle emozioni che è stato diviso in tre parti. PARTE 1 CHE COSA SONO LE EMOZIONI? Paura, rabbia, gioia e tristezza così diverse, ma con un punto in comune: sono tutte emozioni UNA REAZIONE Cuore che batte all'impazzata, viso che diventa rosso, occhi che si riempiono di lacrime... Un'emozione è la reazione del corpo e della mente di fronte a un avvenimento della vita. E non c'è bisogno di trovarsi davanti a grandi occasioni perché ne scatti una: succede spessissimo! UN MOTIVO C'È La natura ha fatto le cose per bene: da sempre le emozioni ci spingono a compiere quelle azioni necessarie alla sopravvivenza della specie. Il piacere ci porta a nutrirci e riprodurci, la paura ci induce a proteggerci, la rabbia ci fa affrontare di slancio gli avversari. La ricerca di “sensazioni forti” ci spinge ad avventurarci nell’ignoto... ed è la stessa che ha spinto i nostri antenati alla conquista di nuovi territori! IL SALE DELLA VITA Immagina di non provare mai gioia, rabbia, paura, amore. Senza emozioni saresti come un robot: analizzeresti con freddezza matematica le situazioni e non avresti voglia di fare nulla! Per fortuna le emozioni esistono: sono loro a rendere la vita così interessante! PARTE 2 EMOZIONE, SENTIMENTO, UMORE... dov'è la differenza? Stabilire qual è il confine tra emozione, sentimento, carattere e umore non è semplice Non c'è ancora una teoria che metta d'accordo tutti gli specialisti CONFINI INDEFINITI Come si fa a distinguere tra emozione, carattere e sentimento? | professionisti suggeriscono di aiutarsi con alcune domande: la sensazione che proviamo arriva in automatico e molto velocemente? Probabile che sia un'emozione. Dura molto? Forse è il carattere. Mette in gioco la coscienza? Allora è un sentimento. LA SCIA DELL’UMORE Dopo essere stata provata e memorizzata, un'emozione svanisce in fretta. A volte, però, abbiamo l'impressione che continui a vagare dentro di noi in una forma più leggera: può durare così a lungo che non ricordiamo più che cosa l'abbia fatta scattare. Ci sentiamo leggermente tristi o, al contrario, un po’ allegri. Questo è l'umore: uno stato emotivo che “dà colore” alle nostre giornate! Quando siamo innamorati “vediamo tutto rosa”, mentre ci sono giorni “neri” in cui tutto sembra andare storto... CHE CARATTERINO Per scoprire il carattere di qualcuno, bisogna osservare come si comporta in situazioni diverse: come reagisce, quali scelte compie, quali decisioni prende... Ognuno ha il proprio modo di vivere: dipende da com'è fatto e da ciò che ha imparato. Mentre l'emozione scatta in un momento preciso, il carattere si rivela nel tempo, giorno dopo giorno! EMOZIONE E SENTIMENTO Emozione e sentimento sono intimamente legati. Incontrare una persona può far scattare un'emozione: il cervello e il corpo reagiscono quasi in automatico, poi, dopo aver preso coscienza dell’emozione, iniziamo a riflettere. PARTE 3 Nella vita le emozioni sono indispensabili e multiuso... come un coltellino svizzero Quando viviamo una giornata ricca di emozioni, diciamo “questo giorno non lo dimenticherò mai”... ed è vero! Ricorderemo i particolari di una grande partita, mentre dimenticheremo quelli di un allenamento. | ricordi si radicano meglio nella memoria quando sono legati a un'emozione, d'altronde emozioni e ricordi si formano in due zone vicine del cervello. Pensa allo spavento nell’incontrare una tigre dai denti a sciabola o al lungo disgusto davanti a un fungo velenoso: emozioni come queste hanno sicuramente salvato i nostri antenati preistorici! Oggi la vita è diversa, ma le emozioni continuano a proteggerci e a farci adattare a qualsiasi situazione. Gestire una lite con un amico, reagire di fronte a un’ingiustizia, metterci al sicuro da un’auto che corre all'impazzata... Sotto l'influenza delle emozioni, il corpo diventa un vero chiacchierone! Postura, rossore, pallore, brividi, lacrime, sudore, grida... Sono tutte manifestazioni esteriori che danno informazioni utili a chi ci sta vicino. Insomma, le emozioni ci permettono di comunicare come un vero e proprio linguaggio! Un'emozione è un segnale d'allarme: quando sopraggiunge, significa che il corpo e il cervello hanno individuato qualcosa d’insolito. L'emozione serve anche a mettere in guardia chi ci circonda. Ad esempio, vedere qualcuno che mostra segni di paura o rabbia attira la nostra attenzione: ne cerchiamo di capire la causa e, non appena l'abbiamo trovata, ci prepariamo a reagire. A volte le emozioni possono spingerci verso scelte sbagliate: na decisione importante presa in un momento di rabbia, un acquisto fatto seguendo un desiderio irresistibile... Più spesso, però, le emozioni ci aiutano a fare le sceltegiuste, senza bisono, di pensarci troppo. ",5.0,multipla 493,"C3. Quale delle espressioni che seguono è indispensabile per completare la frase ""L'insegnante mette i quaderni…….""? A. di matematica B. ogni giorno C. nel casseetto D, degli studenti",C,multiple choice,311.0,['item_311_0.png'],2018_05_SNV_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 494,"C5. Osserva la frase: ""La zia / regalerà / una bicicletta / a Sara"". Indica la frase che ha la stessa struttura della frase data sopra, cioè è formata da ""pezzi"" (sintagmi) che hanno la stessa funzione sintattica. A. Il postino ha portato una lettera ai vicini. B. Il treno partirà per Genova alle diciassette. C. Il gatto ha inseguito il topo in cantina. D. La neve è caduta questa notte ad alta quota.",A,multiple choice,313.0,['item_313_0.png'],2018_05_SNV_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 495,"C6. Leggi la frase che segue: ""L'astronauta, dopo aver compiuto il suo primo viaggio, ha dichiarato che il viaggio è stato veramente emozionante."" Nella frase che hai letto, ""astronauta"" è un nome di persona di genere maschile o femminile? Quattro bambini hanno risposto alla domanda in modo diverso: chi ha ragione? A. Luca. Per me ""astronauta"" è di genere maschile, perché ""compiuto"" è ""dichiarato"" escono in -o. B. Sara. Per me la parola è femminile, perché ""astronauta"" termina in -a. C. Alice. Per me non si può sapere, perché davanti ad ""astronauta"" l'articolo apostrofato (l') potrebbe essere sia ""lo"" sia ""la"". D. Marco. Per me ""astronauta"" è sicuramente maschile, perché ""suo"" è di genere maschile.",C,multiple choice,314.0,['item_314_0.png'],2018_05_SNV_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 496,"C8. Indica la trasformazione corretta dal discorso indiretto al discorso diretto della seguente frase: ""Giovanni disse al suo amico che la sua squadra del cuore aveva vinto il campionato"". A. Giovanni disse al suo amico: ""La sua squadra del cuore ha vinto il campionato"". B. Giovanni disse al suo amico: ""La mia squadra del cuore ha vinto il campionato"". C. Giovanni disse al suo amico: ""La mia squadra del cucore aveva vinto il campionato"". D. Giovanni disse al suo amico: ""La sua squadra del cucore aveva vinto il campionato"". ",B,multiple choice,316.0,['item_316_0.png'],2018_05_SNV_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 497,"C10. Nelle frasi che seguono sono stati sottolineati tutti gli aggettivi. In quale frase ci sono solo aggettivi qualificativi? A. Tutte le mattine il mio amico si alza presto per allenarsi. B. La giraffa con il suo lunghissimo collo raggiunge le foglie più alte. C. Giorgia corre per lo stretto sentiero con una bicicletta nuova. D. Il famoso tenore ha cantato nella seconda parte dell'opera. ",C,multiple choice,318.0,['item_318_0.png'],2018_05_SNV_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 498,"A1. Qual è l’argomento del testo? A. Le previsioni sull'andamento dei consumi energetici nel mondo B. La sostenibilità della crescita demografica e dei consumi in futuro C. L'evoluzione della popolazione nei Paesi in via di sviluppo D. Il differente ritmo di sviluppo tra Paesi orientali e occidentali",B,multiple choice,319.0,['item_319_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 499,"A2. Perché nel testo si afferma che il 31 ottobre 2011 è “una data simbolica”? A. Perché in quella data è nato il miliardesimo abitante della Terra B. Perché quella data ha segnato l’inizio di un dibattito sul futuro dell’umanità C. Perché per convenzione è considerata come la data in cui la popolazione mondiale ha raggiunto i sette miliardi D. Perché da quella data le risorse della Terra non sono state più sufficienti a nutrire tutti i suoi abitanti ",C,multiple choice,320.0,['item_320_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 500,"A3. Osserva attentamente il grafico. La linea tratteggiata verticale ha la funzione di A. segnalare il punto in cui la popolazione mondiale ha cominciato a crescere più delle risorse disponibili B. separare i dati sull’evoluzione della popolazione mondiale dalle previsioni sulla sua crescita futura C. rendere più leggibile la distanza che separa i Paesi sviluppati da quelli in via di sviluppo D. mettere in evidenza il 2010 come l’anno di svolta nell’evoluzione della popolazione mondiale",B,multiple choice,321.0,['item_321_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 501,"A6. L’aggettivo “ulteriore”, usato nel testo in riferimento a “miliardo”, significa A. altro B. successivo C. intero D. ultimo",A,multiple choice,324.0,['item_324_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 502,"A7. Il testo lega al fenomeno dell’aumento della popolazione un altro fenomeno. Quale? A. Il miglioramento del tenore di vita B. La diminuzione della mortalità C. La disuguaglianza tra i diversi Paesi D. L’incremento dei consumi di energia",D,multiple choice,325.0,['item_325_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 503,"A10. La frase introdotta da “sostiene che…”, evidenziata nel testo, esprime A. una convinzione soggettiva B. un’affermazione fondata su dati C. un’ipotesi da verificare D. un’idea condivisa da molte persone",B,multiple choice,328.0,['item_328_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 504,"A11. Quale delle seguenti espressioni non può sostituire “pur avendo adottato …” (evidenziata nel testo)?ù A. Sebbene abbiano adottato B. Benché abbiano adottato C. Nonostante abbiano adottato D. Purché abbiano adottato",D,multiple choice,329.0,['item_329_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 505,"A12. Nel testo si dice che molti Paesi dell’Africa subsahariana e del Sudamerica sono virtuosi loro malgrado. Ciò vuol dire che sono virtuosi A. a loro piacimento B. contro il loro stesso interesse C. per loro responsabilità D. indipendentemente dalla loro volontà",D,multiple choice,330.0,['item_330_0.png'],2018_08_SIM1_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazio ne mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il segue nte: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografi ca è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12 -13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differe nti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute , è possibile valutare con ap prossimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnolog ia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’ Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto a ll’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondiale vive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’in terno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mante nersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nasci te nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’ International Energy Agency , nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energi a crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di ene rgia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. ",8.0,multipla 506,"B1. In base al testo, un “inserzionista” è chi A. tratta affari per telefono B. fa annunci economici sui giornali C. crea pubblicità per i giornali D. pubblica sui quotidiani informazioni a pagamento",B,multiple choice,331.0,['item_331_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,multipla 507,"B2. Il protagonista non ricorre ai negozianti per vendere la sua collezione perché A. si sente superiore a loro B. lo ritiene poco dignitoso C. vuole ricavare più soldi D. si fida poco di loro",B,multiple choice,332.0,['item_332_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,multipla 508,"B3. La parola “colonne” evidenziata nel testo indica A. le pagine centrali dei quotidiani B. le bacheche in cui si affiggono gli avvisi C. i caratteri a stampa più grandi ed evidenti D. le suddivisioni verticali delle pagine",D,multiple choice,333.0,['item_333_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,multipla 509,"B5. “... più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere”. Perché il protagonista si comporta così? A. Era affezionato alla sua raccolta e gli dispiaceva separarsene B. Pensava che i compratori non apprezzassero abbastanza la sua collezione C. Gli faceva piacere essere chiamato al telefono e sentirsi cercato D. Voleva prolungare il più possibile la trattativa per trovare il miglior offerente",C,multiple choice,334.0,['item_334_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,multipla 510,"B6. La parola “anziché”, evidenziata nel testo, può essere sostituita da A. invece di B. per C. prima di D. allo scopo di",A,multiple choice,335.0,['item_335_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,multipla 511,"B7. Qual è il vero motivo per cui il protagonista non vende la sua collezione di francobolli? A. Nessuno gli telefona più per comperarla B. Ha messo in vendita altri oggetti C. Ha deciso di non venderla più D. Il suo obiettivo non è più quello di vendere",D,multiple choice,336.0,['item_336_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,multipla 512,"B9. Dalle frasi del testo evidenziate si capisce che il protagonista A. rimpiange di aver rotto i rapporti con i colleghi di lavoro B. anche nella vita lavorativa era stato un uomo solo C. era stato indifferente verso le persone con cui lavorava D. aveva avuto rapporti conflittuali con i colleghi di lavoro",B,multiple choice,338.0,['item_338_0.png'],2018_08_SIM1_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di pren dere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pen sato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e so prattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché l ui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati u n tempo i colleghi d'ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova in serzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo , pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull'unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per ann i, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. De l resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e casse tti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…» ",8.0,multipla 513,"C1. Che cosa significa che un sistema energetico è “sostenibile”? A. Produce energia facilmente trasportabile B. Non ha un impatto negativo sull’ambiente C. Produce energia a prezzi molto bassi D. Le scorie si possono riciclare per altri usi",B,multiple choice,342.0,['item_342_0.png'],2018_08_SIM1_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. ",8.0,multipla 514,"C3. Oggi l’idrogeno può essere ottenuto A. dall'acqua B. dal vapore C. dall'energia elettrica D. dai combustibili fossili",D,multiple choice,344.0,['item_344_0.png'],2018_08_SIM1_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. ",8.0,multipla 515,"C6. L’uso dell’idrogeno per le auto è conveniente perché A. ha una resa elevata e non inquina l’aria B. prolunga la vita dei motori C. permette di raggiungere velocità più elevate D. assicura percorrenze più lunghe con minori consumi",A,multiple choice,347.0,['item_347_0.png'],2018_08_SIM1_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. ",8.0,multipla 516,"C7. Una delle soluzioni proposte per il problema del rilascio di CO2 nella produzione di idrogeno è di A. bruciarla in ambiente protetto nel momento stesso in cui viene generata B. trasformarla in vapore acqueo C. imprigionarla in giacimenti di combustibili fossili abbandonati D. disperderla nell'atmosfera",C,multiple choice,348.0,['item_348_0.png'],2018_08_SIM1_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. ",8.0,multipla 517,"C8. Lo scopo principale del testo che hai letto è A. mettere in guardia sui numerosi problemi non risolti legati all’uso dell’idrogeno B. informare sulle caratteristiche e sull’uso dell’idrogeno come nuova fonte di energia C. illustrare i vantaggi economici dell’uso dell’idrogeno per l’industria automobilistica D. riportare le diverse e contrastanti posizioni nel mondo scientifico sul futuro uso dell’idrogeno",B,multiple choice,349.0,['item_349_0.png'],2018_08_SIM1_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: * può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; * può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’ idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi pi ù critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO 2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: * nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; * nelle celle a combustibile H. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le ce lle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle di combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza em issioni nocive; * nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. ",8.0,multipla 518,"D2. Scegli fra le quattro alternative proposte quella che completa la parola o la frase riportata di seguito (forma cioè una “collocazione lessicale”). A. un argomento B. un pagamento C. una fessura D. una spia",B,multiple choice,351.0,['item_351_0.png'],2018_08_SIM1_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 519,"E1. Nella frase “Secondo una prima ricostruzione, il ladro sarebbe entrato da una finestra sul retro”, il verbo indica: A. un'azione certa B. un'azione futura C. un'azione improbabile D. un'azione possibile",D,multiple choice,356.0,['item_356_0.png'],2018_08_SIM1_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 520,"E2. “Raggiunta la cima, il gruppo degli alpinisti decise di trascorrere la notte nel rifugio”. La frase sottolineata è: A. consecutiva B. temporale C. finale D. concessiva",B,multiple choice,357.0,['item_357_0.png'],2018_08_SIM1_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 521,"E4. In quale delle seguenti frasi è presente una espressione polirematica (cioè un gruppo di più parole con un significato unitario: es. fuori stagione, botta e risposta)? A. Quella ragazza ha un viso acqua e sapone B. Per la cena di stasera mancano pane e vino C. Nella fattoria razzolavano liberamente galli e galline D. Sbuccia la frutta con forchetta e coltello!",A,multiple choice,359.0,['item_359_0.png'],2018_08_SIM1_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 522,"E5. “Luca mi ha chiesto quando arriverà l’aereo da Milano”. La frase sottolineata è: A. soggettiva B. oggettiva esplicita C. temporale D. interrogativa indiretta",D,multiple choice,360.0,['item_360_0.png'],2018_08_SIM1_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 523,"A1. Quale delle frasi seguenti sintetizza meglio il contenuto del primo paragrafo del testo (evidenziato)? A. Nel corso dell’ultimo secolo Tokio è stata rasa al suolo e ricostruita tre volte B. I Giapponesi hanno un forte senso dei propri valori e della loro diversità dagli altri popoli C. La bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale sono state esperienze traumatiche per i Giapponesi D. I giapponesi oggigiorno non vivono più in case di legno e di carta, ma in moderne case di cemento",B,multiple choice,363.0,['item_363_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 524,"A2. In quale epoca sono accaduti gli avvenimenti di cui si parla nel primo paragrafo del testo? A. Nel nostro secolo B. Nel XIX secolo C. Nel secolo scorso D. Nel XXI secolo",C,multiple choice,364.0,['item_364_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 525,"A3. Qual è, secondo l’autore, la funzione principale delle nozze imperiali? A. Fanno produrre una marea di oggetti-ricordo B. Danno luogo a un gran numero di articoli e trasmissioni televisive C. Rafforzano l’identità collettiva giapponese D. Sono un’occasione per rievocare riti e leggende del passato",C,multiple choice,365.0,['item_365_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 526,"A4. Perché, nel rito della purificazione, la futura sposa dell’imperatore viene “spolverata da un sacerdote” (espressione evidenziata nel testo)? A. Per liberarla da ogni difetto o mancanza B. Per pulire la sua pelle C. Per renderla divina come lo sposo D. Per farla più bella",A,multiple choice,366.0,['item_366_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 527,"A5. Come vengono riportate le vicende della Seconda Guerra Mondiale, di cui i giapponesi sono stati protagonisti, nei libri di storia usati nelle scuole del paese? A. In modo fedele, senza alterare la realtà dei fatti B. In modo veritiero, illustrando le atrocità e i massacri commessi C. In modo parziale, senza parlare delle colpe dei giapponesi D. In modo dettagliato, riconoscendo le colpe dei giapponesi",C,multiple choice,367.0,['item_367_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 528,"A6. Come si potrebbe sostituire l’espressione “viene alla ribalta”, evidenziata nel testo? A. Si capovolge B. Dà spettacolo C. Si presenta D. Dà scandalo",C,multiple choice,368.0,['item_368_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 529,"A7. Secondo l’autore, per quale motivo Masako ha acconsentito a sposare il futuro imperatore? A. Per amore B. Per desiderio di potere C. Per ambizione D. Per senso del dovere",D,multiple choice,369.0,['item_369_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 530,"A8. Cosa significa la frase, riferita a Masako, “… ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno” (evidenziata nel testo)? A. Ha risposto al richiamo della famiglia che la voleva con sé B. Si è piegata alle tradizioni giapponesi C. Ha accettato con gioia di sposare l’imperatore D. È tornata dall’estero per rientrare nel suo paese natale",B,multiple choice,370.0,['item_370_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 531,"A9. Perché Masako può esser considerata un simbolo del suo Paese? A. Perché ha dimostrato impegno nello studio e nella carriera B. Perché unisce in sé modernità e fedeltà alla tradizione C. Per la sua obbedienza ai funzionari imperiali D. Per il suo spirito di sacrificio",B,multiple choice,371.0,['item_371_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 532,"A10. Il testo che hai letto è un articolo di A. cronaca rosa B. cronaca nera C. politica D. costume",D,multiple choice,372.0,['item_372_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 533,"A11. Quale tra le seguenti frasi, ricavate dal testo, rende nel modo più completo il pensiero dell’autore? A. “Ogni cerimonia imperiale è stata l’occasione per riaffermare la diversità, l’unicità dei Giapponesi” B. “Un dovere viene ricordato a tutti: il dovere di essere Giapponesi” C. “Il Giappone è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso” D. “Neppure la bomba atomica e la sconfitta nella seconda guerra mondiale sono riuscite ad intaccare la coscienza giapponese”",C,multiple choice,373.0,['item_373_0.png'],2018_08_SIM2_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è tratto da un articolo sul Giappone del CORRIERE DELLA SERA. Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vi vevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubicoli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. In questo c ontinuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti, hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimonio del principe ereditario Naruh ito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perché dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno dedicate e dietro la marea di monete d'o ro, di francobolli e T -shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segreti di cui conosce l'esistenza, che sa lega ti alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e dalle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione"" prima di unirsi alla divinità. Perché l'imperatore discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ultimi anni ce ne sono state varie e ognuna di esse è stata l'o ccasione per riaffermare la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocato nella terra arida del Giappone dei transistor. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogliono vedere scritta nei libri di tes to per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza generazione imperiale viene alla ribalta, il Giappon e è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa contraddizione. Esternamente è “moderna”, parla varie lin gue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari ve stali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma per dovere”. Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. ",8.0,multipla 534,"B1. L’accenno agli automobilisti che “quasi potevano toccare i panni stesi” (evidenziata nel testo) ha lo scopo di A. dare un’idea di quanto in alto e quanto vicina alle case corresse la strada B. impressionare il lettore con il pericolo cui gli automobilisti erano esposti C. descrivere la vista dei palazzi che si offriva a chi percorreva la sopraelevata D. informare il lettore che la protagonista sta arrivando in macchina a scuola",A,multiple choice,374.0,['item_374_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 535,"B2. Il breve dialogo che si svolge tra i due protagonisti (evidenziato) ci fa capire che A. si erano dati appuntamento davanti al portone della scuola B. non avevano dormito per la preoccupazione di arrivare in ritardo C. sono entrambi in ansia per l’esame che deve iniziare di lì a poco D. non sono in confidenza tra loro perché si danno del lei",C,multiple choice,375.0,['item_375_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 536,"B3. “…e sapevo che il problema agli esami era proprio quello” (espressione evidenziata nel testo). Qual è il problema cui si fa riferimento? A. Di aver paura dei commissari B. Di riuscire a far bene le prove C. Di essere stato un bravo alunno D. Di riuscire a rimanere calmi",D,multiple choice,376.0,['item_376_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 537,"B4. Perché la protagonista è sicura che “Gaetano la terza media se la sarebbe presa” (espressione evidenziata nel testo)? A. Perché era il suo alunno migliore B. Perché tutti riuscivano a superare l’esame C. Perché sapeva fare dei bei temi D. Perché tutti dopo le 150 ore erano ben preparati",B,multiple choice,377.0,['item_377_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 538,"B5. Le parole “…lui cresceva, diventava più grosso di quello che era” (evidenziate nel testo) vogliono dire che A. Gaetano aumentava nella statura e nella corporatura B. Gaetano si sentiva arrossire per quello che aveva scritto C. l’approvazione della professoressa rendeva Gaetano fiero di sé D. a Gaetano piaceva che la professoressa leggesse i suoi temi a voce alta",C,multiple choice,378.0,['item_378_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 539,"B6. Per quale ragione Gaetano “fingeva di cercare conferma” (espressione evidenziata nel testo)? A. Sapeva già quello che stava per chiedere B. Non era sicuro di quello che aveva scritto C. Desiderava sentirsi dire che aveva fatto bene D. Voleva che la professoressa correggesse i suoi errori",C,multiple choice,379.0,['item_379_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 540,"B7. “Questo il programma non lo richiedeva” (espressione evidenziata nel testo). Che cosa il programma non richiedeva? A. Di saper scrivere in Italiano in buono stile B. Di conoscere l’uso corretto del pronome che C. Di sapere che in una frase il che va messo dopo un nome D. Di esser capaci di fare le giuste domande agli insegnanti",A,multiple choice,380.0,['item_380_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 541,"B8. Nella parte di testo evidenziata si dice che Gaetano “stava per scrivere il suo tema in faccia al padre”. Con queste parole si vuole sottolineare che A. Gaetano stava per scrivere un tema pieno di odio contro il padre B. Gaetano era stato mandato dal padre a lavorare troppo presto, quand’era ancora un bambino C. era per colpa del padre se Gaetano non aveva potuto studiare D. esser arrivato all’esame di licenza era per Gaetano una rivincita nei confronti del padre",D,multiple choice,381.0,['item_381_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 542,"B9. Perché la protagonista aveva detto a Gaetano di scegliere “la traccia più facile” (espressione evidenziata)? A. Perché non corresse il rischio di esser bocciato all’esame B. Perché temeva che la personalità di Gaetano lo inducesse a fare una scelta azzardata C. Perché sapeva che la commissione d’esame era molto severa D. Perché pensava che Gaetano non fosse all’altezza di svolgere un tema troppo difficile",B,multiple choice,382.0,['item_382_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 543,"B10. L’espressione “mi presi altre due vasche” (evidenziata nel testo) vuol dire A. andai su e giù per due volte B. feci due giravolte C. girai intorno ai banchi D. feci due volte dietro front",A,multiple choice,383.0,['item_383_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 544,"B11. La frase “Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra” (evidenziata) vuol dire che A. la perdita di tre dita era stata per Gaetano una sorta di liberazione B. solo con tutte le dita Gaetano si era sentito un uomo normale C. Gaetano si sentiva finalmente libero di scrivere con la sinistra D. esser stato costretto a lasciare la scuola era per Gaetano come una pietra sul cuore",A,multiple choice,384.0,['item_384_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 545,"B12. Perché il commissario Esposito, rivolgendosi alla protagonista, le sorride “con un sorriso falso” (espressione evidenziata)? A. Per nascondere il suo desiderio di bere il caffè con lei B. Per ingraziarsi la collega C. Perché non è un uomo sincero D. Perché vuole allontanarla da Gaetano",D,multiple choice,385.0,['item_385_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 546,"B13. Il suggerimento di lasciare uno spazio bianco e andare avanti “risolve” il dilemma di Gaetano. Che cosa rappresenta lo spazio bianco? A. Lo stacco tra il passato di Gaetano e la nuova vita che comincia B. L’incertezza di Gaetano riguardo a che cosa scrivere nel tema C. Il dolore lasciato nella vita di Gaetano dalla perdita di tre dita D. L’ignoranza da parte di Gaetano di quale sarà ora il suo futuro",A,multiple choice,386.0,['item_386_0.png'],2018_08_SIM2_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Lo spazio bianco Altissima la sopraelevata passava sui palazzi di piazza Ottocalli, faceva ombra ai balconi. Gli automobilisti uscivano dalla tangenziale, e dai finestrini quasi potevano toccare i panni stesi. Dall’ultimo pilone vidi Gaetano che fumava davanti al portone della scuola. - Buongiorno. - Quale buongiorno: io stanotte non ho dormito proprio. - Non ne parliamo, e manco la mano mi dà? - È sudata. Non glielo dissi di stare tranquillo: che era il miglior e dei miei alunni, perché anch’io ero stata una migliore alunna, e sapevo che il problema agli esami era proprio quello. Gaetano la terza media se la sarebbe presa, come se la prendevano tutti dopo le 150 ore. Passavano tutti, ma Gaetano era il mio alunno migliore. Quando in classe leggevo i suoi temi ad alta voce, lui arrossiva solo ai primi due righi, poi si gonfiava di orgoglio, mano a mano che andavo avanti e magari facevo anche sì con la testa, lui cresceva, diventava più grosso di quello che era. Poi, sicuro di quello che stava chiedendo, fingeva di cercare conferma: «Il che, là, è giusto?» Il che era giusto e ci stava anche bene in quella frase lí, in quel punto lí. Questo il programma non lo richiedeva. Io tremavo per lui, però tranquilla entrai nel l’aula magna, salutai i colleghi che conoscevo e il presidente esterno. Quello me lo guardai bene, perché la partita di Gaetano era contro di lui: io lo sapevo che stava per scrivere il suo tema in faccia al padre che lo aveva mandato a lavorare a otto ann i. Questo era il suo esame di terza media, adesso Gaetano aveva tredici anni e si calava in apnea nelle cisterne di Calandrino dove mettevano a macerare la canapa: per 50 lire a balla la riportava su. Adesso avrebbe scritto il suo tema sul libretto di lavo ro della fabbrica. Lo avrebbe scritto lí per trentotto anni, e la pialla stavolta non avrebbe potuto farci proprio niente. - Scegli la traccia più facile, - gli avevo detto, perché conoscevo le tentazioni e i rischi degli uomini forti. Poi la sessione era cominciata, e noi avevamo preso a vagare come mosche stanche davanti alle finestre, a controllare gli orologi. I signori che avevamo davanti scrivevano composti nei loro banchi, qualcuno ci offriva la vista di una capigliatura brizzolata. Per due ore gli u nici a fare rumore fummo noi. Poi vidi Gaetano farmi un cenno. Io mi girai verso la cattedra, ma i commissari non mi avrebbero detto niente: cosa si può correggere in tre parole sottovoce, senza guardare il foglio e passando? In cosa avrei potuto più aiuta rlo, dopo cinquantasette anni, tre figli e una mano devastata, se non sapeva mettere i suoi congiuntivi in ordine e quello che pensava dentro le parole? Allora mi avvicinai e guardai sul banco, capii che aveva già scritto molto e con poche cancellature. - Ho un problema. Mi sono bloccato. - Che cosa vuoi dire? - Vorrei andare avanti. - Mettici un futuro. - No, voglio metterci il presente. - E scrivi al presente. - Però vengo già da un presente che è finito mo’. Non capivo, avevo bisogno di leggere, non gli risposi nulla e mi presi altre due vasche, avanti e indietro tra le corsie dei banchi. All’altezza della porta accennai anche un passo fuori, ma guardavo l’orologio e smaniavo per tornare vicino a Gaetano. Controllai l’ansia mentre andavo verso di lui, mi avvicinai lentamente e mi misi a sbirciare da dietro, ma con finta noncuranza, come se fossi incuriosita. Lessi dove lui mi indicò, che era dove finiva lo scritto: «Anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra h o sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra». Pensai e feci due passi, poteva riattaccare con un «adesso». - Professoré. - Sto pensando. - Io devo scrivere altre due pagine, al presente, che è un pres ente nuovo. - Ho capito. Guardai l’orologio, e maledissi i perfezionisti di cinquantasette anni che scrivono con tre dita mancanti. Un commissario cominciava a guardare fisso verso di me, parlai tra le labbra come fossi anch’io una studentessa. - Mettici u no spazio bianco e ricomincia a scrivere quello che vuoi. - Ma si può fare? - Sí, lascia un rigo in bianco e ricomincia sotto. - Non è che poi pensano che mi sono dimenticato qualcosa? - No-o. Il commissario Esposito si alzò e mi sorrise gentilmente con u n sorriso falso, mi richiamò: - Dottoressa, venga a prendere il caffè: abbiamo chiamato il bar. Guardai Gaetano con risentimento. - Ma lei non ce l’ha mai detto in classe che si poteva fare. - E va bene, però mo’ non scocciare e mettici uno spazio bianco, che io mi vado a prendere il caffè. ",8.0,multipla 547,"C1. La frase “Gesti antichi, rimasti tale grazie a un nobile passato” (evidenziata nel testo) intende sottolineare che A. la produzione della confetteria Stratta si rifà a tecniche tradizionali tramandate nel tempo B. la confetteria Stratta era frequentata in passato dalla nobiltà C. i dolci della confetteria Stratta sono rimasti uguali dal secolo scorso ai nostri giorni D. i prodotti della confetteria Stratta sono frutto di gesti antiquati",A,multiple choice,387.0,['item_387_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 548,"C2. Nel periodo “Tutto ha inizio quando …” (evidenziato nel testo), la parola “Tutto” si riferisce A. alla lista dei prodotti dolciari elencati prima B. al momento di apertura della confetteria C. alla storia della confetteria raccontata nel testo D. alla decisione di Stratta e Reina di fondare la confetteria",C,multiple choice,388.0,['item_388_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 549,"C3. L’espressione “escono dall’anonimato del loro laboratorio” (evidenziata nel testo), riferita a Stratta e Reina, significa A. abbandonano l’attività che svolgevano nel loro laboratorio B. lasciano il loro sconosciuto laboratorio per aprire la confetteria C. si trasferiscono all’insaputa di tutti nel palazzo del Castellamonte D. comprano una pasticceria già famosa in tutta Europa",B,multiple choice,389.0,['item_389_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 550,"C4. Con l’espressione “la premiata ditta” (evidenziata) si indica A. la Società del Whist B. il palazzo del Castellamonte C. la premiazione ottenuta dalla ditta Stratta D. la confetteria Stratta",D,multiple choice,390.0,['item_390_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 551,"C5. Nella parte di testo evidenziata si legge: “secondo molti cronisti dell’epoca”. A quale epoca si sta facendo riferimento? A. alla fine del Settecento B. alla seconda metà dell’Ottocento C. alla prima metà dell’Ottocento D. agli inizi del Novecento",C,multiple choice,391.0,['item_391_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 552,"C6. Quando venne introdotta a Torino l’illuminazione a gas? A. Nel 1840 B. Un po’ prima del 1840 C. Poco dopo il 1840 D. Non ci sono sufficienti informazioni per dirlo",B,multiple choice,392.0,['item_392_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 553,"C7. Nella parte evidenziata si legge: “Testimonia il riconoscimento lo stemma originale”. A che cosa si riferisce “il riconoscimento”? A. Al fatto che la confetteria Stratta divenne ufficialmente la ditta venditrice di dolci ai Savoia B. All'ingresso trionfale fatto dai dolci della confetteria Stratta nel palazzo dei Savoia C. Al fatto che i Savoia divennero i più assidui consumatori di dolci della confetteria Stratta D. Al grande successo che i dolci della confetteria Stratta riscossero presso la corte dei Savoia",A,multiple choice,393.0,['item_393_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 554,"C8. La frase evidenziata nel testo significa che il grande statista A. cerca di ottenere il sostegno degli ambasciatori europei offrendo loro i dolciumi della confetteria Stratta B. prende per il collo gli ambasciatori di tutta Europa costringendoli a dargli il loro appoggio C. prende alla lettera la golosità degli ambasciatori dell’intera Europa per avere il loro aiuto D. fa pressione sugli ambasciatori europei perché acquistino i dolciumi della confetteria Stratta",A,multiple choice,394.0,['item_394_0.png'],2018_08_SIM2_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo testo è la presentazione pubblicitaria di un negozio di dolciumi di Torino. È proprio nel cuore di Torino, nella famosa piazza San Carlo, che la storica “Confetteria Stratta” dal 1836 apre le sue porte agli affezionati clienti. A prediligerla un pubblico raffinato, in grado di apprezzare le celeberrime caramelle, i coloratissimi fondants con la goccia, la sontuosa crema gianduia e gli irresistibili cioccolatini. E che dire dei marrons glacés , pelati a mano uno ad uno e messi a ca ndire per ottanta ore? Gesti antichi, rimasti tali grazie a un nobile passato. Tutto ha inizio quando i maestri confettieri Stratta e Reina escono dall’anonimato del loro laboratorio e per fondare la premiata ditta scelgono quelli che, secondo molti cronis ti dell’epoca, sono i portici più belli e più vasti d’Europa. L’apertura del locale nel palazzo settecentesco del Castellamonte, oggi di proprietà della Società del Whist, precede di due anni la collocazione nella piazza del monumento equestre in bronzo de dicato a Emanuele Filiberto: il “Caval ΄d Brôns”. Nel 1840 Stratta si distingue tra le botteghe del centro per essere una delle prime a richiedere l’istallazione dell’illuminazione a gas, in sostituzione del sistema ad olio. Nel 1858, dopo la parentesi di gestione di Alessandro Reina, la conduzione dei fratelli Stratta diviene definitiva. Nelle belle vetrine fanno mostra di sé caramelle e confetti, cioccolatini e praline, marrons glacés e canditi, il tutto alternato ai legni e ai cristalli preziosi. Il succ esso è immediato. Le caramelle dai mille sapori, oggi famose in tutto il mondo, entrano trionfalmente alla corte dei Savoia e la confetteria acquisisce il titolo più ambito e prestigioso del tempo: “Fornitori della Real Casa”. Testimonia il riconoscimento lo stemma originale, tuttora visibile all’interno del negozio. Come i Savoia, così anche il Conte Cavour è un fedele cliente di Stratta. Nell’arduo compito di cercare appoggi al nascituro Regno d’Italia, il grande statista prende letteralmente per la gola gli ambasciatori dell’intera Europa. È passato alla storia il suo ordinativo a Stratta di ventinove chili di marrons glacés , diciotto di sorbetto, trentasette di frutta caramellata e poi ancora paste da forno, confetture e meringhette per un totale esorbit ante di 2547 lire e 60 centesimi. Erano i tempi di Torino capitale e la città era teatro di feste, balli, e ricevimenti. ",8.0,multipla 555,"D4. Scegli fra le quattro alternative proposte quella che completa la parola o la frase evidenziata (forma cioè una “collocazione lessicale”). ……… di botte A. soffiare B. gonfiare C. pompare D. dilatare",B,multiple choice,398.0,['item_398_0.png'],2018_08_SIM2_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 556,"D5. Scegli fra le quattro alternative proposte quella che completa la parola o la frase evidenziata (forma cioè una “collocazione lessicale”). Mostra………… A. permanente B. infinita C. costante D. eterna",A,multiple choice,399.0,['item_399_0.png'],2018_08_SIM2_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 557,"D6. Scegli fra le quattro alternative proposte quella che completa la parola o la frase evidenziata (forma cioè una “collocazione lessicale”). Hai realizzato un bellissimo disegno! Non conoscevo questa tua ……….. artistica. A. vena B. pena C. scena D. lena",A,multiple choice,400.0,['item_400_0.png'],2018_08_SIM2_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 558,"E1. Leggi il periodo che segue: “Giovanni ha detto che avrebbe spedito la lettera nel pomeriggio ma non l’ha ancora fatto”. Il verbo della frase subordinata (avrebbe spedito) esprime, rispetto al verbo della frase principale (ha detto), un azione che accade: A. contemporaneamente B. prima C. solitamente D. dopo",D,multiple choice,403.0,['item_403_0.png'],2018_08_SIM2_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 559,"E2. La frase “È vietato gettare i rifiuti per terra” esprime A. un desiderio B. una proibizione C. un ordine D. una raccomandazione",B,multiple choice,404.0,['item_404_0.png'],2018_08_SIM2_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 560,"E3. Nella frase ""Lucia ed Elisa sono le più grandi della loro classe"" c'è un aggettivo di grado A. superlativo relativo B. positivo C. comparativo di maggioranza D. superlativo assoluto",A,multiple choice,405.0,['item_405_0.png'],2018_08_SIM2_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 561,"E4. Indica la frase in cui c'è un predicato nominale. A. È un esempio per tutti il coraggio di quel ragazzo! B. La diva era seguita da un codazzo di giornalisti. C. È nell'armadio di camera tua la giacca rossa. D. Giovanni era tornato a casa prima del solito.",A,multiple choice,406.0,['item_406_0.png'],2018_08_SIM2_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 562,"E5. Quale delle seguenti frasi non è in forma passiva? A. I nuovi arrivati furono ospitati nella casa di un amico B. Mia sorella è stata bocciata all'esame di maturità C. Il treno era arrivato in stazione con mezz'ora di ritardo D. Nelle ore di punta le vie della città sono intasate dal traffico",C,multiple choice,407.0,['item_407_0.png'],2018_08_SIM2_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 563,"E6. In quale delle seguenti frasi ci sono contemporaneamente un complemento di mezzo e uno di specificazione? A. Con te andrei in qualunque posto del mondo B. La mattina della domenica mi piace alzarmi con calma C. Un uomo con una valigia uscì dal portone del palazzo D. La donna tagliò i capelli della figlia con una forbice",D,multiple choice,408.0,['item_408_0.png'],2018_08_SIM2_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 564,"A1. Le acque dolci rappresentano A. i 2/3 della superficie della Terra B. il 2,5% del totale delle acque C. il 66% circa del totale delle acque D. 1/3 della superficie della Terra",B,multiple choice,409.0,['item_409_0.png'],2018_08_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 565,"A2. Qual è la causa principale delle differenze nel consumo di acqua tra i vari paesi del mondo? A. Le diverse condizioni ambientali B. I modi di vivere e il grado di sviluppo economico C. L'inquinamento delle acque che le rende non potabili D. Le diverse abitudini igieniche",B,multiple choice,410.0,['item_410_0.png'],2018_08_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 566,"A3. Dove si trova l'acqua dolce disponibile per il consumo umano? A. Nei ghiacciai delle montagne B. Nelle zone polari C. Nei corsi d'acqua e nelle falde acquifere D. Nei bacini artificiali",C,multiple choice,411.0,['item_411_0.png'],2018_08_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 567,"A5. Nei prossimi decenni, quanti saranno, presumibilmente, i paesi che dovranno affrontare il problema della scarsità d'acqua? A. 26 B. 25 C. 51 D. 230",C,multiple choice,413.0,['item_413_0.png'],2018_08_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La scarsità dell’acqua L’acqua è una risorsa naturale indispensabile per tutte le forme di vita e ricopre per oltre 2/3 la superficie terrestre. Tuttavia appena il 2,5% delle risorse idriche è costituito da acqua dolce, che è per lo più immobilizzata nei ghiacci polari e in quel li delle montagne e quindi solo in piccola parte è disponibile per la popolazione umana nelle falde sotterranee e nei fiumi. Sarebbe una quantità teoricamente sufficiente per tutta la popolazione del pianeta, ma oggi l’acqua in realtà è una risorsa sempre più scarsa. Infatti il consumo idrico mondiale aumenta sempre di più (di oltre 10 volte nell’ultimo secolo) e soprattutto sono esplosi i problemi dello sperpero e dell’inquinamento dell’acqua causati da: attività industriali, uso di sostanze chimiche in ag ricoltura, incremento della popolazione e delle città, crescente produzione di rifiuti e scarichi fognari. Oggi circa 2 miliardi di persone vivono in paesi con problemi di approvvigionamento d’acqua: in 26 paesi africani e mediorientali, dove abitano 230 m ilioni di persone, scarseggia l’acqua. Entro vent’anni si prevede che altri 25 paesi (alcuni dei quali europei) saranno nelle stesse condizioni. Attualmente il consumo medio per ogni abitante del globo è di 800 metri cubi l’anno. In realtà vi sono enormi d ifferenze tra i consumi delle popolazioni dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri: uno statunitense consuma 600 litri di acqua al giorno, un europeo 300 e un africano solo 20. Più che alle differenti condizioni ambientali, dunque, l’ineguale consumo di acqua è legato al grado di ricchezza e allo stile di vita. Nei paesi arretrati oltre 1 miliardo e 400 milioni di persone, infatti, non ha accesso all’acqua potabile e oltre 2 miliardi e 400 milioni non hanno i servizi sanitari in casa. In molti paesi pover i, inoltre, dove le risorse idriche sono gestite da grandi imprese multinazionali, l’acqua potabile è sempre più costosa e sta diventando un bene per pochi privilegiati. Si prevede quindi che nei prossimi decenni il calo di disponibilità di acqua e la tend enza a trasformarla in “oro blu”, cioè merce molto costosa, farà aumentare, specie nelle aree meno sviluppate del pianeta, i contrasti sociali e i conflitti armati. A fronte di questa situazione problematica, nel 2002 il Comitato dei diritti umani, civili e sociali dell’ONU ha affermato che l’accesso all’acqua è un diritto umano universale. ",8.0,multipla 568,"B1. Rileggi il capoverso evidenziato nel testo. Dal contesto, si può dedurre che ""agoni, persici e alborelle"" sono dei tipi di A. carni B. pesci C. verdure D. frutti",B,multiple choice,414.0,['item_414_0.png'],2018_08_DR_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Balordo Idee politiche il maestro Bordigoni si procurava il piacere di non averne; e se ne aveva, si negava il piacere di manifestarle. Il fascismo a quei tempi badava solo a crescere e a fortificarsi; più tardi, verso il ’28 o il ’29, diventato esigente, si accorse del Bordigoni. Il maestro Cometta, fiduciario dell’Opera nazionale Balilla, un giorno lo avvicinò e cercò di fargli capire ch e il nuovo clima in cui doveva crescere la gioventù italiana, esigeva dagli insegnanti una partecipazione attiva nel formare anche i più piccoli all’amore e alla devozione verso la patria fascista. Il Bordigoni ascoltò, ora fissando attraverso le lenti il piccolo Cometta, ora guardandosi intorno con il suo sguardo che non vedeva nulla e sembrava rimandato indietro dalla concavità delle lenti a illuminargli la fronte. Ascoltò e non rispose. Dopo qualche mese il Cometta lo condusse dal professor Bistoletti, f iduciario del partito per la classe insegnante, perché l’esortazione si trasformasse in un ordine perentorio. Il Bistoletti se ne lavò le mani e lo rinviò al segretario politico. Il segretario politico, che era alto quanto il Bordigoni ma molto più giovane e magro come un chiodo, quando se lo vide davanti lo prese in simpatia e gli parlò bonariamente, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo fino a sfiorargli la pancia. “Camerata Bordigoni” gli disse “tu sei dei nostri. E lavorerai con noi, non sol o nella scuola, ma anche fuori. Domenica ti voglio qui in sede. Per me sei già iscritto al Partito”. Ma il Bordigoni la domenica dopo dimenticò di andare in sede e a scuola non gli venne mai in mente di parlare del fascismo che probabilmente non sapeva nep pure cosa fosse di preciso. Finirono col dimenticarsi di lui. Il segretario politico si giustificò dicendo che il Bordigoni, in divisa e camicia nera, sarebbe stato ridicolo e avrebbe dato un’idea sbagliata del fascismo che era una cosa dinamica, agile e soprattutto giovane. In verità sarebbe stato una caricatura; e fu la sua mole a salvarlo dai cortei, dai saluti romani, dagli alalà e dalle altre prescrizioni di quegli anni. Con tutta la libertà di cui disponeva, e col tempo che la scuola gli lasciava per molte ore del giorno e per tutti i mesi dell’estate, Anselmo Bordigoni poteva coltivare i suoi piaceri e incrementare i suoi guadagni mettendo a profitto due profonde conoscenze connaturate alla sua personalità: la pesca e la musica. La pesca per lui era f orse più un riposo e un capriccio che un espediente per integrare il suo salario di maestro elementare. Gli rendeva sì e no in un anno una cinquantina di pasti a base di agoni, persici e alborelle. La musica, invece, oltre ad essere la sua grande passione, gli serviva come mezzo di sussistenza. Dava lezione di qualunque strumento, generalmente di flauto, di clarinetto o di cornetta a operai o barbieri con buona inclinazione, e di pianoforte a qualche figlio di famiglia. Le sue lezioni erano una o due al gi orno; e le impartiva sul tardi, a pesca finita, diffondendo sulla chioma degli ippocastani, dalla finestra aperta, le note del piano o del clarinetto. Dopo cena, alle otto in punto, andava a sedersi al pianoforte del Cinema Tiraboschi, sotto il bianco telo ne, con la schiena rivolta al pubblico. Attaccava subito a suonare mentre la gente entrava ancora, e si fermava solo dopo il primo tempo. Insieme al riaccendersi delle immagini sullo schermo riprendeva la musica, per sostare brevemente negli intervalli fra un tempo e l’altro, fino alla farsa finale. Cosa suonasse, nessuno era in grado di dirlo; ed era opinione comune che egli pestasse sui tasti come veniva, ispirandosi in qualche modo alle scene che vedeva succedersi sul telone, se pur gli era possibile ved ere qualche cosa stando ai piedi della ribalta. ",8.0,multipla 569,"B2. In quale periodo storico si svolgono le vicende narrate nel testo? A. All'epoca del Risorgimento italiano B. Durante la prima guerra mondiale C. Negli anni tra le due guerre mondiali D. Nel secondo dopoguerra",C,multiple choice,415.0,['item_415_0.png'],2018_08_DR_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Balordo Idee politiche il maestro Bordigoni si procurava il piacere di non averne; e se ne aveva, si negava il piacere di manifestarle. Il fascismo a quei tempi badava solo a crescere e a fortificarsi; più tardi, verso il ’28 o il ’29, diventato esigente, si accorse del Bordigoni. Il maestro Cometta, fiduciario dell’Opera nazionale Balilla, un giorno lo avvicinò e cercò di fargli capire ch e il nuovo clima in cui doveva crescere la gioventù italiana, esigeva dagli insegnanti una partecipazione attiva nel formare anche i più piccoli all’amore e alla devozione verso la patria fascista. Il Bordigoni ascoltò, ora fissando attraverso le lenti il piccolo Cometta, ora guardandosi intorno con il suo sguardo che non vedeva nulla e sembrava rimandato indietro dalla concavità delle lenti a illuminargli la fronte. Ascoltò e non rispose. Dopo qualche mese il Cometta lo condusse dal professor Bistoletti, f iduciario del partito per la classe insegnante, perché l’esortazione si trasformasse in un ordine perentorio. Il Bistoletti se ne lavò le mani e lo rinviò al segretario politico. Il segretario politico, che era alto quanto il Bordigoni ma molto più giovane e magro come un chiodo, quando se lo vide davanti lo prese in simpatia e gli parlò bonariamente, mettendogli le mani sulle spalle e avvicinandolo fino a sfiorargli la pancia. “Camerata Bordigoni” gli disse “tu sei dei nostri. E lavorerai con noi, non sol o nella scuola, ma anche fuori. Domenica ti voglio qui in sede. Per me sei già iscritto al Partito”. Ma il Bordigoni la domenica dopo dimenticò di andare in sede e a scuola non gli venne mai in mente di parlare del fascismo che probabilmente non sapeva nep pure cosa fosse di preciso. Finirono col dimenticarsi di lui. Il segretario politico si giustificò dicendo che il Bordigoni, in divisa e camicia nera, sarebbe stato ridicolo e avrebbe dato un’idea sbagliata del fascismo che era una cosa dinamica, agile e soprattutto giovane. In verità sarebbe stato una caricatura; e fu la sua mole a salvarlo dai cortei, dai saluti romani, dagli alalà e dalle altre prescrizioni di quegli anni. Con tutta la libertà di cui disponeva, e col tempo che la scuola gli lasciava per molte ore del giorno e per tutti i mesi dell’estate, Anselmo Bordigoni poteva coltivare i suoi piaceri e incrementare i suoi guadagni mettendo a profitto due profonde conoscenze connaturate alla sua personalità: la pesca e la musica. La pesca per lui era f orse più un riposo e un capriccio che un espediente per integrare il suo salario di maestro elementare. Gli rendeva sì e no in un anno una cinquantina di pasti a base di agoni, persici e alborelle. La musica, invece, oltre ad essere la sua grande passione, gli serviva come mezzo di sussistenza. Dava lezione di qualunque strumento, generalmente di flauto, di clarinetto o di cornetta a operai o barbieri con buona inclinazione, e di pianoforte a qualche figlio di famiglia. Le sue lezioni erano una o due al gi orno; e le impartiva sul tardi, a pesca finita, diffondendo sulla chioma degli ippocastani, dalla finestra aperta, le note del piano o del clarinetto. Dopo cena, alle otto in punto, andava a sedersi al pianoforte del Cinema Tiraboschi, sotto il bianco telo ne, con la schiena rivolta al pubblico. Attaccava subito a suonare mentre la gente entrava ancora, e si fermava solo dopo il primo tempo. Insieme al riaccendersi delle immagini sullo schermo riprendeva la musica, per sostare brevemente negli intervalli fra un tempo e l’altro, fino alla farsa finale. Cosa suonasse, nessuno era in grado di dirlo; ed era opinione comune che egli pestasse sui tasti come veniva, ispirandosi in qualche modo alle scene che vedeva succedersi sul telone, se pur gli era possibile ved ere qualche cosa stando ai piedi della ribalta. ",8.0,multipla 570,"C1. Nella prima riga del testo si dice che Galileo è ""il padre della scienza moderna"" perché A. si è ispirato alle Sacre Scritture B. ha derivato le sue teorie dalle opere dei grandi filosofi dell'antichità C. la fama delle sue scoperte ha superato quella di Copernico e di Keplero D. ha inventato il metodo sperimentale",D,multiple choice,416.0,['item_416_0.png'],2018_08_DR_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalla filosofia naturale alla scienza Il padre della scienza moderna è lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564 -1642). Prima di lui altri studiosi come Copernico e Keplero, avevano fatto scoperte importanti, ma fu Galileo il primo ad accompagnare alle scoperte l’enunciazione dei principi del metodo scientifico, detto anche metodo sperimentale. In base a questo metodo le leggi della natura devono essere indagate per mezzo di esperimenti e verifiche e non dedotte dalle Sacre Scritture o dai testi dei grandi filosofi del passato. Se un’affermazione non può essere verificata con un esperimento, essa non può essere accettata. Il metodo sperimentale prevede 4 fasi: 1. osservazione del fenomeno; 2. formulazione di un’ipotesi; 3. verif ica sperimentale dell’ipotesi; 4. conclusioni: se l’ipotesi è confermata dagli esperimenti diventa una legge. Nel trattato Il Saggiatore Galileo sostiene la necessità per lo scienziato di imparare a leggere la “lingua matematica” in cui si esprime la na tura: “[l’universo]… non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Galileo Galilei avrebbe potuto essere un ottimo musicista come il padre Vincenzo e il fratello Michelangelo, invece divenne il padre della scienza moderna. Galileo fu un grande matematico, un inventore, uno sperimentatore, ma anche un fine liutista, un poeta e un critico letterario innamorato di Ariosto e del suo paladino Orlando. Galileo era ironico, gaudente, a tratti depresso, polemico, e anche vendicativo, detestava la regola accademica pisana di indossare la toga, e se voleva stroncare un avversario era capace di farlo con un poemetto satirico. Un “brutto carattere” diremmo oggi. Forse non sempre faceva davvero gli esperimenti che descriveva, come quelli sulla torre di Pisa; a volte descriveva risultati spe rimentali più accurati di quelli realmente ottenuti. La grandezza di Galileo non va per questo ridimensionata. Galileo resta colui che ci ha insegnato che la matematica è il linguaggio in cui è scritto il libro della natura, e che ci ha spiegato il legame tra necessarie dimostrazioni e sensate esperienze, cioè tra teoria ed esperimento. Galileo fu poi capace di richiamare l’attenzione dei contemporanei su alcuni problemi scientifici fondamentali, evidenziando le incongruenze del sistema di pensiero aristote lico. Per esempio le osservazioni di Galileo sulle irregolarità della superficie lunare, che facevano pensare alla presenza di un manto roccioso lunare, resero la Luna più simile alla Terra. Diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, il Satellite terr estre non era fatto di una speciale materia incorruttibile. Da quel momento non si poté più tener distinte le questioni celesti da quelle terrestri. Ciò che rende la fisica e in generale la scienza, così potente, è il fatto che una volta che abbiamo compiu to abbastanza esperimenti e misure siamo in grado di enunciare delle leggi; le leggi ci permettono di prevedere come si comportano anche oggetti che non possiamo osservare o non abbiamo ancora osservato. Possiamo prevedere con che velocità una mela cadrà a terra anche prima che si stacchi dall’albero, o quando passerà la prossima volta la cometa di Halley anche se al 2061 mancano ancora molti anni. Queste leggi sono espresse con equazioni matematiche: per dirla con le parole di Galileo, il grande libro dell ’Universo è scritto in lingua matematica. ",8.0,multipla 571,"F1. Indica in quale dei seguenti periodi il pronome ne si riferisce a un'intera frase. A. Ieri gli Azzurri hanno vinto sulla fortissima Spagna con quattro gol di scarto, e naturalmente ne parlano tutti B. Mio fratello ieri ha visto il film che ha vinto il festival di Berlino e me ne ha parlato molto bene C. Parla sempre di musica pop, ma secondo me non ne capisce proprio niente D. La professoressa dice che i libri della serie di Harry Potter sono molto divertenti, ma io non ne ho letto nessuno",A,multiple choice,421.0,['item_421_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 572,"F4. Leggi la seguente frase. “Maria ha ricevuto assieme a me il premio dell’amicizia” Solo una delle seguenti affermazioni è vera. Quale? A. Il soggetto si trova alla fine della frase B. Il soggetto non compie l'azione C. Il soggetto è sottinteso D. Il soggetto è un pronome personale",B,multiple choice,424.0,['item_424_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 573,"F5. Indica in quale delle seguenti coppie le due parole che le compongono sono formate da un verbo + un nome A. Doposcuola, soprabito B. Colabrodo, apripista C. Fermoposta, monopattino D. Pescecane, cassapanca",B,multiple choice,425.0,['item_425_0.png'],2018_08_DR_F,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 574,"A1. L’autore del testo si propone di A. descrivere i comportamenti delle persone negli scambi quotidiani, nelle comuni conversazioni e nell’uso delle parole B. narrare i momenti di una quotidiana conversazione tra persone che hanno comuni interessi e usano le stesse parole C. esprimere le sue idee sull’uso del telefono in una normale situazione di dialogo e sull’uso delle parole D. sostenere con argomentazioni le proprie idee sull’uso delle parole negli scambi comunicativi",D,multiple choice,428.0,['item_428_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 575,"A4. Con quale parola, vicina nel significato e coerente con il contesto, puoi sostituire la parola ""sentirete"" evidenziata nel testo? A. avvertirete B. proverete C. dimostrerete D. gusterete",A,multiple choice,431.0,['item_431_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 576,"A5. Con quale espressione, vicina nel significato e coerente con il contesto, puoi sostituire la parola ""tono"" evidenziata nel testo? A. tenore di vita B. tipo di carattere C. modo di parlare D. punto di vista",C,multiple choice,432.0,['item_432_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 577,"A6. Con quale espressione, vicina nel significato e coerente con il contesto, puoi sostituire l'espressione ""secondo con"" evidenziata nel testo? A. a prescindere da B. in opposizione a C. a imitazione di D. tenendo conto di",D,multiple choice,433.0,['item_433_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 578,"A7. Con quale espressione, vicina nel significato e coerente con il contesto, puoi sostituire l'espressione ""temporalità del momento"" evidenziata nel testo? A. circostanza puntuale B. situazione linguistica C. fugacità degli eventi D. condizionabilità emotiva",A,multiple choice,434.0,['item_434_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 579,"A8. Con quale espressione, vicina nel significato e coerente con il contesto, puoi sostituire l'espressione ""gioco che stiamo facendo"" evidenziata nel testo? A. scherzo che stiamo orchestrando B. interazione che stiamo avendo C. problema di cui stiamo discutendo D. azione fisica che stiamo compiendo",B,multiple choice,435.0,['item_435_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 580,"A9. Con quale espressione, vicina nel significato e coerente con il contesto, puoi sostituire l'espressione ""sul filo"" evidenziata nel testo? A. sulla indicazione B. sulla linea C. sull'intreccio D. sulla brevità",B,multiple choice,436.0,['item_436_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 581,"A10. L'autore usa prevalentemente la prima persona plurale per A. sottolineare che il significato delle parole diventa vero nella situazione reale B. dare solennità alle proprie affermazioni C. rivendicare un senso di appartenenza D. dire che il modo in cui usiamo le parole è qualcosa che riguarda tutti",D,multiple choice,437.0,['item_437_0.png'],2018_10_SIM_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del se nso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli al tri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, l inguaggio, secondo con chi parla e secondo l’argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. ",10.0,multipla 582,"B4. Nelle due esclamazioni (evidenziate nel testo) l’autore usa l’aggettivo “misterioso” per definire il mondo degli uccelli notturni e lo sguardo del gufo. Che cosa vuole sottolineare l’autore con questo aggettivo? A. Il fascino dell’inconoscibile B. La segretezza della vita degli animali notturni C. L’incanto che suscita l’oscurità della notte D. L’estraneità della natura selvaggia",A,multiple choice,441.0,['item_441_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,multipla 583,"B6. Nel testo il gufo è visto dall’autore come un “idolo”. Qual è il significato letterale della parola “idolo”? A. Animale mitologico B. Oggetto o immagine considerati divini C. Venerabile saggio D. Creatura capace di gesti eccezionali",B,multiple choice,443.0,['item_443_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,multipla 584,"B7. “lui [il gufo] era stato gettato in quello studio televisivo” (frase evidenziata nel testo). Con quale intendimento l’autore ha usato qui il verbo “gettare”? A. Sottolineare la violenza che il gufo ha dovuto subire in un luogo e in una situazione a lui estranei B. Mettere in evidenza l’indifferenza dei presentatori per la presenza fuori luogo di un gufo in uno studio televisivo C. Far capire che prima di entrare nello studio televisivo il gufo aveva provato a ribellarsi e quindi vi era stato portato a forza D. Mostrare insofferenza per l’eccessiva presenza di animali nelle trasmissioni televisive",A,multiple choice,444.0,['item_444_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,multipla 585,"B9. Il tono del testo diventa via via sempre più A. aggressivo B. ironico C. amaro D. rassegnato",C,multiple choice,446.0,['item_446_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,multipla 586,"B10. Con le due espressioni “senza un perché” e “chissà perché” (evidenziate nel testo) l’autore sottolinea e richiama? A. l’irrazionalità e la gratuità del destino di tutti gli esseri viventi B. l’incomprensibilità del mondo vuoto anche se luccicante della televisione C. lo sviluppo senza senso della storia degli uomini contrapposto alle leggi della Natura D. la strana e irreale avventura capitata a un bellissimo animale",A,multiple choice,447.0,['item_447_0.png'],2018_10_SIM_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo sus citò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa n ormalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. I due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile , con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua i mmobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecat i dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandol o mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmission e i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale - che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata - mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, pr ese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii i n me tutta l’umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. ",10.0,multipla 587,"C1. Il poeta riflette sulla contraddizione che ognuno, nel corso della vita, vive e sperimenta. I due termini della contraddizione sono ben evidenti nella poesia, chiaramente divisa in due parti. Dove cominciano e dove finiscono le due parti? A. La prima va dal verso 1 al verso 11; la seconda dal verso 12 al verso 15 B. La prima va dal verso 1 al verso 8; la seconda dal verso 9 al verso 15 C. La prima va dal verso 1 al verso 5; la seconda dal verso 6 al verso 15 D. La prima va dal verso 1 al verso 13; la seconda dal verso 14 al verso 15",A,multiple choice,448.0,['item_448_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 588,"C2. Secondo un mito classico il sole (il dio Febo) saliva col suo carro fino al punto più alto del cielo, cioè fino all’ora del mezzogiorno (meriggio). L’immagine metaforica “sulla via del meriggio” (verso 5) sta a indicare il percorso dei giovani verso A. gli anni più belli della giovinezza B. la ricerca della felicità C. il tempo della vecchiaia D. la pienezza della vita",D,multiple choice,449.0,['item_449_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 589,"C3. Il “la” del verso 8 a che cosa rimanda? A. Alla gioventù B. Alla via del meriggio C. Alla frusta D. Alla parabola",A,multiple choice,450.0,['item_450_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 590,"C4. “Parabola”, che fa da titolo alla poesia, è una parola polisemica, ha cioè diversi significati. Qui il termine è usato per indicare A. un racconto breve - qui tradotto in poesia - che trae dalla vita o dalla natura un insegnamento morale e anche religioso B. la traiettoria descritta da un corpo in movimento, con andamento iniziale in ascesa; tale linea, raggiunto il culmine, si volge decisamente in discesa C. un’antenna, per dire con una metafora che ciascuno di noi riceve dalla vita segnali che annunciano prima la maturità e poi la vecchiaia D. la linea ideale che sale e che, raggiunto il punto più alto, scende rapidamente; rappresenta il nostro sentire e vivere la vita",D,multiple choice,451.0,['item_451_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 591,"C5. Qual è il senso dei versi 6-8? A. Quando si è giovani ognuno freme e vuole realizzare i propri sogni e i propri progetti B. Da giovani si vuole che il tempo passi in fretta, e così lo si incalza con impazienza C. La giovinezza passa veloce come il carro lucente del sole nel cielo D. I giovani sono sempre impazienti e vorrebbero fare tutto subito perché temono il tempo che passa",B,multiple choice,452.0,['item_452_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 592,"C6. L’enjambement (o inarcatura) è un accorgimento retorico - proprio della poesia - che consiste nel completamento del senso di una frase o di una espressione nel verso successivo. Nella poesia ad esempio è presente A. tra i versi 2 e 3 B. tra i versi 5 e 6 C. tra i versi 8 e 9 D. tra i versi 13 e 14",A,multiple choice,453.0,['item_453_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 593,"C7. Qual è tra le seguenti la riscrittura dei versi 9-11 che meglio ne mantiene il senso? A. Quando si è giovani si sogna con troppa facilità. Così, quando arriva la vecchiaia, ci si accorge di avere tanto atteso e di aver atteso invano B. In gioventù si sbaglia spinti anche dalle illusioni che tali non sembrano. Il tempo non passa mai e le attese si fanno interminabili, ma i sogni sono a portata di mano C. Quando si è giovani si commettono errori e facilmente si cede alle illusioni. Eppure gli errori e le facili illusioni abbreviano il tempo e alleviano l’attesa D. In gioventù tutti sbagliano eppure il tempo ci aiuta illudendoci. Intanto gli anni passano lenti e i sogni non si realizzano nonostante i nostri sforzi",C,multiple choice,454.0,['item_454_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 594,"C8. Al verso 12 “vòlti” significa A. con il volto che guarda in avanti B. col pensiero volto all’indietro C.con gli occhi fissi su D. con lo sguardo rivolto verso",D,multiple choice,455.0,['item_455_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 595,"C10. Quale delle seguenti frasi è una parafrasi degli ultimi due versi: “Né il numerarli ha ormai nessun valore / in sì veloce moto.” ? A. Gli anni della vecchiaia che non contano più precipitano velocemente verso le tenebre B. Contare gli anni in vecchiaia, quando precipitano veloci, e provare a ricordarli uno per uno è un’impresa senza senso C. Gli anni veloci della vecchiaia ci impediscono di essere lucidi e presenti a noi stessi e non ci permettono di contarli D. Contare uno per uno gli ultimi anni della nostra vita che corrono precipitosi è l’ultima illusione che ci resta",B,multiple choice,457.0,['item_457_0.png'],2018_10_SIM_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l’attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all’ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. ",10.0,multipla 596,"D2. Roberto Denti afferma che la fame ebbe un ruolo determinante nella sconfitta del fascismo; infatti A. i cittadini che non partecipavano direttamente alla guerra dovevano comunque arrangiarsi per sopravvivere B. la popolazione civile aveva smesso di appoggiare il governo fascista incapace di far fronte ai bisogni primari della gente C. nella lotta politica il governo fascista si serviva della fame per indebolire gli oppositori e i resistenti D. per sfamare i bambini e i ragazzi, la popolazione era disposta ad andare a lavorare in Germania",B,multiple choice,459.0,['item_459_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,multipla 597,"D6. Nelle risposte di Roberto Denti alle domande, ciò che si dice nelle parentesi A. spiega un concetto non chiaro B. integra un’informazione C. ha funzione esortativa D. corregge un’imprecisione",B,multiple choice,463.0,['item_463_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,multipla 598,"D7. La domanda finale dell’intervista e la relativa risposta mirano soprattutto a A. raccontare le tragedie che coinvolgono i ragazzi nei conflitti del passato e del presente B. sottolineare la funzione della letteratura per ragazzi nell’educazione alla difesa dei diritti C. sostenere che il ruolo dei ragazzi nella Resistenza è stato fondamentale D. esprimere rammarico e pessimismo davanti al ripetersi delle guerre",B,multiple choice,464.0,['item_464_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,multipla 599,"D8. L’espressione “filo rosso” (evidenziata) nel contesto in cui è usata nel testo significa A. tema ricorrente B. legame necessario C. vincolo stringente D. confine insuperabile",A,multiple choice,465.0,['item_465_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,multipla 600,"D9. Secondo Roberto Denti, come è possibile smuovere “la beata indifferenza dei bambini europei” nei confronti della sofferenza dei loro coetanei nel mondo? A. Insegnando ai ragazzi la storia della Resistenza B. Intervistando i testimoni delle violazioni di diritti civili C. Con la diffusione di libri di contenuto civile per ragazzi D. Con documentari televisivi di argomento storico",C,multiple choice,466.0,['item_466_0.png'],2018_10_SIM_D,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66 , all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta . Quando, l’8 settembre 1943 , il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi , la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. Io credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o – dopo l’8 settembre del 1943 – a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l’appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. Io ero di famiglia e ambiente borghese: per me rito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai – senza ancora averlo letto sui libri – che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? R. La guerra non è un gioco. I ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “g randi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15 -16 anni), per bucare le gomme dei cami on e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi – pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” – presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con guerre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una fun zione sociale orientata alla difesa e all’affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sc onfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di c ombattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti arma ti. Il filo rosso c’è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizi e che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? ",10.0,multipla 601,"E2. Nella frase “È un secolo che non ti vedo!” è presente una figura retorica. Indica quale. A. Una metafora B. Una similitudine C. Una iperbole D. Una metonimia",C,multiple choice,468.0,['item_468_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 602,"E4. Leggi la frase che segue: “L’antennista ha controllato i collegamenti dell’antenna con il suo decoder portatile.” In questa frase antennista è un nome di genere maschile o femminile? A. È sicuramente maschile, perché controllato è di genere maschile B. È sicuramente femminile, perché la parola antennista termina in -a C. È sicuramente femminile perché la parola di base antenna è di genere femminile D. Non si può sapere, perché L’ può riferirsi sia a un nome maschile sia a un nome femminile ",D,multiple choice,470.0,['item_470_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 603,"E6. In quale di queste frasi sono presenti tutti gli argomenti del verbo (cioè gli elementi obbligatoriamente richiesti dal verbo)? A. A tutti noi dissero con molta chiarezza B. La signora prese dalla sua borsetta C. Questo problema vi riguarda tutti D. Molti dei partecipanti sono diventati",C,multiple choice,472.0,['item_472_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 604,"E8. Identifica la frase nella quale il soggetto (sottolineato) è anche agente, e dunque ‘compie l’azione’ espressa dal verbo. A. Al termine del colloquio Maria ha ricevuto i complimenti di tutta la commissione d’esame. B. Finalmente mio fratello e io siamo entrati in possesso della nostra eredità. C. Sulla linea del traguardo il ciclista è stato superato in volata dal più agguerrito dei concorrenti. D. Dopo gli applausi entusiasti del pubblico il pianista concesse un ultimo bis.",D,multiple choice,474.0,['item_474_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 605,"E9. Quale delle seguenti frasi, tutte con il verbo al congiuntivo, esprime un dubbio? A. E se lo volesse anche lui? B. Buongiorno, si accomodi qui! C. Magari trovassi un lavoro! D. Faccia pure con comodo.",A,multiple choice,475.0,['item_475_0.png'],2018_10_SIM_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 606,"A1. A chi appartiene la voce narrante? A. a Ettore B. a Omero C. Alla nutrice D. All'autore",C,multiple choice,477.0,['item_477_0.png'],2018_10_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pu bblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso , e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bron zo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strins e tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfi no più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tu tti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arriv are, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,multipla 607,"A2. Quale preghiera Ettore rivolge agli dei per il figlio quando sarà adulto? A. Che ricordi con rimpianto suo padre B. Che diventi un eroe più forte e glorioso di suo padre C. Che non debba mai diventare prigioniero del nemico D. Che possa vivere in un tempo di pace",B,multiple choice,478.0,['item_478_0.png'],2018_10_DR_A,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Ettore, Andromaca e il figlioletto alle Porte Scee L’autore procede a una riscrittura dell’Iliade per adattare il poema omerico a una lettura pu bblica in teatro. Nel testo, a differenza di Omero, l'autore affida alla nutrice il racconto dell’episodio dell’incontro di Ettore con la moglie e il figlio sulle mura di Troia, alle porte Scee, prima del duello con Achille. […] Così disse Ettore glorioso , e poi venne verso di me. Io tenevo suo figlio in braccio, capite? E lui si avvicinò e fece per prenderlo tra le sue mani. Ma il bambino si strinse al mio petto, scoppiando a piangere, lo aveva impaurito veder il padre, lo spaventavano quelle armi di bron zo, e il pennacchio sull’elmo, lo vedeva ondeggiare, spaventoso, e così scoppiò a piangere. E mi ricordo che allora Ettore e Andromaca si guardarono e sorrisero. Poi lui si tolse l’elmo e lo posò a terra. Allora il bambino si fece prendere, e lui lo strins e tra le sue braccia. E lo baciò. E sollevandolo in alto disse: “Zeus, e voi, divinità del cielo, fate che questo mio figlio sia come me, più forte tra tutti i Troiani, e signore di Ilio. Fate che la gente, vedendolo tornare dalla battaglia, dica: “È perfi no più forte di suo padre”. Fate che torni un giorno portando le spoglie insanguinate dei nemici, e fate che sua madre sia là, quel giorno, a gioire nel suo cuore”. E mentre diceva queste parole mise il figlio tra le braccia di Andromaca. E mi ricordo che lei sorrideva e piangeva, stringendosi al petto il suo bambino, piangeva e sorrideva: e guardandola Ettore ebbe pietà di lei, e la accarezzò, e le disse. “Non affliggerti troppo nel tuo cuore. Nessuno riuscirà ad uccidermi se non lo vorrà il destino; e se il destino lo vorrà, allora pensa che al destino nessun uomo, una volta che è nato, può sfuggire. Vile o coraggioso che sia. Nessuno. Ora torna a casa e rimettiti al lavoro, al fuso e al telaio, con le ancelle. Lascia che alla guerra pensino gli uomini, tu tti gli uomini di Ilio, e io più di ogni altro uomo di Ilio”. Poi si chinò e riprese l’elmo da terra, l’elmo dalla chioma ondeggiante. Noi tornammo a casa. Camminando, piangeva, Andromaca, e continuava a voltarsi indietro. Quando le ancelle la videro arriv are, in tutte loro suscitò una grande tristezza. Tutte scoppiarono in pianto. Piangevano Ettore, lo piangevano nella sua casa e lo piangevano mentre ancora era vivo. Perché nessuna pensava in cuor suo che vivo sarebbe tornato dalla battaglia. (Tratto da: A. Baricco, Omero, Iliade, Milano, Feltrinelli, 2004, pp.52-53) ",10.0,multipla 608,"B1. Le pagine custodite negli archivi sono definite ""preziose"" (parola evidenziata nel testo) perché A. Sono ricercate dagli antiquari B. Sono considerate delle rarità C. Conservano la memoria del paese D. Permettono di risalire all'origine dei fatti",C,multiple choice,480.0,['item_480_0.png'],2018_10_DR_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel ling uaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custod iscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimil a, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vi te, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi ra ccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di fo rmazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereo tipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controver sie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei frances cani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalis ti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati d agli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 609,"B2. Nel testo gli archivi sono detti ""Memoria palpabile del nostro passato"" perché A. Custodiscono documenti scritti che testimoniano quel che è stato B. Permettono di ricordare eventi tangibili C. Custodiscono vecchi testi che suscitano emozioni che vengono dal passato D. Sono edifici la cui vista richiama la nostra storia",A,multiple choice,481.0,['item_481_0.png'],2018_10_DR_B,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"“Ispirati dagli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti “Archiviare è uguale a dimenticare. Ecco cosa significa questo verbo nel ling uaggio comune, oggi. Eppure, gli archivi sono esattamente l'opposto”. Le parole di Andrea Camilleri, testimonial dell'evento “Ispirati dagli archivi 2016” dal 14 al 19 marzo in tutta Italia, aprono uno spiraglio di luce su quelle pagine preziose che custod iscono la storia del Paese e del suo patrimonio artistico e culturale. Spesso relegate al buio degli scaffali, a quello della segretezza di Stato o, più spesso, solo a quello dell'ignoranza. L'associazione nazionale archivisti italiani (ANAI) promuove una settimana di eventi in tutta Italia per non dimenticare la ricchezza del patrimonio archivistico del nostro Paese e sensibilizzare cittadini e istituzioni sull'importanza della sua tutela. Per alcuni di loro gli archivi pubblici dello Stato, circa ventimil a, sono già un bene prezioso, il principale strumento di lavoro e un luogo di inesauribile fascino: storici, giornalisti, ricercatori. L'invito ora è rivolto a tutti, perché gli archivi parlano di ciascuno, essendo la memoria di tutti. Secoli di sapere, vi te, storie. “Un'archivista una volta mi ha riferito lo stupore dei bambini di una scolaresca in visita nell'archivio del loro comune, che avevano timore reverenziale nei confronti di tutte quelle pergamene medievali. Le maestre dicevano 'Non toccate, mi ra ccomando.' Lei invece: 'Toccatele bambini, perché queste carte vi appartengono, fanno parte di voi e della vostra storia'”. A parlare è Augusto Cherchi, vicepresidente dell'ANAI, che ha lanciato il grido d'allarme per la mancanza di risorse, investimenti, politiche di fo rmazione. L'80% degli archivisti italiani ha tra i 55 e i 60 anni. “E non ne rimase nessuno”, con le parole di Agatha Christie, usate dalla stessa associazione per uno slogan di qualche tempo fa. È una sfida per loro, che devono scucirsi di dosso lo stereo tipo del “topo d'archivio in un seminterrato tra pagine impolverate e noiose”. “Abbiamo un account Twitter” continua Cherchi “vogliamo impegnarci nella comunicazione, anche se non siamo nativi digitali”. E comunicare che, ad esempio, ci sono gli archivisti liberi professionisti, che fanno i consulenti per le aziende. Quelli che si dedicano al progetto più ambizioso del mondo in termini di digitalizzazione di materiale audiovisivo e multimediale: le Teche Rai. Altri che diventano “mediatori del diritto” nei casi di richieste di oblio. “Quando sono stati pubblicati online i documenti degli iscritti al partito nazionale fascista, scaduti i 70 anni del segreto di Stato, ne abbiamo ricevute tante. Un documento pubblico, se pubblicato in rete, può creare controver sie”. Google fa paura. A chi sta dentro alle pagine e a chi le maneggia tutti i giorni, per lavoro, con amore. “Ci vuole fatica per sfogliare i documenti cartacei. Ma in fondo, quella parola che mettiamo nella stringa di Google ci restituisce solo il mondo di Google. Che non è il mondo”, ci tiene a precisare Cherchi. Quante risposte che Google non può darci sono racchiuse tra due fogli, a qualche centinaio di metri da casa, magari nell'archivio del nostro piccolo comune? È la settimana giusta per scoprirlo: saranno giorni di “archivi parlanti”, in una polifonia di mostre, proiezioni e incontri con i protagonisti di questo mondo ancora avvolto dal mistero […]. Si andrà alla scoperta della storia delle comunità religiose con i documenti dell'ordine dei frances cani messi a disposizione in Umbria o quelli sulle leggi razziali consultabili nell'archivio di stato di Milano; si ricorderanno i successi imprenditoriali del nostro Paese, con la Olivetti che apre il suo archivio storico a Ivrea. Adesioni e supporto sono arrivati anche dall'estero per questa iniziativa culturale che offre centinaia di eventi che uniscono nord, sud e isole e si concludono con una tavola rotonda il 19 marzo a Roma. Gli archivi sono l'opposto del dimenticare. “Sono eternamente vivi. Memoria palpabile del nostro passato”, ribadisce Camilleri. In un paese dove le stragi degli anni di piombo non hanno colpevoli e la trasparenza dell'Amministrazione pubblica è ancora una chimera, l'archivio resta l'ultima speranza di scrittori, storici, giornalis ti, ricercatori. E si fa studiare, proprio da un gruppo di ricercatori italiani a Londra, che hanno ricevuto un finanziamento ERC per approfondire la storia degli archivi italiani. Almeno quelli, per ora, non si muovono. (Tratto da: A. Borella, “Ispirati d agli archivi 2016”. Alla scoperta dei documenti che non ti aspetti, La Repubblica, Cultura, 4 aprile 2016) ",10.0,multipla 610,"C1. L'autore con l'espressione "" Non ci si può domandare"" (evidenziata nel testo) usa una doppia negazione per A. Sottolineare la necessità della domanda B. Evidenziare l'impossibilità di una risposta C. Richiamare l'opportunità di una domanda D. Avanzare un dubbio sulla risposta",A,multiple choice,483.0,['item_483_0.png'],2018_10_DR_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segret i Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetess a Isabella Morra (1520 -1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, no n lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita ne l rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo l a vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incol ti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio » scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno ». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della fa miglia» uccidendo quest'ultimo , poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non la scia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 611,"C2. Chi è per Isabella il simbolo dell'agognata libertà A. Carlo V B. Francesco I C. Il padre D. Il poeta spagnolo",D,multiple choice,484.0,['item_484_0.png'],2018_10_DR_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segret i Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetess a Isabella Morra (1520 -1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, no n lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita ne l rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo l a vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incol ti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio » scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno ». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della fa miglia» uccidendo quest'ultimo , poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non la scia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 612,"C3. Il testo è un articolo che si intitola ""La poetessa della libertà ora ha meno segreti"". Quale libertà sperimenta Isabella Morra? A. La libertà di incontrare artisti o poeti B. La libertà di avere un legame con il poeta Diego Sandoval C. La libertà di mettere in atto la fuga per raggiungere il padre D. La libertà di studiare e scrivere versi",D,multiple choice,485.0,['item_485_0.png'],2018_10_DR_C,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La poetessa della libertà ora ha meno segret i Il castello di Valsinni, in Basilicata, dove visse e venne uccisa la poetess a Isabella Morra (1520 -1546): le sue poesie vennero pubblicate per la prima volta nel 1552 Cupo e sinistro come 500 anni fa, il castello dove visse e fu trucidata la poetessa Isabella Morra domina tuttora la valle dall'alto del borgo antico di Valsinni, no n lontano da Matera. Non ci si può non domandare come la donna – aveva poco più di vent'anni quando i fratelli la ammazzarono nel 1546 a causa di un sospetto legame sentimentale con il poeta spagnolo e barone Diego Sandoval de Castro – non sia impazzita ne l rimanere prigioniera di questo claustrofobico maniero e sia riuscita invece a tradurre in versi struggenti il proprio disperato anelito di libertà. Il Iuogo si chiamava Favale e il feudo apparteneva ai baroni Morra. Nel 1528 il padre di Isabella, dopo l a vittoria della spagnolo Carlo V per il possesso della penisola e la sconfitta di Francesco I di Francia cui era alleato, emigra a Parigi. Isabella non lo rivedrà più e per lei, costretta a vivere in quel borgo isolato insieme con altri sei fratelli incol ti e brutali, diverrà il simbolo dell'agognata libertà. Potrà tuttavia studiare, poi comincerà a comporre versi petrarcheschi. Consapevole del proprio talento, sente l'esigenza di incontrare artisti e poeti, invece «son costretta a menar il viver mio/ qui posta da ciascuno in cieco oblio » scrive, «fra questi aspri costumi/ di gente irrazional, priva d'ingegno ». Architetta la fuga. I fratelli mal tollerano la superiorità morale e culturale della sorella, e in assenza del padre si sono arrogati il diritto di spiarne ogni mossa e controllarne la corrispondenza. Quando riescono a intercettare lettere e poesie che lei scambiava con Sandoval tramite il suo pedagogo, decidono di «salvare l'onore della fa miglia» uccidendo quest'ultimo , poi Isabella, infine Sandoval. La natura della relazione fra Diego e Isabella non sarà mai accertata, ma il canzoniere della Morra non la scia dubbi: le sue liriche non anelano all'amore ma alla libertà. La prima pubblicazione delle poesie è di Ludovico Dolce in Rime di diversi illustri signori napoletani nel 1552. Da allora, i suoi scritti sono stati ristampati e analizzati più volte, anche da Benedetto Croce. La sua tragica vicenda è divenuta leggenda: ha ispirato biografie, racconti, film e testi teatrali. La più recente ricerca d'archivio ha portato alla luce nuovi inediti particolari, cui ha attinto la studiosa lucana Gaetana Rossi, che proprio nel tempo che ha visto Matera eletta capitale europea della cultura in Stella Avversa non solo analizza il canzoniere della Morra, ma arricchisce con precisione minuziosa dettagli sconosciuti della sua vita. (Tratto da: G. Russo, La poetessa della libertà ora ha meno segreti, Corriere della Sera, 1 giugno 205) ",10.0,multipla 613,"E2. Nella frase ""Livia stava correndo nel parco, quando scoppiò un forte temporale"" come sono gli eventi indicati dai due verbi? A. Sono contemporanei e hanno la stessa durata B. Sono contemporanei e indicano azioni abituali C. Il primo evento interviene nel corso del secondo evento D. Il secondo evento interviene nel corso del primo evento",D,multiple choice,488.0,['item_488_0.png'],2018_10_DR_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 614,"E3. In quale delle seguenti frasi il si ha valore impersonale? A. Carlo e Lucia si vedono spesso B. In questo supermercato si spende poco C. In questa scuola si organizzano troppe feste D. Valeria si annoia sempre di tutto",B,multiple choice,489.0,['item_489_0.png'],2018_10_DR_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 615,"E4. Indica l'unica frase che contiene tutte le forme verbali corrette. A. Se lo avessi riconosciuto lo salutavo volentieri B. è meglio che mi telefonavi invece di scrivermi C. Se le nespole fosse mature le avrei raccolte D. è comprensibile che Luisa si sentisse offesa",D,multiple choice,490.0,['item_490_0.png'],2018_10_DR_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 616,"E5. Leggi le seguenti coppie di verbi: mangiare --> mangiucchiare, ridere --> ridacchiare, mordere --> mordicchiare, leggere --> leggiucchiare In ogni coppia c’è un verbo ed un suo derivato attraverso il suffisso a/u/icchiare, il quale conferisce al verbo di base un particolare significato. Quale dei seguenti tratti NON può essere attribuito al suffisso a/u/icchiare? A. Ripetitività dell'azione B. Saltuarietà dell'azione C. Imprecisione dell'azione D. Accuratezza dell'azione",D,multiple choice,491.0,['item_491_0.png'],2018_10_DR_E,1.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 617,"A1. La madre cambiava spesso maestre alla figlia perché la bambina A. Aveva un carattere difficile B. Era svogliata e lenta nell'apprendere C. Mostrava ostilità verso le maestre D. Era troppo vivace e indisciplinata",B,multiple choice,492.0,['item_492_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 618,"A2. Nella frase “quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto” (righe 8-9), la parola “esitazioni” significa A. Distrazioni B. Analisi C. Incertezze D. Discussioni",C,multiple choice,493.0,['item_493_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 619,"A3. La parola “Comunque” alla riga 10 può essere sostituita con A. Quindi B. Allora C. Difatti D. Tuttavia",D,multiple choice,494.0,['item_494_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 620,"A4. Il “ginasio” era A. La scuola preferita dalla mamma della protagonista B. La scuola dove la protagonista aveva frequentato le elementari C. La scuola dove la protagonista aveva conseguito la licenza elementare D. La scuola che la maestra Tedem aveva consigliato alla protagonista",C,multiple choice,495.0,['item_495_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 621,"A5. Nella frase “quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato” (righe 19-20), il termine “quando” ha un valore A. avversativo, mette in contrapposizione ciò che si dice con quanto detto prima B. esplicativo, introduce una spiegazione di quanto detto prima C. temporale: colloca l'azione in un tempo futuro rispetto a quanto detto prima D. conclusivo: introduce la conclusione di quanto detto prima",A,multiple choice,496.0,['item_496_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 622,"A6. Con l’uso ripetuto di espressioni in forma negativa riferite a se stessa (righe 16-17, 26, 29-30) la narratrice-protagonista intende A. evidenziare la sua frustrazione per la solitudine in cui viveva B. elencare i difetti per cui le altre bambine la prendevano in giro C. sottolineare la pessima immagine che si era fatta di sé stessa D. dare di sé stessa un'immagine da intellettuale senza senso pratico",C,multiple choice,497.0,['item_497_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 623,"A10. Perché di fronte alle sfuriate del padre la protagonista fa “un sorriso largo e stupido” (riga 45)? A. perché preferisce apparire sciocca agli occhi del padre piuttosto che provare una lite tra i genitori B. perché vuole nascondere con il sorriso la violenza con cui è tentata di reagire alla sfuriata del padre C. perché ha paura del padre ma al tempo stesso rifiuta questo sentimenti di cui si vergogna D. perché tema che le bugie dette al padre siano scoperte e vengano duramente punite da lui",C,multiple choice,501.0,['item_501_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 624,"A14. L’espressione “perdere il lume degli occhi” (righe 62-63) significa A. arrabbiarsi moltissimo B. perdere la vista C. spazientirsi in fretta D. ritrovarsi al buio",A,multiple choice,505.0,['item_505_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 625,"A15. Quando legge romanzi, la protagonista prova “un vago senso di colpa” (riga 66) perché A. trascura i compiti di matematica per dedicarsi alle letture che ama B. gode di una opportunità che le altre bambine non hanno C. è consapevole di comportarsi in un modo che il padre disapprova D. sa di essere un impiastro per la famiglia",C,multiple choice,506.0,['item_506_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 626,"A19. Perché la protagonista non dice al padre che va a scuola da sola? A. perché sarebbe nato violento litigio tra i genitori in cui anche lei sarebbe rimasta coinvolta B. perché teme di perdere quel poco di libertà che la possibilità di andare a scuola da sola le dava C. perché pensa che la bugia della madre sarebbe stata sicuramente scoperta dal padre D. perché l'idea di ingannare il padre la fa sentire solidale con la madre",A,multiple choice,510.0,['item_510_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 627,"A20. Il testo che hai letto è un testo a carattere A. saggistico B. autobiografico C. biografico D. epistolare",B,multiple choice,511.0,['item_511_0.png'],2017_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IO E LA SCUOLA A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola sola. Questa notizia mi colmò di sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un sorriso largo e falso, perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di tacere e sorridere quando sentivo in me dei sentimenti che mi sembravano vili. Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo fatto le elementari in casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso cambiava, perché ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse. L’ultima era una giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io dopo lunghe esitazioni le rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo non riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato fra i denti. Comunque grazie alla maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare. Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al ginasio»: pronunciava questa parola con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami: e siccome era vicinissimo a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo smettere di essere quello che ero, e cioè un «impiastro». Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi da sola, né allacciarmi le scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non sapevo lavorare a maglia, benché più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza; ero inoltre assai disordinata e lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre, «venti servitori»; quando c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato, stiravano e cucinavano intieri pranzi. Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando a scuola sola. Ormai ero un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero un impiastro per sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva tirato su male e m’aveva viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non mia: ma questo non mi consolava del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che stiravano e rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano con la chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano distanze sconfinate e senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata: non ero sportiva, non ero studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo avendolo sentito ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia. Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva accompagnare la donna di servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai niente da fare». «Guai a te se la mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre gli aveva assicurato che m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne accorsi. Sapevo che a mio padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché lui aveva, come ripeteva sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie servivano a dare a noi tutti un po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti. Io però mi ero accorta che le bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità di durata; ma le bugie che gli diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità, e si estinguevano nello spazio d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente perché non avevo il coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura. Se accadeva che mi chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non capiva e urlava che non aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e le mie parole, nella voce di mia madre, mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso che s’apriva sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna d’aver paura. Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non mi accompagnava nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre con la furia d’una bufera: e io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di più al mondo. Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata assai dolce. Era certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria. Mi alzavo tardi, e facevo bagni lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva che io facessi il bagno freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con un pezzo di pane mi mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte che fra le grandi sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di non lavorare più nel suo istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio; ma portasse invece la sua roba a casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora tutte le cose che io facevo al mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato leggendo e per terra. Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava, avendo, come spesso dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece gli studi d’un mio fratello, maggiore di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente», cosa che a lui faceva «perdere il lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io «non capivo l’aritmetica», ma questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in generale contro «la poltroneria»; e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo, mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con profondo piacere. Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti e la testa confusa; sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati. S’arrabbiava e mi sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio padre, le sgridate della maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello di feltro, le sue perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me dal suo chignon puntato con forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che assomigliava alla borsa di mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte aggrottata, le sue lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia arruffate e ricciute, la sua torva spazzola rossa. Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato da poco a leggere l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che ora fosse. Adesso, quando mi alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia che avevo sul comodino, e un poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada, proprio dirimpetto alla mia finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era riempita a poco a poco di cose che odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile e gettavo uno sguardo sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio illuminato da un fioco lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso mia madre. Avrei potuto rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento. Sarebbero scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta. La bugia di mia madre, sulla donna di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una delle sue rare bugie dotate di forza vitale. (Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) ",8.0,multipla 628,"B2. Perché la bambina ripresa nel video si trova in una situazione di transizione? A. perché nella prima infanzia ogni bambino attraversa un periodo di passaggio dalle immagini alle parole scritte B. perché la generazione della bambina si trova in una fase di passaggio tra due modalità di lettura C. perché la bambina passa dall'iPad alle riviste cartacee D. perché la bambina sfoglia la rivista come se fosse un iPad",B,multiple choice,513.0,['item_513_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,multipla 629,"B5. Il verbo “barcolliamo” nella frase “mentre barcolliamo … verso l’era della lettura digitale” (righe 23-24) ha un valore figurato e significa A. ci avviamo senza preparazione B. siamo spinti contro la nostra volontà C. procediamo sicuri delle nostre conoscenze D. avanziamo tra dubbi e incertezze",D,multiple choice,516.0,['item_516_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,multipla 630,"B10. L’espressione “fare un’analogia” a riga 55 significa A. fare una citazione B. fare una previsione C. fare un paragone D. fare una analisi",C,multiple choice,521.0,['item_521_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,multipla 631,"B11. Perché nel testo ci sono diversi termini in lingua inglese? A. perché indicano prodotti utilizzati prevalentemente nei Paesi dove si parla l'inglese B. perché l'uso di termini in lingua inglese è una moda diffusa tra i giovani C. perché il lessico della lingua italiana è meno ricco di quello della lingua inglese D. perché indicano tecnologie sviluppate originariamente negli Stati Uniti",D,multiple choice,522.0,['item_522_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,multipla 632,"B12. Quale conclusione può trarre il lettore da questo testo? A. la lettura mediante dispositivi digitali non può sostituire in ogni occasione la lettura su carta B. l'uso di dispositivi digitali favorisce l'apprendimento della lettura e della scrittura nei bambini C. iPad e tablet facilitano la lettura e così favoriscono la diffusione della cultura D. i giovani preferiscono la lettura su schermo, gli anziani quella su carta",A,multiple choice,523.0,['item_523_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,multipla 633,"B13. Il testo è intitolato “Carta contro pixel”. Quale altro titolo sarebbe adatto per sintetizzare il senso del testo? A. abbasso la carta, avanti i pixel! B. nuove tecnologie: la lettura prende il volo C. non buttiamo a mare il vecchio per il nuovo D. carta o schermo? Non c'è differenza",C,multiple choice,524.0,['item_524_0.png'],2017_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Carta contro pixel Uno dei video virali più provocatori caricati su YouTube negli ultimi due anni mostra una bambina di un anno che gioca con un iPad, passando le dita sullo schermo e rimescolando le icone. Nelle scene successive la vediamo «pizzicare» e cercare di far scorrere anche le pagine di una rivista cartacea. Pensa che possano comportarsi come uno schermo. Il video sottolinea i suoi gesti inquadrandoli da vicino. Secondo il padre della bambina, che ha intitolato il filmato «Una rivista è un iPad che non funziona», le immagini dimostrano la transizione che vive la generazione di sua figlia. Nella descrizione aggiunge: «Ormai le riviste sono inutili e incomprensibili per i nativi digitali», cioè le persone che hanno imparato a interagire con le tecnologie digitali fin dalla prima infanzia e che crescono in un mondo in cui libri e giornali convivono con smartphone, e-reader e iPad. Il video fa emergere una domanda interessante: in che modo la tecnologia cambia la lettura? La maggior parte degli studi pubblicati su questo tema ci dice che, come mezzo per la lettura, la carta continua a offrire vantaggi rispetto allo schermo. Esperimenti di laboratorio, sondaggi e rapporti sulle abitudini dei consumatori indicano che gli apparecchi digitali impediscono una navigazione efficiente dei testi lunghi, il che incide negativamente sulle capacità di comprensione. Gli schermi rendono anche più difficile ricordare che cosa abbiamo letto una volta arrivati alla fine. Inoltre gli e-reader non sono in grado di riproporre le sensazioni tattili tipiche della lettura su carta, di cui alcuni sentono la mancanza. «La lettura ha una sua dimensione fisica», dice Maryanne Wolf, professoressa della Tufts University nota per la sua attività di ricerca nel campo delle scienze cognitive. «Può essere un aspetto più importante di quanto ci piaccia ammettere, mentre barcolliamo, forse senza le dovute riflessioni, verso l’era della lettura digitale. L’ideale sarebbe conservare il meglio delle vecchie forme di lettura, ma sapere quando è il caso di usare quelle nuove». Per capire le differenze tra lettura su carta e su schermo è necessario spiegare come il cervello umano interpreti la lingua scritta. Sebbene lettere e parole siano simboli che rappresentano suoni e idee, il nostro cervello le considera anche come oggetti fisici. Quando impariamo a leggere e a scrivere iniziamo a riconoscere le lettere in base a linee, curve e spazi vuoti: un processo di apprendimento che richiede l’uso sia degli occhi sia delle mani. Uno studio recente, effettuato da Karin James, dell’Università dell’Indiana a Bloomington, ha mostrato che nei bambini di cinque anni i circuiti cerebrali dedicati alla lettura si attivano quando provano a scrivere lettere a mano, ma non quando premono i corrispondenti tasti su una tastiera. Oltre a trattare le lettere come oggetti fisici, è possibile che il cervello percepisca il testo nella sua interezza come una specie di paesaggio materiale. Quando leggiamo costruiamo una rappresentazione mentale del testo, simile, secondo alcuni ricercatori, alle mappe mentali che creiamo per il territorio che ci circonda. Varie prove e studi dimostrano che quando le persone cercano di ritrovare una frase o una scena in un libro spesso ricordano la posizione nella pagina in cui le hanno lette la prima volta. Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, i libri cartacei hanno una topografia più chiara dei testi su uno schermo. Un tascabile aperto ci presenta due domini ben definiti – la pagina sinistra da una parte e quella destra dall’altra – con otto angoli grazie ai quali ci possiamo orientare. Siamo in grado di concentrarci su una singola pagina senza perdere di vista il testo nella sua interezza, e possiamo percepire con le mani lo spessore delle pagine che abbiamo già letto, a sinistra, e di quelle che ci restano da leggere, a destra. Girare le pagine è come lasciare un’impronta dopo l’altra lungo un cammino: è un’azione che ha un certo ritmo e lascia una testimonianza visibile di quanta strada abbiamo fatto. Tutto ciò rende il libro cartaceo più facile da “navigare”, e ci aiuta a crearcene una mappa mentale coerente. Al contrario, la maggior parte dei dispositivi digitali interferisce con la navigazione intuitiva di un testo e ci impedisce di mappare il percorso seguito dalla nostra mente. Chi legge un testo in formato digitale può scorrere con il mouse un flusso di parole senza alcuna interruzione, passare alla pagina successiva con un tocco e sfruttare la funzione di ricerca per individuare al volo una particolare frase. Ma avrà difficoltà a cercare all’interno del testo una scena che ricorda vagamente. Per fare un’analogia, immaginate che cosa succederebbe se Google Maps ci permettesse di percorrere ogni singola via di una città ma non di allargare la prospettiva per vedere la mappa di un intero quartiere. Sebbene gli e-reader e i tablet riproducano l’impaginazione dei libri – a volte con tanto di numeri di pagina, testatine e illustrazioni – uno schermo mostra solo una o due pagine virtuali per volta. Appena passiamo oltre, quelle pagine diventano invisibili. È come se invece di guardarci intorno, mentre ci arrampichiamo su per un sentiero di montagna, vedessimo alberi, pietre e muschi passarci a fianco in una serie di scatti, senza traccia di quello che abbiamo superato e senza alcuna possibilità di vedere ciò che si prospetta più avanti. (Tratto e adattato da: Ferris Jabr, Carta contro pixel, in “Le Scienze”, Gennaio 2014) ",8.0,multipla 634,"C2. In quale delle seguenti frasi la parola sottolineata ha la funzione di avverbio? A. ? Vorrei sapere quanti ragazzi verranno alla festa. B. ? Quello è il mio libro. C. ? Alcuni non hanno capito il problema. D. ? Questa storia mi piace poco.",D,multiple choice,526.0,['item_526_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 635,"C3. Osserva le seguenti coppie di parole composte e indica in quale di esse le due parole sono formate da una preposizione + un nome. A. ? scolapasta, crocevia B. ? cartapesta, camposanto C. ? agrodolce, verdeazzurro D. ? dopoguerra, sottaceto",D,multiple choice,527.0,['item_527_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 636,"C7. In quale delle seguenti frasi la parola sottolineata introduce una interrogativa indiretta? A. ? Non so se arriveremo in tempo. B. ? Non se ne sono nemmeno accorti. C. ? Accetto la proposta senza se e senza ma. D. ? Se sapesse che cosa fare lo farebbe.",A,multiple choice,531.0,['item_531_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 637,"C8. In quale delle seguenti frasi c’è una espressione polirematica (cioè un gruppo di parole con un significato unitario, ad es.: asilo nido, vasca da bagno)? A. ? La ruota della bicicletta era deformata e allora l’ho sostituita con una nuova. B. ? Ieri durante la cena a casa di amici è arrivato all’improvviso mio cugino Francesco. C. ? Guarda che le decisioni sulle vacanze dobbiamo prenderle assieme! D. ? A Carnevale le strade si colorano di stelle filanti e di coriandoli.",D,multiple choice,532.0,['item_532_0.png'],2017_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 638,"A1. L’autore del testo si propone di A. descrivere i comportamenti delle persone negli scambi quotidiani, nelle comuni conversazioni e nell'uso delle parole B. narrare i momenti di una quotidiana conversazione tra persone che hanno comuni interessi e usano le stesse parole C. esprimere le sue idee sull'uso del telefono in una normale situazione di dialogo e sull'uso delle parole D. sostenere con argomentazioni le proprie idee sull'uso delle parole negli scambi comunicativi",D,multiple choice,535.0,['item_535_0.png'],2017_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del senso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli altri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, linguaggio, secondo con chi parla e secondo l'argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. (Tratto da: Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, Macerata, Quodlibet, 2011) ",10.0,multipla 639,"A5. L’autore usa prevalentemente la prima persona plurale per A. sottolineare che il significato delle parole diventa vero nella situazione reale B. dare solennità alle proprie affermazioni C. rivendicare un senso di appartenenza D. dire che il modo in cui usiamo le parole è qualcosa che riguarda tutti",D,multiple choice,539.0,['item_539_0.png'],2017_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L'USO DELLE PAROLE Noi usiamo le parole in tanti modi diversi; le parole hanno tanti usi diversi secondo le circostanze in cui parliamo e le conversazioni che facciamo. Ma questo noi lo diamo per scontato, perché fa parte delle nostre capacità di fondo, ossia fa parte del senso comune. E noi tutti sappiamo usare le parole in tanti modi diversi, con toni e sottintesi diversi, per ottenere risposte diversissime. Detto in altre parole: il senso comune è tutto quel tessuto di piccole competenze che ci serve a dialogare con gli altri, per cui noi e gli altri ci intendiamo nel dare senso al mondo. In questo modo, e solo partendo da qui, riesco a pensare a cosa si potrebbe intendere con la parola narrazione. Ascoltate uno che parla al telefono e sentirete come cambia tono, accento, linguaggio, secondo con chi parla e secondo l'argomento di cui parla. Con questo voglio dire che raramente ci rendiamo conto di come il nostro uso delle parole sia legato alla temporalità del momento: cioè è legato al momento in cui siamo, al tipo di gioco che stiamo facendo con qualcun altro, e che cambia sempre sul filo del tempo. (Tratto da: Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, Macerata, Quodlibet, 2011) ",10.0,multipla 640,"B4. Nelle due esclamazioni di riga 1 e di riga 23 l’autore usa l’aggettivo “misterioso” per definire il mondo degli uccelli notturni e lo sguardo del gufo. Che cosa vuole sottolineare l’autore con questo aggettivo? A. il fascino dell'inconoscibile B. la segretezza della vita degli animali notturni C. l'incanto che suscita l'oscurità della notte D. l'estraneità della natura selvaggia",A,multiple choice,543.0,['item_543_0.png'],2017_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011) ",10.0,multipla 641,"B6. Alla riga 15 il gufo è visto dall’autore come un “idolo”. Qual è il significato letterale della parola “idolo”? A. animale mitologico B. oggetto o immagine considerati divini C. venerabile saggio D. creatura capace di gesti eccezionali",B,multiple choice,545.0,['item_545_0.png'],2017_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011) ",10.0,multipla 642,"B7. “lui [il gufo] era stato gettato in quello studio televisivo” (righe 26-27). Con quale intendimento l’autore ha usato qui il verbo “gettare”? A. sottolineare la violenza che il gufo ha dovuto subire in un luogo e in una situazione a lui estranei B. mettere in evidenza l'indifferenza dei presentatori per la presenza fuori luogo di un gufo in uno studio televisivo C. far capire che prima di entrare nello studio televisivo il gufo aveva provato a ribellarsi e quindi vi era stato portato a forza D. mostrare insofferenza per l'eccessiva presenza di animali nelle trasmissioni televisive",A,multiple choice,546.0,['item_546_0.png'],2017_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011) ",10.0,multipla 643,"B10. Con le due espressioni “senza un perché” (riga 26) e “chissà perché” (riga 40) l’autore sottolinea e richiama A. l'irrazionalità e la gratuità del destino di tutti gli esseri viventi B. l'incomprensibilità del mondo vuoto anche se luccicante della televisione C. lo sviluppo senza senso della storia degli uomini contrapposto alle leggi della natura D. la strana e irreale avventura capitata a un bellissimo animale",A,multiple choice,548.0,['item_548_0.png'],2017_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"SUA MAESTÀ IL GUFO ACCECATO DALLE LUCI Come sono misteriosi gli uccelli notturni, i gufi, le civette, i barbagianni! Il gufo reale è uno dei più grandi e merita veramente il suo nome. È sempre difficile avvistarlo. Una sera d’estate, nella casa di campagna, ne ho visto uno volare dal tetto verso gli alberi vicini. Mi sembrò un fantasma familiare, una creatura arrivata dal mondo oscuro della Natura, ma benevola, che portava con sé qualcosa di ignoto. Il suo arrivo suscitò in me sorpresa e meraviglia. Sentii il fruscio delle sue grandi ali, poi vidi nel buio il folto piumaggio, e non diversa da quella di un nume fu la sua apparizione. Pochi momenti ed era già sparito. Raramente la sua maestà si lascia ammirare in tutta la sua piumata bellezza. In un’altra sera, una sera in città, ho visto un gufo reale esposto su un trespolo in una trasmissione televisiva. Era una di quelle trasmissioni culturali che vanno in onda dopo la mezzanotte, e la presenza del gufo, simbolo di saggezza, era come una sigla che voleva dire: trasmissione notturna, o forse culturale. Stava lì nello studio mentre i due presentatori parlavano di Bisanzio, una civiltà dove raffinatezza e crudeltà andavano di pari passo, e accecare un nemico era cosa normalmente praticata, per asservirlo o per renderlo innocuo. | due presentatori parlavano, e dietro di loro sul trespolo, come un idolo, assolutamente immobile, con la testa eretta stava il gufo reale, accecato dalle luci dello studio. Sentivo che la sua immobilità nasceva proprio dalla sua intolleranza per la luce, ed era l’immobilità che assumono certi animali di fronte a un nemico inevitabile e invincibile. Non riuscivo a seguire le parole dei presentatori che parlavano di migliaia di prigionieri accecati dopo una battaglia vinta dai bizantini, perché ero distratto e come ipnotizzato dagli occhi splendenti del gufo. Due occhi grandissimi, due biglie di vetro luminose e trasparenti, di un colore topazio con in mezzo un puntolino nero. E com’era veramente regale quell’uccello, con che dignità stava su quel trespolo, come su un trono. E com’era misteriosa la fissità del suo sguardo! Stava lì, in quel luogo così diverso dai suoi ascosi rifugi notturni e totalmente a lui estraneo, e io in quel momento guardandolo mi sorpresi a pensare a tutte le creature, uomini e animali e uccelli, gettate senza un perché su questa terra, come lui era stato gettato in quello studio televisivo. Mentre il gufo reale immobile sul trespolo teneva per tutto il tempo della trasmissione i suoi grandi occhi luminosi sbarrati sul nulla come quelli dei ciechi, i due presentatori parlavano di Bisanzio, e la crudeltà di cui parlavano, forse a causa di quel gufo accecato dalle luci, mi sembrò più mostruosa e terribile, e perfino la parola, la parola «crudeltà», mi sembrò talmente intollerabile da non poterla sentire nemmeno pronunciare. Mi trasmetteva, sapendo a cosa si riferiva, un malessere fisico. Volevo che tutto finisse al più presto, e avevo già preso il telecomando per spegnere, quando la trasmissione finì. Il padrone del gufo reale — che presumibilmente era stato dato in affitto per quella serata — mentre sgombravano lo studio dall’arredo di scena, si avvicinò al trespolo, e senza tanti riguardi, come chi ha fretta e deve spicciarsi, prese quel nobile e fiero figlio della Natura per i piedi, che aveva grandi e unghiuti e possenti, da predatore notturno, e come fosse un pollo qualsiasi da portare al mercato se lo portò via. Mentre veniva così trascinato penzoloni, a testa in giù, sentii in me tutta l'umiliazione cui era stato sottoposto e pensai ai suoi grandi occhi splendenti, aperti sul mondo assurdo dove chissà perché era precipitato. {Tratto e adattato da: Raffaele La Capria, Corriere della Sera, 30 novembre 2011) ",10.0,multipla 644,"C1. Il poeta riflette sulla contraddizione che ognuno, nel corso della vita, vive e sperimenta. I due termini della contraddizione sono ben evidenti nella poesia, chiaramente divisa in due parti. Dove cominciano e dove finiscono le due parti? A. La prima va dal verso 1 al verso 11; la seconda dal verso 12 al verso 15 B. La prima va dal verso 1 al verso 8; la seconda dal verso 9 al verso 15 C. La prima va dal verso 1 al verso 5; la seconda dal verso 6 al verso 15 D. La prima va dal verso 1 al verso 13; la seconda dal verso 14 al verso 15",A,multiple choice,549.0,['item_549_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 645,"C2. Secondo un mito classico il sole (il dio Febo) saliva col suo carro fino al punto più alto del cielo, cioè fino all’ora del mezzogiorno (meriggio). L’immagine metaforica “sulla via del meriggio” (verso 5) sta a indicare il percorso dei giovani verso A. gli anni più belli della giovinezza B. la ricerca della felicità C. il tempo della vecchiaia D. la pienezza della vita",D,multiple choice,550.0,['item_550_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 646,"C3. Il “la” del verso 8 a che cosa rimanda? A. alla gioventù B. alla via del meriggio C. alla frusta D. alla parabola",A,multiple choice,551.0,['item_551_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 647,"C4. “Parabola”, che fa da titolo alla poesia, è una parola polisemica, ha cioè diversi significati. Qui il termine è usato per indicare A. un racconto breve - qui tradotto in poesia - che trae dalla vita o dalla natura un insegnamento morale e anche religioso B. la traiettoria descritta da un corpo in movimento, con andamento iniziale in ascesa; tale, linea, raggiunto il culmine, si volge decisamente in discesa C. un'antenna, per dire con una metafora che ciascuno di noi riceve dalla vita segnali che annunciano prima la maturità e poi la vecchiaia D. la linea ideale che sale e che, raggiunto il punto più alto, scende rapidamente, rappresenta il nostro sentire e vivere la vita",D,multiple choice,552.0,['item_552_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 648,"C5. Qual è il senso dei versi 6-8? A, quando si è giovani ognuno freme e vuole realizzare i propri sogni e i propri progetti B. da giovani si vuole che il tempo passi in fretta, e così lo si incalza con impazienza C. la giovinezza passa veloce come il carro lucente del sole nel cielo D. i giovani sono sempre impazienti e vorrebbero fare tutto subito perché temono il tempo che passa",B,multiple choice,553.0,['item_553_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 649,"C6. L’enjambement (o inarcatura) è un accorgimento retorico - proprio della poesia - che consiste nel completamento del senso di una frase o di una espressione nel verso successivo. Nella poesia ad esempio è presente A. tra i versi 2 e 3 B. tra i versi 5 e 6 C. tra i versi 8 e 9 D. tra i versi 13 e 14",A,multiple choice,554.0,['item_554_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 650,"C7. Qual è tra le seguenti la riscrittura dei versi 9-11 che meglio ne mantiene il senso? A. quando si è giovani si sogna con troppa facilità. Così, quando arriva la vecchiaia, ci si accorge di avere tanto atteso e di aver atteso invano B. in gioventù si sbaglia spinti anche dalle illusioni che tali non sembrano. Il tempo non passa mai e le attese si fanno interminabili, ma i sogni sono a portata di mano C. quando si è giovani si commettono errori e facilmente si cede alle illusioni. Eppure gli errori e le facili illusioni abbreviano il tempo e alleviano l'attesa D. in gioventù tutti sbagliano eppure il tempo ci aiuta illudendoci. Intanto gli anni passano lenti e i sogni non si realizzano nonostante i nostri sforzi",C,multiple choice,555.0,['item_555_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 651,"C8. Al verso 12 “vòlti” significa A. con il volto che guarda in avanti B. col pensiero volto all’indietro C. con gli occhi fissi su D. con lo sguardo rivolto verso ",D,multiple choice,556.0,['item_556_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 652,"C10. Quale delle seguenti frasi è una parafrasi degli ultimi due versi: “Né il numerarli ha ormai nessun valore / in sì veloce moto.”? A. gli anni della vecchiaia che non contano più precipitano velocemente verso le tenebre B. contare gli anni in vecchiaia, quando precipitano veloci, e provare a ricordarli uno per uno è un'impresa senza senso C. gli anni veloci della vecchiaia ci impediscono di essere lucidi e presenti a noi stessi e non ci permettono di contarli D. contare uno per uno gli ultimi anni della nostra vita che corrono precipitosi è l'ultima illusione che ci resta",B,multiple choice,557.0,['item_557_0.png'],2017_10_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Parabola di Vincenzo Cardarelli Anni di giovinezza grandi e pieni! Mattini lenti, faticoso ascendere di gioventù che avanza come il carro del sole sulla via del meriggio. A colpi di frusta, con grida eccitanti, noi la sproniamo a passare. Ed illusioni, errori, non sono allora che stimoli al tempo e una maniera d’ingannar l'attesa. Giunti che siamo al sommo, vòlti all'ombra, gli anni van giù rovinosi in pendio. Né il numerarli ha ormai nessun valore in sì veloce moto. (Tratto da: Giovanni Raboni, Poesia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni Editore, 1981) ",10.0,multipla 653,"D2. Roberto Denti afferma che la fame ebbe un ruolo determinante nella sconfitta del fascismo; infatti A. i cittadini che non partecipavano direttamente alla guerra dovevano comunque arrangiarsi per sopravvivere B. la popolazione civile che aveva smesso di appoggiare il governo fascista incapace di far fronte ai bisogni primari della gente C. nella lotta politica il governo fascista si serviva della fame per indebolire gli oppositori e i resistenti D. per sfamare i bambini e i ragazzi, la popolazione era disposta ad andare a lavorare in Germania",B,multiple choice,559.0,['item_559_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,multipla 654,"D6. Nelle risposte di Roberto Denti alle domande, ciò che si dice nelle parentesi A. spiega un concetto non chiaro B. integra un'informazione C. ha funzione esortativa D. corregge un'imprecisione",B,multiple choice,563.0,['item_563_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,multipla 655,"D7. La domanda finale dell’intervista e la relativa risposta mirano soprattutto a A. raccontare le tragedie che coinvolgono i ragazzi nei conflitti del passato e del presente B. sottolineare la funzione della letteratura per ragazzi nell'educazione alla difesa dei diritti C. sostenere che il ruolo dei ragazzi nella Resistenza è stato fondamentale D. esprimere rammarico e pessimismo davanti al ripetersi delle guerre",B,multiple choice,564.0,['item_564_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,multipla 656,"D8. L’espressione “filo rosso” nel contesto in cui è usata nel testo (riga 33 e 46) significa: A. tema ricorrente B. legame necessario C. vincolo stringente D. confine insuperabile",A,multiple choice,565.0,['item_565_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,multipla 657,"D9. Secondo Roberto Denti, come è possibile smuovere “la beata indifferenza dei bambini europei” nei confronti della sofferenza dei loro coetanei nel mondo? A. insegnando ai ragazzi la storia della Resistenza B. intervistando i testimoni delle violazioni di diritti civili C. con la diffusione di libri di contenuto civile per ragazzi D. con documentari televisivi di argomento storico",C,multiple choice,566.0,['item_566_0.png'],2017_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questa intervista, fatta da Alessandra Bruscagli a Roberto Denti, è stata pubblicata nel 2005 nella rivista di letteratura per ragazzi LiBeR 66, all'interno del dossier “Raccontare la Resistenza”. Denti, giovanissimo partigiano nel 1944, è stato un grande autore di libri per ragazzi, spesso dedicati ai diritti democratici, e ha fondato e diretto la “Libreria dei ragazzi” di Milano, che ha svolto e svolge un'intensa opera di promozione della lettura e delle competenze civiche. Intervista a Roberto Denti Domanda. Durante gli anni della seconda guerra mondiale hai partecipato attivamente alla Resistenza come partigiano, in carcere nel 1944. La tua è stata una scelta, che sappiamo ha segnato profondamente la tua vita, ma che è maturata in momenti caratterizzati da vicende e da un’atmosfera complessiva della quale oggi è difficile rendersi conto. Ce ne puoi parlare? Risposta. Quando, l’8 settembre 1943, il governo Italiano (Presidente del Consiglio il generale Badoglio, che aveva preso il posto di Mussolini dopo il 25 luglio dello stesso anno) fuggì da Roma per rifugiarsi a Brindisi dove già era arrivato l’esercito angloamericano e si costituì a Salò la Repubblica Sociale Fascista sostenuta dai tedeschi, la decisione politica divenne indispensabile. La scelta era di tipo assoluto, senza possibilità di ripensamenti: o con i fascisti o contro di loro. Sono molti gli elementi che hanno trasformato l’Italia dall’adesione incondizionata al fascismo a una situazione di avversione e di lotta. lo credo che, oltre la convinzione della sconfitta, sia stata determinante la fame. Mamme e nonni (gli uomini validi erano al fronte o — dopo l’8 settembre del 1943 — a lavorare in Germania pur di sopravvivere) che non erano in grado di soddisfare l'appetito dei bambini e dei ragazzi divennero nemici di un Governo incapace di far fronte alle esigenze primarie della popolazione. lo ero di famiglia e ambiente borghese: per merito dei miei compagni di cella (nel 1944) e di alcuni compagni partigiani imparai — senza ancora averlo letto sui libri — che la fame è la base concreta della lotta politica. D. Ti risulta che, come scrivi in Ancora un giorno (Mondadori, 2001), ci siano state situazioni in cui ragazze e ragazzi in bande, quasi come in un gioco, hanno realmente aiutato i partigiani o gli oppositori del regime fascista? x R. La guerra non è un gioco. | ragazzi e le ragazze che nelle città hanno partecipato alla Resistenza lo hanno fatto con spirito diverso da quello degli adulti, cercando però di imitarli. I giochi di tutti i bambini del mondo sono imitazione della vita dei “grandi”. Durante il periodo della Resistenza i ragazzi venivano utilizzati per trasmettere messaggi all’interno delle città (le staffette partigiane, in cui predominavano le donne, utilizzavano adolescenti di almeno 15-16 anni), per bucare le gomme dei camion e delle auto utilizzate da fascisti e tedeschi, per controllare il colore delle mostrine dei soldati che serviva a capire se si stavano verificando movimenti di truppe e verso quali obiettivi. 1 La data dell’8 settembre 1943 è una delle più tragiche della seconda guerra mondiale: la fuga del re, del governo, degli alti gradi militari, insomma dei rappresentanti delle istituzioni, in un'Italia tagliata in due tra la “liberazione” degli alleati anglo-americani al Sud e la pesantissima occupazione tedesca del Centro e del Nord, lasciò completamente sbandati sia i soldati dell'esercito italiano, che non avevano più a chi fare riferimento, sia i civili. Molti di questi sbandati, militari e civili, raggiunsero le brigate partigiane della Resistenza armata contro i nazifascisti. D. La letteratura per ragazzi ancora oggi — pur in mezzo a tante proposte “d’evasione” — presenta storie di “Resistenza civile” che coinvolgono bambini e ragazzi alle prese con querre, regimi autoritari, soprusi. Possiamo parlare di un filo rosso che attraversa questa produzione letteraria e le conferisce una funzione sociale orientata alla difesa e all'affermazione dei diritti? R. La seconda guerra mondiale ha coinvolto drammaticamente la popolazione civile. Nelle guerre precedenti i civili erano sempre stati vittime del passaggio degli eserciti, vincitori o sconfitti. Dal 1939 al 1945 nei paesi e nelle città le famiglie, anche lontane dal fronte, sono state vittime di bombardamenti e della ferocia dei tedeschi che occupavano i territori europei. Da allora ogni guerra è stata la guerra di tutti, nelle linee di combattimento o all’interno dei paesi in cui si sono verificati conflitti. È quindi ovvio che nei libri di narrativa per ragazzi si trovi un filo che congiunge il passato e il presente, dalle stragi naziste (nei campi di sterminio o in tutta Europa) e dalla guerra partigiana a ciò che avviene in Palestina, in Iraq o in Pakistan. Il lavoro minorile, la fame del terzo mondo, i bambini delle favelas? venduti nel Sud America non sono definite “guerre” ma ugualmente provocano morte come o peggio dei conflitti armati. Il filo rosso c'è perché, purtroppo, continuano vicende drammatiche e tragiche di cui ci si occupa troppo poco. Perché turbare la beata indifferenza dei bambini europei, abituati al dolciastro mondo disneyano e alle indispensabili merendine, con notizie che riguardano bambini che muoiono per mancanza di cibo e di medicinali? (Tratto e adattato da: Alessandra Bruscagli, LiBeR 66, 2005) ",10.0,multipla 658,"E2. Nella frase “È un secolo che non ti vedo!” è presente una figura retorica. Indica quale. A. ? Una metafora B. ? Una similitudine C. ? Una iperbole D. ? Una metonimia",C,multiple choice,568.0,['item_568_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 659,"E4. Leggi la frase che segue: “L’antennista ha controllato i collegamenti dell’antenna con il suo decoder portatile.” In questa frase antennista è un nome di genere maschile o femminile? A. ? È sicuramente maschile, perché controllato è di genere maschile B. ? È sicuramente femminile, perché la parola antennista termina in -a C. ? È sicuramente femminile perché la parola di base antenna è di genere femminile D. ? Non si può sapere, perché L’ può riferirsi sia a un nome maschile sia a un nome femminile ",D,multiple choice,570.0,['item_570_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 660,"E6. In quale di queste frasi sono presenti tutti gli argomenti del verbo (cioè gli elementi obbligatoriamente richiesti dal verbo)? A. ? A tutti noi dissero con molta chiarezza B. ? La signora prese dalla sua borsetta C. ? Questo problema vi riguarda tutti D. ? Molti dei partecipanti sono diventati",C,multiple choice,572.0,['item_572_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 661,"E8. Identifica la frase nella quale il soggetto (sottolineato) è anche agente, e dunque ‘compie l’azione’ espressa dal verbo. A. ? Al termine del colloquio Maria ha ricevuto i complimenti di tutta la commissione d’esame. B. ? Finalmente mio fratello e io siamo entrati in possesso della nostra eredità. C. ? Sulla linea del traguardo il ciclista è stato superato in volata dal più agguerrito dei concorrenti. D. ? Dopo gli applausi entusiasti del pubblico il pianista concesse un ultimo bis. ",D,multiple choice,574.0,['item_574_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 662,"E9. Quale delle seguenti frasi, tutte con il verbo al congiuntivo, esprime un dubbio? A. ? E se lo volesse anche lui? B. ? Buongiorno, si accomodi qui! C. ? Magari trovassi un lavoro! D. ? Faccia pure con comodo.",A,multiple choice,575.0,['item_575_0.png'],2017_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 663,"B4. Che cosa faceva la lepre, all’inizio del racconto, quando “se ne andava giu` per il fianco di una collina”? A. stava spiando qualcuno da lontano B. era contenta di sentire odori e rumori nuovi C. voleva raggiungere il villaggio vicino D. mangiava e si guardava intorno",D,multiple choice,581.0,['item_581_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 664,"B5. Il testo dice “ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie” (righe 14-15). Questa informazione fa capire che l’animale protagonista del racconto si comporta cosi` perche´ A. è attento ai possibili pericoli B. cerca di orientarsi nell'ambiente C. è alla ricerca di cibo D. è stupito dalla calma che c'è intorno",A,multiple choice,582.0,['item_582_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 665,"B6. Per quale scopo qualcuno in questo racconto cerca in tutti i modi di nascondere il suo colore, il suo odore, il suo rumore? A. per cogliere di sorpresa la sua preda B. per non essere aggredito da una belva feroce C. per sembrare un altro animale D. per tenere lontani i suoi peggiori nemici",A,multiple choice,583.0,['item_583_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 666,"B7. “... la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi” (righe 20-21). Questa informazione fa capire che la lepre A. sa di poter riuscire a scappare B. pensa che c'è una buona distanza C. si rende conto che il pericolo è vicino D. calcola quanto devono essere lunghi i passi",C,multiple choice,584.0,['item_584_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 667,"B8. Che cosa fanno capire le parole “... gia` lanciata a bocca aperta”? Fanno capire che A. la volpe corre e non ha più fiato B. la volte parte all'inseguimento urlando C. la volpe è pronta a mangiare la lepre D. la volte è stupita che la lepre l'abbia vista",C,multiple choice,585.0,['item_585_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 668,"B9. “La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perche´ la volpe era partita troppo in vantaggio” (righe 23-25). Perche´ la lepre e` disperata? A. fa fatica a correre dopo avere mangiato B. ha perso l'orientamento C. sta per essere catturata D. è la prima volta che vede una volpe da vicino",C,multiple choice,586.0,['item_586_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 669,"B10. La corsa a zig zag serve alla lepre di questo racconto per A. mettere in difficoltà la volpe B. mostrare la sua abilità C. non schiacciare troppo l'erba D. evitare gli ostacoli",A,multiple choice,587.0,['item_587_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 670,"B11. Che cosa pensa la lepre quando vede le “foglie lunghe, alte e abbastanza larghe” (riga 27)? A. Ecco tante altre lepri: insieme sconfiggeremo la volpe! B. Quante foglie! Assomigliano alle mie orecchie. Questo mi aiuterà! C. Che bello. Potrò continuare a rosicchiare foglie e fiori! D. Ho trovato tante altre lepre, mi nasconderò in mezzo a loro!",B,multiple choice,588.0,['item_588_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 671,"B12. Che cosa puoi aggiungere all’informazione che trovi sotto per spiegare il comportamento della volpe? “Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermo`” A: anche la volpe ... si fermò perché era confusa da quello che vedeva e non sapeva che cosa fare B. anche la volpe ... si fermò perché era stanca e non aveva voglia di cercare la lepre in mezzo a tutte quelle foglie C. anche la volpe ... si fermò perché voleva spiare che cosa faceva la lepre nascosta in quel prato D. anche la volpe ... si fermò perché aveva già corso tanto e si chiedeva che gusto avesse quell'erba",A,multiple choice,589.0,['item_589_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 672,"B13. Come va a finire fra la lepre e la volpe? A. la volpe si accontenta di mangiare quelle foglie tenere e gustose B. la volpe alla fine se ne va perché il buio che arriva mette paura C. la volpe aspetta fino alla mattina dopo e poi se ne va D. la volpe finisce per rinunciare alla sua preda",D,multiple choice,590.0,['item_590_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 673,"B14. Se nel racconto la lepre dicesse ‘grazie’ all’erba, che cosa le direbbe? A. ""Grazie di avere sfamato la volpe"" B. ""Grazie di avere sbarrato la strada alla volpe!"" C. ""Grazie di avere impedito alla volpe di vedermi!"" D. ""Grazie di avere spaventato la volpe!""",C,multiple choice,591.0,['item_591_0.png'],2016_02_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ERBA CHE LE LEPRI NON MANGIANO pallido, con piccoli fiorellini dal profumo dolciastro alla base delle sue foglie, e nient’altro di speciale: ma una cosa speciale c’è, ed è il fatto che le lepri non la mangiano mai. Perché non la mangiano? Perché è velenosa? No, non è velenosa. Perché è dura? No, anzi, è morbida. Perché ha un cattivo sapore? No, in verità è parecchio gustosa. Bisogna sapere che, moltissimi anni fa, una lepre se ne andava giù per il fianco di una collina, vicino al villaggio di Taydale, nell’Inghilterra centrale, rosicchiando erbe e radici. Ogni tanto alzava il muso a guardare, annusare e ascoltare con le sue lunghe orecchie: ma quella volta, per sua sfortuna, la volpe si era fatta furba. Per nascondere il suo colore, strisciava contro un muro rossastro. Per nascondere il suo odore, si era avvoltolata a lungo nel muschio profumato, e per nascondere il rumore si era avvolta la punta delle zampe in batuffoli di ragnatela. D’improvviso, senza aver sentito, annusato o visto niente, la lepre se la vide spuntare a meno di venti passi, già lanciata a bocca aperta verso di lei. La bestiola si mise a correre disperatamente, facendo balzi e scarti a zig zag, ma sapeva che era troppo tardi, perché la volpe era partita troppo in vantaggio. Saltò un cespuglio, ne saltò un altro, ed eccola in un prato dove crescevano a centinaia quelle foglie lunghe, alte e abbastanza larghe, che sembravano… sembravano orecchie di lepre. La lepre si fermò di colpo e s’acquattò in mezzo al prato, tenendosi bassa bassa, ma con le orecchie alte. Anche la volpe, una decina di metri indietro, si fermò. Cos’era quello? C’è un’erba, in Inghilterra, che ha le foglie lunghe, color verde Quante lepri c’erano, in quel prato? Cento? Duecento? Mille? No, non erano lepri, erano foglie. Ma dov’era finita la lepre che stava inseguendo? La volpe, muovendo le sue orecchie triangolari, ascoltò: ma non sentí rumore, tranne il fruscio delle foglie al vento. Annusò, ma non sentí odore, tranne quello dei piccoli fiori che stavano alla base delle foglie. Allungò il collo, e addirittura si alzò sulle zampe di dietro, come fanno i cani: ma non vide altro che foglie, foglie, alte, nel cielo che si andava scurendo nella sera. Allora la volpe se ne andò, a pancia vuota, e da quel giorno nessuna lepre mangiò più una foglia di quelle, per ringraziare dell’aiuto gentile. (Tratto da: R. Piumini, Poco prima della notte, Einaudi Ragazzi, Edizioni EL, San Dorlingo della Valle, Trieste, 2011) ",2.0,multipla 674,"A1. In quali occasioni si svolgono giochi come quello descritto nel racconto? A. Nelle feste paesane B. In gare sportive C. Nelle cerimonie pubbliche D. In spettacoli acrobatici",A,multiple choice,598.0,['item_598_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 675,"A3. L’autore comincia il racconto rivolgendosi al lettore con l’espressione “Non so se avete mai fatto quel gioco...” e poi descrive il gioco. Questo inizio ha l’effetto di A. far riflettere il lettore sul funzionamento di un gioco B. coinvolgere il lettore risvegliando la sua curiosità C. far capire che chi scrive non sa tutto sui suoi lettori D. far passare al lettore la voglia di imparare un gioco",B,multiple choice,600.0,['item_600_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 676,"A7. A riga 9 c’è scritto “Illusi.” Nel testo “illudersi” significa avere un’idea/opinione sbagliata riguardo a qualcosa. Qual è l’idea/opinione sbagliata di cui si parla nel testo? A. Credere che il gioco delle pignatte sia semplice e piacevole B. Credere che spaccare un’albicocca sia facile e divertente C. Credere che sia semplice nascondere la propria inesperienza D. Credere che i giochi si possano fare a occhi chiusi",A,multiple choice,604.0,['item_604_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 677,"A8. Come si prepara al gioco il primo ragazzo mentre viene bendato? A. Prova i movimenti che dovrà fare per avere più forza possibile B. Cammina e conta i passi per calcolare la distanza dal bersaglio C. Pensa a come avrebbe giocato il suo eroe preferito D. Progetta e valuta tutto quello che dovrà fare per riuscire",D,multiple choice,605.0,['item_605_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 678,"A9. Leggi la parte di testo nel riquadro qui a fianco. Come si può sostituire “così” in modo da mantenere la stessa relazione tra l’informazione che viene prima e quella che viene dopo? “Così” si può sostituire con A. ... in questo caso... B. ... allora... C. ... allo stesso modo... D. ... invece...",C,multiple choice,606.0,['item_606_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 679,"A10. Quale tra le seguenti frasi del testo ti dice che, prima di giocare, il primo ragazzo che viene bendato è assolutamente sicuro di vincere? A. “Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano” B. “Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto” C. “… io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta” D. “Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso...”",D,multiple choice,607.0,['item_607_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 680,"A11. “… stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine.” (riga 23). Qual è “l’orrido crimine” commesso dai due fratelli? A. Disobbedire di nascosto alle regole dei genitori sulle caramelle B. Mangiare caramelle e non lavarsi i denti C. Mangiare un gran numero di caramelle in poco tempo D. Scegliere caramelle con coloranti e ingredienti dannosi alla salute",A,multiple choice,608.0,['item_608_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 681,"A12. Che cosa succede quando il primo ragazzo che viene bendato ha finalmente in mano il bastone (riga 24)? A. Colpisce il bersaglio con grande forza B. Non si accorge di colpire il padre di una bambina C. Dà un gran colpo nella direzione sbagliata D. Sfrutta la corrente d’aria per migliorare il tiro",C,multiple choice,609.0,['item_609_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 682,"A14. “... venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come bambini della pubblicità.” (righe 37-38). Con questa immagine l’autore crea l’aspettativa che il fratello piccolo A. non sia un giocatore temibile: è tenero e dolce B. si concentri bene sul gioco: ha uno sguardo intelligente C. non sia preso sul serio dalla gente: è un bambinetto D. attiri altri spettatori: ha l’aria di un bambino interessante",A,multiple choice,611.0,['item_611_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 683,"A15. Dopo aver letto il testo, hai informazioni sufficienti per capire perché, all’inizio del racconto, il ragazzo dice: “Io questo gioco lo odio” (riga 5). Qual è il motivo del suo odio? A. Quel gioco è legato al ricordo ancora vivo di un’umiliazione B. Il ragazzo non ama i giochi in cui ci si deve orientare nello spazio C. Il ragazzo considera quel gioco adatto a bambini più piccoli di lui D. Quel gioco è passato di moda e non diverte i ragazzi di oggi",A,multiple choice,612.0,['item_612_0.png'],2016_05_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"PER UN PUGNO DI CARAMELLE Non so se avete mai fatto quel gioco, tipico delle feste di paese, dove ci sono tanti vasi di coccio legati a un filo, pieni in genere di ogni ben di Dio, e il filo è sospeso sopra le teste dei giocatori. I concorrenti, armati di bastone e opportunamente bendati, devono cercare di rompere i vasi per vincere quello che c’è dentro. Vi sembra divertente? Io questo gioco lo odio. Era un’estate di qualche tempo fa. Un giorno, io e mio fratello ci trovammo a partecipare a questo maledetto gioco. A noi, che venivamo dalla città, quella bella pignatta da spaccare come un’albicocca ci sembrava una cosa facile e divertente. Illusi. Non sapevamo che i dilemmi più angosciosi e complicati si possono nascondere dietro le cose più semplici e saltare fuori quando meno te l’aspetti. Io ero il primo della fila e tutti mi guardavano. Mentre venivo bendato, tenendo pure io gli occhi ben chiusi, pensavo con cura alle mosse che avrei fatto. Come in un film d’azione in cui il protagonista è superforzuto, ma anche superintelligente e non fa nessun movimento a caso, così io cercavo di calcolare nel mio cervello il numero di passi necessari a raggiungere la pignatta, l’angolo di incidenza con cui vibrare il colpo, la forza che ci avrei dovuto mettere. Già vedevo la pioggia di caramelle che, al rallentatore, mi cadevano addosso, tra gli sguardi ammirati del folto pubblico. Che poi, io e mio fratello di caramelle ne mangiavamo davvero poche, che ogni volta dovevamo chiedere il permesso, vedere che non fossero troppo colorate e troppo piene di ingredienti astrusi, e poi lavarci i denti. Il più delle poche caramelle che mangiavamo ce le succhiavamo in fretta e furia a casa dei nonni, in gran segreto, stando bene attenti a far sparire le tracce del nostro orrido crimine. Allora, eccomi bendato, pronto alla vittoria. Mi mettono in mano il bastone e mi fanno girare su me stesso, pensando di confondere in questo modo il mio infallibile senso dell’orientamento. Così, finito di girare, faccio un passo e mezzo, mi volto deciso verso destra e tiro un fendente che nemmeno Aragorn figlio di Arathorn nella battaglia davanti a Minas Tirith. Solo che invece di prendere il vaso pieno di caramelle, colpisco solo aria. Appena mi tolgo la benda scopro con orrore che tutti i miei calcoli sono sbagliati che di più non si può. Anzi quasi davo una bastonata in testa a un tipo lì vicino. Mi gira un po’ la testa e mi sento le orecchie rosse. Una bambina mi si avvicina e mi dice: “Assassino! Volevi uccidere mio padre!”. Mi allontano sperando che la gente si dimentichi in fretta di me. Come ho potuto sbagliare? Sembrava così facile! Mentre meditavo a come diventare trasparente e venivo assalito dai sensi di colpa (ero diventato un quasi assassino! Io che stavo attento a non calpestare le formiche!) venne il turno di mio fratello che era piccolo e carino come certi bambini della pubblicità. Quando gli hanno messo la benda, lui, anziché pensare al cinema, come avevo fatto io, ha semplicemente tenuto gli occhi aperti e ha scoperto che attraverso la benda si vedeva benissimo. Così, dopo la solita giravolta (quella giravolta che a me, che tenevo gli occhi chiusi, aveva scombussolato tutti i piani) lui è andato sotto la pignatta e con un colpo ben assestato l’ha distrutta in mille pezzi. E allora fu tutta un’acclamazione, un bravo, grida di meraviglia, applausi, risate, per quel bambino piccolo piccolo che era riuscito là dove il grande, io, aveva miseramente fallito. Mio fratello poi è venuto da me, con la maglietta ripiegata sul davanti e piena fino all’inverosimile di caramelle. Avrebbe potuto fare lo sbruffone e vantarsi di avermi surclassato, e sarebbe stata la più pura e semplice delle verità. Invece anche lui, come me, era caduto in un vortice di dilemmi. Io continuavo a pensare al mio errore madornale, alla mia sicurezza eccessiva, e mi rivedevo, al rallentatore e infinite volte, a dare quella tremenda bastonata all’aria. E ripensavo alla bambina che mi aveva dato dell’assassino e sarei voluto sprofondare al centro della terra. Mio fratello invece, a vedermi nervoso e arrabbiato e deluso, si sentiva in colpa, perché in fondo lui, bambino piccolo e carino, aveva barato. Era riuscito a rompere la pignatta tenendo gli occhi aperti, e quando gli avevano chiesto se vedeva qualcosa, lui non aveva detto nulla. Aveva vinto e aveva fatto una bellissima figura. Io ero stato onesto ed era finita con un omicidio mancato. Quel pomeriggio fu un vero schifo: io rimasi nervoso e intrattabile come solo un fratello maggiore può essere, mentre mio fratello cercava di farsi perdonare di qualcosa che nessuno sapeva. In più, le famose caramelle che stavano nella pignatta erano di quelle che ti si appiccicano ai denti e che hanno quei gusti assurdi tipo amarena o cola. Ne mangiammo una a testa, tanto per dire che le avevamo mangiate, ma le avremmo rimesse volentieri al loro posto, nella pignatta dei nostri stupidi dilemmi. (Tratto e adattato da: Federico Appel, Popotus, 23 ottobre 2012, pp. 6‐7) ",5.0,multipla 684,"B1. Osserva con attenzione la figura della piramide e leggi le informazioni scritte nella figura. Quale potrebbe essere l’inizio del testo che accompagna questa figura? A. Oltre che delle piramidi egiziane, fino ad ora eravamo abituati a sentir parlare della «piramide alimentare». Da oggi, però, abbiamo un’altra piramide che ci insegna a vivere meglio: quella dell’attività motoria. B. Sapete come i ragazzi di oggi utilizzano il loro tempo? La piramide dell’attività motoria ci dà una fotografia di quali sono le attività preferite dai ragazzi nell’arco di una settimana. C. Oggi la creatività è molto importante. La figura ci suggerisce come costruire una piramide con tante immagini divertenti. Serviranno cartoncino, colori, forbici, colla e tanta fantasia. D. Non sai cosa fare nel tempo libero? Le solite attività ti annoiano? La piramide dell’attività motoria propone tante idee, dalle più facili e divertenti alle più impegnative, che possono piacere sia a te, sia ai tuoi genitori.",A,multiple choice,616.0,['item_616_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 685,"B3. L’espressione “mangiare con parsimonia” (righe 8-9) significa A. mangiare con appetito B. mangiare fino ad essere sazi C. mangiare senza esagerare D. mangiare in poco tempo",C,multiple choice,618.0,['item_618_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 686,"B4. In questo paragrafo si dice che “il funzionamento della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare” (righe 5-6). Ciò significa che entrambe le piramidi A. danno indicazioni su come comportarsi educatamente B. raccomandano che cosa sia opportuno fare spesso e che cosa con moderazione C. danno suggerimenti su come dare il meglio di se stessi D. mostrano ciò che piace a molti ragazzi di oggi e che cosa piace a pochi",B,multiple choice,619.0,['item_619_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 687,"B6. Dalla figura e da quanto detto nel paragrafo si capisce che la piramide e` stata costruita seguendo un preciso criterio. Quale delle seguenti affermazioni tiene conto di questo criterio? A. Nei gradini più bassi della piramide ci sono le attività dei ragazzi che i genitori ritengono più importanti, per esempio aiutare nei lavori domestici o mettere in ordine i giochi B. Le attività sono ordinate in base a quanto risultano interessanti per i ragazzi, con i mezzi tecnologici in cima alla piramide C. Alla base della piramide si trovano attività tipo camminare e passeggiare che aiutano i ragazzi a rispettare l’ambiente D. In cima alla piramide ci sono le attività da svolgere con minore frequenza, in quanto meno necessarie per la crescita fisica e il benessere dei ragazzi",D,multiple choice,621.0,['item_621_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 688,"B7. In questo paragrafo si parla del problema del rapporto tra i giovani e lo sport in Italia. Quale delle seguenti affermazioni sintetizza questo problema? A. I giovani smettono troppo presto di fare sport B. I più piccoli non praticano lo sport in misura sufficiente C. I giovani si avvicinano allo sport troppo tardi D. I bambini non si avvicinano volentieri alla pratica sportiva",A,multiple choice,622.0,['item_622_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 689,"B10. Dopo l’espressione “Ma le buone notizie... finiscono qui” (righe 6-7) il testo prosegue con A. la presentazione di un nuovo argomento B. l’introduzione di notizie negative C. la descrizione delle buone notizie D. la negazione di quanto detto in precedenza",B,multiple choice,625.0,['item_625_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 690,"B11. In questo paragrafo vi sono le seguenti informazioni: - Gli italiani danno poco valore all’attività sportiva - I giovani sono molto attratti dalle nuove tecnologie - Gli impianti sportivi non sono sufficienti Queste informazioni rappresentano A. le soluzioni di un problema B. le conseguenze di un problema C. le conclusioni di un problema D. le cause di un problema",D,multiple choice,626.0,['item_626_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 691,"B13. Quale tra i seguenti slogan potrebbe essere scelto dalla SIP per comunicare il messaggio che la piramide motoria vuole dare? A. Gioca ogni giorno con gli amici! Crescerai meglio... B. Allontanati dal traffico! Respirerai meglio e vivrai più a lungo C. Muoviti tanto! La tua salute ne trarrà beneficio… D. Programma la tua giornata! Avrai tempo per le attività che ti piacciono",C,multiple choice,628.0,['item_628_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 692,"B14. Per quale motivo i pediatri si interessano alle attività sportive? A. Per far capire che anche loro, i pediatri, amano lo sport e le attività motorie B. Per difendere la salute che dipende anche dalle attività sportive e motorie C. Per far conoscere le attività motorie e gli sport che si possono praticare in Italia D. Per aiutare i genitori a scegliere lo sport più adatto per i loro figli",B,multiple choice,629.0,['item_629_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 693,"B15. Quattro bambini riferiscono le attivita` che svolgono abitualmente durante la settimana. Quale bambino ha abitudini che si avvicinano di piu` a quanto raccomandato nella piramide dell’attivita` motoria? A. Vedo un po' di TV alla sera. Faccio ginnastica a scuola, dopo la scuola mi alleno con la mia squadra. A scuola ci vado a piedi e la domenica mi piace andare a giocare al parco B. Gioco a calcio due volte a settimana. Gli altri pomeriggi di solito sto a casa e mi diverto con i videogiochi. Tutti i sabati vado a vedere i miei amici che giocano a basket C. Mi piace aiutare la mamma nei lavori di casa e tutti i giorni porto la spesa a casa della nonna. Al pomeriggio vedo la TV per un paio d'ore, Qualche volta vado ai giardinetti e mi diverso sull'altalena. D. Non guardo mai la TV, ma vedo molti video e ogni giorno uso il computer. A scuola andiamo in palestra due volte alla settimana. Vado anche a scuola a piedi perché è vicinissima a casa mia.",A,multiple choice,630.0,['item_630_0.png'],2016_05_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il testo che segue è stato diviso in 4 parti: nella parte 1 troverai uno schema; le parti 2, 3 e 4 sono dei paragrafi scritti. Parte 1 IL MENO POSSIBILE - computer, videogiochi, tv 1 VOLTA A SETTIMANA - attività all'aperto, gite 3-4 VOLTE A SETTIMANA - attività motoria organizzata 4-5 VOLTE A SETTIMANA - aiutare nei lavori domestici OGNI GIORNO - andare a scuola in bici o a piedi, passeggiare, salire le scale, ordinare i giochi Parte 2 LA PIRAMIDE DELL’ATTIVITÀ MOTORIA LE ATTIVITÀ QUOTIDIANE – L’idea di creare uno strumento di facile consultazione per capire quali siano le nostre esigenze motorie (ma soprattutto quelle dei bambini e degli adolescenti) è della Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato una nuova piramide dedicata al movimento e all’attività fisica. Il “funzionamento” della piramide dell’attività motoria è simile a quello della piramide alimentare: nella «piramide alimentare» ci sono alla base frutta, verdura e cereali (da mangiare quotidianamente) e in cima le cose che ci piacciono tanto (dagli insaccati ai dolci) ma che dobbiamo mangiare con parsimonia. «Alla base della piramide dell’attività motoria – spiega Giovanni Corsello, Presidente della Società Italiana di Pediatria – sono indicate le attività da svolgere quotidianamente, man mano che si sale verso i gradini più alti della piramide si incontrano le attività da svolgere con minore frequenza». Piramide alla mano, secondo la SIP i bambini devono andare a scuola a piedi tutti i giorni, fare attività fisica all’aria aperta almeno 4‐5 giorni alla settimana, di cui 3 o 4 volte in maniera organizzata, possibilmente con un gioco di squadra. Occasionali, ma importanti le attività all’esterno (eventualmente organizzate in forma di gita), mentre il tempo dedicato a TV, Internet e videogiochi (ultimo livello della piramide) dovrebbe essere ridotto al minimo e non superare un’ora al giorno. L’esatto contrario, suppergiù, di quello che avviene nella realtà, dove i ragazzi trascorrono da tre a quattro ore al giorno davanti a uno schermo (tv, computer o smartphone che sia), solo uno su tre va a scuola a piedi e circa il 40% (44% delle femmine) non pratica alcuna attività sportiva o si limita alle due ore settimanali (scarse) dell’orario scolastico. Il tutto mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che molti problemi di salute sono attribuibili all’inattività fisica. Parte 3 COME NON FARE ABBANDONARE LO SPORT – Ma come fare ad avvicinare bambini e adolescenti allo sport? Secondo la Società Italiana di Pediatria il problema italiano non è farli avvicinare, ma non farli allontanare precocemente. In dieci anni (2001‐2011) tra i bambini di età compresa tra 6 e anni la pratica sportiva continuativa è aumentata. E nell’ultimo anno, i più piccoli hanno guadagnato il primato dei più sportivi del Belpaese. Ma le buone notizie, su questo fronte, finiscono qui. Già dopo la scuola primaria, infatti, i bambini italiani cominciano ad allontanarsi dalla pratica sportiva continuativa e a ingrossare le fila dei sedentari. E se fino a qualche anno fa l’età spartiacque era stata quella tra i 14 e i 15 anni, ora l’andamento negativo comincia già a 11 anni. Tabella – Abbandono della pratica sportiva FASCE D’ETÀ 11-14 15-17 18-19 Diminuzione dell’interesse per lo sport Scarsa attività fisica Marcata inattività Parte 4 LE CAUSE DELLA DISAFFEZIONE ALLO SPORT – Tra le cause di questa disaffezione precoce allo sport – sostiene la SIP – ci sono certamente Internet, TV e nuove tecnologie in genere, che “distraggono” significativamente i bambini già alla soglia dell’adolescenza, ma da sole non bastano a spiegare perché il tasso di sedentarietà degli adolescenti italiani sia più che triplo rispetto a quello dei loro coetanei europei, i quali non sono da meno nell’uso di tecnologie digitali, né per abilità né per tempo trascorso. Fulvio Scaparro, esperto del mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, dà di questo dato due interpretazioni: da un lato una scarsa cultura dello sport che riguarda la maggioranza degli italiani, grandi tifosi ma molto poco sportivi; dall’altro una carenza di strutture e di opportunità per consentire a un adolescente di svolgere adeguatamente un’attività sportiva. Tornando alla “piramide”, il Presidente della SIP Corsello sottolinea che, al di là dello sport organizzato, per poter giocare all’aria aperta, passeggiare e fare movimento è necessaria comunque un’organizzazione della vita coerente con questi obiettivi, che significa città più a misura di bambino e di adolescente, con spazi organizzati, più verde pubblico fruibile e iniziative dei Comuni per fare in modo che si possa andare a scuola a piedi in sicurezza. novembre 2013 (Tratto e adattato da: http://www.corriere.it/salute/pediatria, accesso 23 novembre 2013) ",5.0,multipla 694,"C1. Scegli fra le quattro alternative quella che completa il senso del verbo nella frase seguente. “La zia ha messo…” A. il più piccolo dei suoi figli B. la torta al cioccolato C. i panni nella lavatrice D. nel cassetto del comodino ",C,multiple choice,631.0,['item_631_0.png'],2016_05_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 696,"C3. Il suffisso –ista può aggiungere alla parola di base il significato di ‘colui che esercita un certo mestiere o professione’, ad es. pianista, farmacista, camionista ecc. In quale delle seguenti parole il suffisso –ista aggiunge lo stesso significato? A. Autostoppista B. Dentista C. Altruista D. Socialista ",B,multiple choice,633.0,['item_633_0.png'],2016_05_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 697,"C5. Indica con quale parola dello stesso significato potresti sostituire quella sottolineata nella frase che segue. “Del periodo preistorico non ci sono fonti scritte.” A. Cause B. Testimonianze C. Sorgenti D. Origini ",B,multiple choice,635.0,['item_635_0.png'],2016_05_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 698,"C7. Leggi il dialogo. «Chi è quella bambina bionda?» «Non lo so. Potrebbe essere Luisa.» «Ma no, è Alice!» La frase “Potrebbe essere Luisa” che cosa esprime? A. Un consiglio B. Una proposta C. Un desiderio D. Un’ipotesi",D,multiple choice,637.0,['item_637_0.png'],2016_05_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 699,"C9. Quale dei seguenti gruppi di aggettivi contiene solo aggettivi qualificativi? A. nero, gentile, tanto, sereno B. profondo, allegro, ruvido, fragrante C. splendente, nostro, magro, simpatico D. poco, semplice, bagnato, questo ",B,multiple choice,639.0,['item_639_0.png'],2016_05_SNV_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 700,"A1. Perché le compagne mettevano piccoli regali in tasca a Elsa? A. Per ottenere un vantaggio personale B. Per dar prova della loro amicizia C. Per dimostrare la loro gratitudine D. Per manifestare la loro ammirazione",A,multiple choice,641.0,['item_641_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 701,"A2. L’espressione “Nessuna meraviglia” (riga 4) a che cosa si riferisce? A. Al fatto che Elsa si trovasse “coccetti” nelle tasche B. Al fatto che Elsa fosse la prima della classe C. Al fatto che le compagne non amassero Elsa D. Al fatto che Elsa lasciasse copiare i compiti",C,multiple choice,642.0,['item_642_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 702,"A4. Il personaggio di Marcella Pélissier nel testo ha la funzione di A. farci capire che nella classe di Elsa c’erano bambini più ammirati di lei B. rappresentare un modello che tutte le ragazze avrebbero voluto imitare C. rievocare l’immagine di una vecchia compagna di classe D. rappresentare quello che Elsa non era e che avrebbe voluto essere",D,multiple choice,644.0,['item_644_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 703,"A7. L’autrice usa, parlando di sé, una serie di espressioni (“fenomeno della creazione”, “prodigio”, “aureola”) che possono sembrare esagerate o fuori luogo. Lo fa perché A. vuole fare dell’ironia su se stessa quando era bambina B. vuole mostrare che anche da bambina aveva un ricco vocabolario C. vuole sottolineare che era stata una bambina molto amata D. vuole far capire che da bambina aveva una grande stima di sé",A,multiple choice,647.0,['item_647_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 704,"A8. La contraddizione fondamentale in cui si dibatte Elsa è quella tra A. il desiderio di essere simpatica e il non riuscire a esserlo B. la paura degli incubi e il compiacimento per la rarità di questa esperienza C. il risentimento verso la mamma e l’affetto per lei D. la coscienza della sua superiorità e l’aspirazione a essere come gli altri",D,multiple choice,648.0,['item_648_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 705,"A10. “Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente” (riga 51) significa che le compagne parlando con Elsa A. avevano un’aria annoiata B. si davano delle arie C. sfoggiavano un sapere e degli interessi che non avevano D. dimostravano un grande rispetto nei suoi confronti",C,multiple choice,650.0,['item_650_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 706,"A11. Perché le compagne parlavano con Elsa “solo di compiti, di madri e di padri” (righe 51-52)? A. Pensavano che a lei interessassero solo questi argomenti B. Volevano dimostrarle di essere sue amiche C. Volevano sembrare mature agli occhi della maestra D. Erano in grado di parlare solo di argomenti semplici e familiari",A,multiple choice,651.0,['item_651_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 707,"A12. Che cosa significa l’espressione “frivoli capannelli” (riga 52)? A. Gruppetti in cui si parlava male delle compagne B. Stupidi giochi fatti in un piccolo gruppo C. Noiosi discorsi fatti in un piccolo gruppo D. Gruppetti in cui si parlava di argomenti superficiali",D,multiple choice,652.0,['item_652_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 708,"A13. Qual è il senso della frase “egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto…”? A. Amore era sempre sulle nuvole e sembrava estraneo alla realtà che lo circondava B. Amore dava importanza a cose diverse da quelle che contavano per gli altri C. Amore si sentiva al di sopra dei comuni mortali D. Amore era per natura cordiale e benevolo verso tutti",B,multiple choice,653.0,['item_653_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 709,"A15. Amore si comportava verso Elsa in modo diverso da tutti gli altri perché A. benché fosse colpito dal talento eccezionale di Elsa, non lo dava a vedere B. benché Elsa fosse un genio, la trattava con superiorità C. era attratto dall’aspetto di Elsa e con lei parlava di cose di tutti i giorni D. si sforzava di far uscire Elsa dal suo isolamento",C,multiple choice,655.0,['item_655_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 710,"A16. Quale di queste frasi tratte dal testo fa capire perché Amore ha avuto un ruolo decisivo per Elsa? A. “Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai.” B. “Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra.” C. “Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra” D. “Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me.” E. “E mi prendeva per mano andando in su ed in giù e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia.”",B,multiple choice,656.0,['item_656_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 711,"A18. In questo racconto “io narrante” e autore sono la stessa persona; si tratta dunque di un testo che ha carattere A. personale B. biografico C. realistico D. autobiografico",D,multiple choice,658.0,['item_658_0.png'],2016_08_PN_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Prima della classe Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo. Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: – Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio –. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio. Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: – Che farai da grande? – sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo: – A te che te ne importa? Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito. Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: – Elsa ha l’incubo –. Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: – Sí, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, – e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: – Vergogna, disgraziati, – ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. – Com’è? – mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: – Ha un incubo. Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, cosí che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste. Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me. La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: – Che bei riccetti che hai. Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresí me ne offriva. Mi guardava e diceva: – Come sei pulita, – rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giú e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia. Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra. (Tratto da: Elsa Morante, Racconti dimenticati, Torino, Einaudi, 2002) ",8.0,multipla 712,"B1. Qual è l’argomento del testo? A. Le previsioni sull’andamento dei consumi energetici nel mondo B. La sostenibilità della crescita demografica e dei consumi in futuro C. L’evoluzione della popolazione nei Paesi in via di sviluppo D. Il differente ritmo di sviluppo tra Paesi orientali e occidentali",B,multiple choice,659.0,['item_659_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 713,"B2. Perché nel testo si afferma che il 31 ottobre 2011 è “una data simbolica” (riga 2)? A. Perché in quella data è nato il miliardesimo abitante della Terra B. Perché quella data ha segnato l’inizio di un dibattito sul futuro dell’umanità C. Perché per convenzione è considerata come la data in cui la popolazione mondiale ha raggiunto i sette miliardi D. Perché da quella data le risorse della Terra non sono state più sufficienti a nutrire tutti i suoi abitanti",C,multiple choice,660.0,['item_660_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 714,"B3. Osserva attentamente il grafico. La linea tratteggiata verticale ha la funzione di A. segnalare il punto in cui la popolazione mondiale ha cominciato a crescere più delle risorse disponibili B. separare i dati sull’evoluzione della popolazione mondiale dalle previsioni sulla sua crescita futura C. rendere più leggibile la distanza che separa i Paesi sviluppati da quelli in via di sviluppo D. mettere in evidenza il 2010 come l’anno di svolta nell’evoluzione della popolazione mondiale",B,multiple choice,661.0,['item_661_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 715,"B6. L’aggettivo “ulteriore”, usato nel testo in riferimento a “miliardo” (riga 14), significa A. altro B. successivo C. intero D. ultimo",A,multiple choice,664.0,['item_664_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 716,"B7. Il testo lega al fenomeno dell’aumento della popolazione un altro fenomeno. Quale? A. Il miglioramento del tenore di vita B. La diminuzione della mortalità C. La disuguaglianza tra i diversi Paesi D. L’incremento dei consumi di energia",D,multiple choice,665.0,['item_665_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 717,"B10. La frase introdotta da “sostiene che…” alle righe 24-27 esprime A. una convinzione soggettiva B. un’affermazione fondata su dati C. un’ipotesi da verificare D. un’idea condivisa da molte persone",B,multiple choice,668.0,['item_668_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 718,"B11. Quale delle seguenti espressioni non può sostituire “pur avendo adottato …” (riga 32)? A. Sebbene abbiano adottato B. Benché abbiano adottato C. Nonostante abbiano adottato D. Purché abbiano adottato",D,multiple choice,669.0,['item_669_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 719,"B12. Nell’Ecological Footprint Atlas 2010, gli esperti traggono dai dati relativi all’impronta ecologica nei diversi Paesi la conclusione che A. gli uomini hanno sempre vissuto al di sopra delle possibilità consentite dalle risorse disponibili B. una più equa distribuzione delle risorse permetterebbe di sfamare la popolazione mondiale C. negli ultimi decenni la domanda di risorse è stata superiore a ciò che la Terra può dare D. nel prossimo futuro la Terra avrà risorse sufficienti per soddisfare le esigenze dell’umanità",C,multiple choice,670.0,['item_670_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 720,"B13. Nel testo si dice che molti Paesi dell’Africa subsahariana e del Sudamerica sono virtuosi loro malgrado (righe 30-31). Ciò vuol dire che sono virtuosi A. a loro piacimento B. contro il loro stesso interesse C. per loro responsabilità D. indipendentemente dalla loro volontà",D,multiple choice,671.0,['item_671_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 721,"B14. L’espressione “Africa subsahariana” (riga 31) indica A. il deserto del Sahara B. i Paesi a sud del Sahara C. i Paesi separati dal deserto del Sahara D. la zona montuosa a nord del Sahara",B,multiple choice,672.0,['item_672_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 722,"B16. L’espressione “dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi” (righe 37-38), riferita alla popolazione mondiale, significa che questa nel 2050 A. arriverà a circa 9,3 miliardi B. supererà nettamente i 9,3 miliardi C. crescerà oltre i 9,3 miliardi D. resterà al di sotto dei 9,3 miliardi",A,multiple choice,674.0,['item_674_0.png'],2016_08_PN_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione Secondo l’UNFPA, l’agenzia internazionale dell’ONU per lo sviluppo, il 31 ottobre 2011 è nato l’abitante numero sette miliardi del nostro pianeta. Si tratta di una data simbolica. Non è possibile, infatti, misurare con precisione l’evolvere della popolazione mondiale momento per momento, non disponendo di statistiche affidabili su tutti i Paesi, in particolare quelli in via di sviluppo. Ad ogni modo, l’evento ha stimolato il dibattito sul futuro della popolazione mondiale e sollecitato quesiti come il seguente: nei prossimi decenni il nostro pianeta sarà capace di sfamare, vestire e riscaldare una popolazione ancora più numerosa che mira ad avere standard di vita sempre più elevati? Prima di azzardare una risposta, ripercorriamo brevemente l’evoluzione della popolazione mondiale. Nei primi millenni di storia dell’umanità la crescita demografica è stata molto lenta: il miliardesimo abitante nacque intorno al 1800 ma bastò solo un altro secolo per toccare quota due miliardi. Nel XX secolo, la crescita demografica è stata inizialmente ancora più rapida e all’inizio degli anni Sessanta la popolazione mondiale ha toccato il suo terzo miliardo. In seguito, ogni 12-13 anni si è avuto un aumento di un ulteriore miliardo, fino ai sette miliardi odierni. Con l’aumentare della popolazione mondiale è ovviamente cresciuto anche il consumo di energia, ma con modalità ben differenti da un Paese all’altro, legate soprattutto al tenore di vita dei singoli contesti. Attraverso un indicatore come l’impronta ecologica, introdotto da Mathis Wackernagel, ambientalista fondatore dello Human Footprint Institute, è possibile valutare con approssimazione la sostenibilità del consumo di risorse naturali complessivo e da parte di ogni singolo Paese. In sintesi, l’impronta ecologica misura di quanta superficie, in termini di terra e acqua, una popolazione ha bisogno per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per smaltire i rifiuti prodotti. Basandosi su questo indicatore, l’Ecological Footprint Atlas 2010 sostiene che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, l’umanità sta vivendo al di sopra dei propri mezzi rispetto all’ambiente e che attualmente la domanda annuale di risorse è superiore di un terzo a quanto la Terra riesce a generare ogni anno. Ad oggi, oltre l’80% della popolazione mondialevive in Paesi che utilizzano più risorse rispetto a quelle disponibili all’interno dei loro confini. Tra questi abbiamo gli Usa, la Cina e l’India, quasi tutti gli stati europei, tutti i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Molti Paesi (loro malgrado) “virtuosi” si trovano, invece, nell’Africa subsahariana e in Sudamerica, cui si aggiungono altre grandi nazioni come il Canada, l’Australia e la Russia, che, pur avendo adottato un modello di sviluppo tutt’altro che sostenibile, dispongono di immense risorse energetiche. Diamo un rapido sguardo alle tendenze che ci possiamo attendere nei prossimi decenni per la popolazione mondiale e i consumi energetici. Le previsioni demografiche variano a seconda delle diverse ipotesi sulla mortalità e soprattutto sulla natalità. Secondo la United Nations Population Division (vedi grafico), nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9,3 miliardi. La crescita si concentrerà nei Paesi in via di sviluppo (Pvs), in particolare nel continente asiatico, mentre la popolazione dei Paesi a sviluppo avanzato dovrebbe mantenersi quasi stazionaria. Probabilmente gli abitanti del pianeta nel 2100 saranno più di 10 miliardi. La crescita demografica nella seconda metà del XXI secolo dovrebbe perciò rallentare notevolmente, soprattutto grazie alla graduale diminuzione delle nascite nei Pvs. Per quanto riguarda i consumi energetici, secondo l’International Energy Agency, nel 2010 si è avuta una crescita del 5% nella domanda globale di energia primaria. In base alle previsioni dell’Agenzia, tra il 2010 e il 2035 la domanda di energia crescerà di un terzo. Il 90% dell’incremento sarà determinato da Paesi non appartenenti all’OCSE, cioè da Paesi in via di sviluppo la cui economia è attualmente in rapida crescita. In particolare la Cina, che è oggi il primo consumatore mondiale di energia ed è destinata in prospettiva a rafforzare il suo primato. Se ci si basa sulle tendenze attuali di crescita della popolazione e soprattutto dei consumi, il sovrasfruttamento ambientale sembra destinato inevitabilmente a inasprirsi nei prossimi decenni e la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio non potrà che essere negativa. (Tratto e adattato da: Massimiliano Crisci, Demografia. Dove ci porterà l’aumento della popolazione, http://is.pearson.it/magazine/demografia-dove-ci-portera-laumento-della-popolazione/, ultimo accesso 15 gennaio 2014) ",8.0,multipla 723,"C1. In quale delle seguenti frasi la parola “vicino” ha funzione di aggettivo? A. Vicino a noi abita il sindaco della città. B. Siediti qui vicino, così parliamo meglio.? C. Il mio vicino di casa è ripartito stanotte.? D. Il commissariato più vicino è alla stazione.",D,multiple choice,677.0,['item_677_0.png'],2016_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 724,"C3. Quale di queste parole contiene un dittongo (sequenza di due vocali appartenenti alla stessa sillaba)? A. Farmacia B. Paura C. Siamese D. Maestra",C,multiple choice,679.0,['item_679_0.png'],2016_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 725,"C5. In quale delle seguenti frasi mentre ha valore avversativo e non temporale? A. Mentre vado a scuola incontro sempre il mio vicino con il cane.? B. Stai sbagliando: ti lamenti mentre dovresti essere contento.? C. Ce la fai a riordinare la stanza mentre io vado a fare la spesa?? D. Il lupo arrivò mentre Cappuccetto Rosso stava raccogliendo fiori nel bosco.",B,multiple choice,681.0,['item_681_0.png'],2016_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 726,"C9. Scegli, fra quelle che seguono, la forma di cortesia adatta a chiudere una lettera indirizzata al preside (contesto formale). A. Sperando che possa rispondermi presto, le invio un cordiale saluto B. Ti ringrazio. Rispondimi presto. Cari saluti? C. Confidando in un Suo sollecito riscontro, Le dico ciao e a presto D. Grazie grazie grazie! Aspetto presto una risposta",A,multiple choice,685.0,['item_685_0.png'],2016_08_PN_C,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 727,"A3. Chi ha formulato i 5 livelli di veridicita`? A. L'autore dell'articolo B. Il sito Pagella Politica C. Il quotidiano ""la Repubblica"" D. Gli esponenti di un partito politico",B,multiple choice,688.0,['item_688_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,multipla 728,"A4. Chi consulta il sito Pagella Politica lo fa per A. Stabilire quanto siano vere e attendibili le dichiarazioni pubbliche B. Conoscere la verità su numeri, dati, eventi relativi a questioni sociali di rilevanza nazionale C. Confrontare le opinioni dei diversi leader politici sui temi di interesse pubblico D. Verificare se i politici mantengono le promesse fatte",A,multiple choice,689.0,['item_689_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,multipla 729,"A5. La parola “conclamata” (riga 4) in questo contesto equivale a A. Evidente B. Pubblica C. Approvata D. Invocata",A,multiple choice,690.0,['item_690_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,multipla 730,"A6. Che cosa si intende in questo contesto per “scientifico” (riga 12)? A. Credibile B. Vero C. Numerico D. Rigoroso",D,multiple choice,691.0,['item_691_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,multipla 731,"A8. La parola “Ovverosia” (riga 14) puo` essere sostituita con A. Dunque B. Oppure C. Cioè D. Quindi",C,multiple choice,693.0,['item_693_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,multipla 732," A9. L’espressione “per cialtroneria” (riga 15) significa A. Per scarso interesse B. Per ignoranza C. Per poca serietà D. Per cattiveria",C,multiple choice,694.0,['item_694_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,multipla 733,"A11. Qual e` la tesi dell’autore? A. I politici raccontano cose non vere specie quando fanno dichiarazioni pubbliche B. La cultura della verifica dei fatti è promossa dal web C. Per un giornalista è necessario consultare il sito Pagella Politica prima di riportare delle notizie D. La lettura della realtà contiene parti di verità e margini di errore",D,multiple choice,696.0,['item_696_0.png'],2016_10_SNV_A,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MICHELE SERRA Si moltiplica, anche grazie al web, la cultura del “fact checking”, ovvero la verifica dei fatti. Si tratta di vagliare il grado di veridicità delle dichiarazioni pubbliche, con speciale attenzione, come è ovvio, per le affermazioni dei politici. Interessante notare come esista una vera e propria gradazione della veridicità: tra la verità piena e la menzogna conclamata ci sono sfumature intermedie. L’ottimo sito Pagella Politica (https://pagellapolitica.it/), per esempio, ha stabilito cinque livelli: Vero C’eri quasi Ni Pinocchio andante Panzana pazzesca Non è un approccio del tutto “scientifico”, ma aiuta a ragionare sulla complessità della realtà, nonché sulla fatica di capirla e rispettarla. Ovverosia: esistono numeri, dati, eventi che sono proprio quelli, e contraffarli, per malafede o per cialtroneria, non è ammissibile. Ma nell’interpretazione di quei numeri, nel “racconto” che si fa della realtà, c'è un margine di errore (da veniale a grave) che fa parte del rischio di esprimersi. E dunque perfino il fact checking, che ha una sua indubbia oggettività d’approccio, sconsiglia una lettura manichea? della realtà. Non per caso sono i fanatici a incorrere, più spesso e più gravemente degli altri, nella menzogna totale. (Tratto e adattato da: La Repubblica, 4 gennaio 2014) ",10.0,multipla 734,"B1. Nel testo la rappresentazione del paesaggio coltivato passa da A. Allo scarso impegno del protagonista B. Al progressivo impoverimento della società contadina C. All'avvicinarsi della stagione invernale D. Al deterioramento della salute fisica del protagonista",A,multiple choice,698.0,['item_698_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 735,"B2. Con il secondo capoverso (righe 14-18) l’autrice intende A. Presentare una breve vicenda legata alla tradizione contadina B. Mettere in risalto la bravura del protagonista nel suonare il violino C. Sottolineare lo strano comportamento del protagonista D. Creare dentro la narrazione un'immagine insolita",C,multiple choice,699.0,['item_699_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 736,"B3. Gia` dal primo capoverso si capisce che il violino ha un ruolo importante nella relazione tra il Giai e sua moglie. Perche´? A. La moglie trova stridente la musica del violino e vorrebbe che il marito suonasse più spesso le furlane B. La moglie non condivide la passione esclusiva del marito per il violino e si sente trascurata C. La moglie pensa ai campi che vanno in rovina e rimprovera al marito il tempo sprecato a suonare il violino D. La moglie è scontenta del fatto che il marito suoni il violino per sé e per gli altri, e non per far divertire lei",B,multiple choice,700.0,['item_700_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 737,"B4. Nel periodo che va da riga 3 a riga 4 il verbo “suona” e` ripetuto tre volte. Qual e` la funzione di tale ripetizione? A. Sottolineare l'importanza attribuita e il tempo dedicato al violino nella vita del Giai B. Far sentire al lettore il suono insistito e monotono del violino che annoia la moglie del Giai C. Far capire al lettore che quelle del violino era una ridicola mania del Giai D. Far vedere che il Giai suona sempre il violino per non lavorare nei campi",A,multiple choice,701.0,['item_701_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 738,"B5. Nella frase “la strazia dolcemente” a che cosa si riferisce il pronome “la” (riga 8)? A. Alla moglie B. Alla musica C. All'ombra del noce D. Alla sera",D,multiple choice,702.0,['item_702_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 739,"B6. Chi si pone la domanda “Cos’altro si puo` raccontare...” (riga 19)? A. Il Mandrognin che racconta alla scrittrice la storia del Giai B. L'autrice del testo C. La moglie del Giai D. La famiglia della moglie su a Moncalvo che non ama il Giai",B,multiple choice,703.0,['item_703_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 740,"B8. Alla riga 29 si dice che “e` colpa sua”. E` colpa di chi? A. Del Giai B. Del violino C. Della moglie D. Della famiglia su a Moncalvo",C,multiple choice,705.0,['item_705_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 741,"B9. La “smania improvvisa” (riga 25) che prende il Giai che cosa e`? A. Il desiderio di prendere in mano il violino e di toccarne le corde B. La voglia di fuggire dai campi e dalla moglie C. La voglia di incontrare gli sguardi della moglie D. Il desiderio di rincorrere immagini sfuggenti e realtà immateriali",D,multiple choice,706.0,['item_706_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 742,"B10. Il Giai, nella prima parte del testo, viene accostato all’usignolo; la moglie, nell’ultima parte, al passero. I due uccelli nel testo stanno a significare A. l'usignolo l'arte sublime, il passero la quotidianità B. l'usignolo l'originalità, il passero il senso pratico C. l'usignolo l'andamento, il passero la socievolezza D. l'usignolo la felicità, il passero l'infelicità",A,multiple choice,707.0,['item_707_0.png'],2016_10_SNV_B,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Il Giai Non molte cose succedono nella vita di Giuseppe detto il Giai. Suona il violino e questa è certamente un'attività insolita per chi si deve occupare di tante moggia coltivate in parte a vigna e in parte a foraggio e grano. Suona con il bel profilo chino verso la spalla, suona la sera vicino al fuoco, suona l’estate all'ombra del noce. Le sere sono lunghe, umide, luminose, la moglie si annoia a star lì a sentire quelle note che sembrano rispondere al verso degli usignoli, non ama nessuna musica ad eccezione di furlane e la currenta perché si ballano. A lei nessuno la porta mai a ballare, e se il Giai ha sbagliato moglie, lei ha certamente sbagliato marito: l’archetto penetra la sera, la strazia dolcemente, il Giai è un tipo solitario e se viene qualcuno dice alla giovane moglie di offrirgli da bere mentre continua a suonare. Il giorno va per i campi con il bastone che è stato del Gran Masten?, ma invece di comandare di coprire i covoni se viene il temporale o di ripulire il canale dalle erbe, rimane a contemplare le colline. I rettangoli di terra, bruni, bruni più chiari, verdi, biondi, bianchi quasi come il latte là dove fioriscono i pruni e i ciliegi in primavera. Una sera si è seduto all'imboccatura del pozzo e lì si è messo a suonare il violino guardando le stelle riflettersi giù nel tondo specchio d’acqua. La moglie si è spaventata ed è corsa in casa piangendo, lui è rimasto a suonare con i piedi nel vuoto e quando il Mandrognin si è affacciato al giardino, vedendo quel busto uscire dal pozzo ha pensato che fosse tornato il Gran Masten mai stanco di sorvegliare la terra e la casa. Cos'altro si può raccontare di questo Giai morto a trent'anni con il suo violino accanto, i capelli ricci che tanto erano piaciuti alle due sorelle di Moncalvo, i piedi così delicati che si piagavano a camminare fra le zolle? Sempre più di rado va nei campi, i raccolti peggiorano ogni anno e il suo grano, la sua uva, perfino il miglio sono sempre più scarsi di quelli degli altri. Così le mucche sono spesso malate e i vitelli stentano a crescere. La moglie sempre a cercare di risparmiare, a contare e ricontare, a rammendare i panni che lui si strappa quando preso da una smania improvvisa traversa i fossi, le siepi di rovi. A inseguire un suono, una luce, lo scintillio dell’acqua fra i canneti. La moglie lo guarda: lui è allegro, ride, è bello con quella testa piena di ricci, e l’amore allora le torna a tremare in gola come quella prima volta che erano rimasti soli seduti sulla panca di pietra sotto i noccioli. La famiglia su a Moncalvo la rimprovera, è colpa sua dice se tutto va così male, perché non fa almeno un figlio? Ma i figli non vengono e lei pensa che la colpa è di quel violino, delle corde che vibrano nella sera sotto le dita sottili del Giai. E quando lui entra nel letto e la bacia sulla bocca, lei dorme, ha sonno, la tristezza e la solitudine le hanno succhiato via anche l’anima. Quando va in visita a Moncalvo la sorella la segue con lo sguardo mentre si aggira fra le stanze di quando era ragazza come un passero che abbia perduto il senso delle stagioni, che cerca l’inverno i cibi dell'estate. Nessuna delle due sa che a volte la vita fa strani giri e per ritrovarsi là dove era tanto facile arrivare, percorre infiniti labirinti. (Tratto e adattato da: Rosetta Loy, Le strade di polvere, Torino, Einaudi, 1987) ",10.0,multipla 743,"D2. Alla riga 3 l’espressione “per giunta” puo` essere sostituita con A. Inoltre B. Per esempio C. Tuttavia D. Però",A,multiple choice,711.0,['item_711_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,multipla 744,"D4. La parola “spartendo” alla riga 5 puo` essere sostituita con A. Propagando B. Distribuendo C. Concedendo D. Spargendo",B,multiple choice,713.0,['item_713_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,multipla 745,"D6. L’aggettivo “assidua” (riga 6) significa A. Veloce B. Puntuale C. Costante D. Saltuaria",C,multiple choice,715.0,['item_715_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,multipla 746,"D7. Secondo l’autore quale condizione piu` di ogni altra rende “meno difficile” la pratica della democrazia? A. La consapevolezza della necessità di rispettare gli altri B. La libertà e la parità delle opportunità tra uomini e donne C. Il dialogo e il confronto con gli altri D. L'impegno e la partecipazione assidua",A,multiple choice,716.0,['item_716_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,multipla 747,"D8. Il testo che hai letto e` un testo prevalentemente A. regolativo B. narrativo C. descrittivo D. argomentativo",D,multiple choice,717.0,['item_717_0.png'],2016_10_SNV_D,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La democrazia La democrazia non può essere un sistema di governo perfetto, perché come tutte le cose create e praticate dagli esseri umani è condizionata dalla loro imperfezione. La democrazia, per giunta, è ostacolata dagli egoismi, dalla sfiducia nella capacità delle persone, dalla pigrizia, dalla paura e da chissà quanti altri fattori. La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile. Nonostante i difetti degli uomini, nonostante gli intralci che frenano la sua realizzazione, la democrazia è però il sistema che più di tutti gli altri consente indifferentemente a ciascuna persona di avere libertà analoga a quella dei suoi simili. È la modalità di convivenza che come nessun'altra permette (o che meno di qualsiasi altra impedisce) a chiunque di percorrere il cammino verso la realizzazione personale, verso la ricerca della propria felicità [...]. La pratica della democrazia è difficile e faticosa perché ancora non si è diffuso a sufficienza l'apprezzamento per la parità delle opportunità e per la diffusione della libertà. Per troppi democrazia significa conquista dell'uguaglianza con chi ha maggiori possibilità, ma mantenimento della disuguaglianza con coloro che di possibilità ne hanno meno. È necessario che si modifichi questo atteggiamento mentale. E, come sempre è successo, via via che le persone prenderanno consapevolezza di quanto essenziale sia il rispetto della dignità e dell'uguaglianza (che vuol dire il rispetto degli altri), sarà per loro meno difficile impegnarsi e partecipare per attuare e conservare quotidianamente la democrazia. {Tratto e adattato da: Gherardo Colombo, Democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011) ",10.0,multipla 748,"E2. Nella sezione “Descrizione del prodotto” gli autori della scheda A. Riassumono e anticipano il contenuto del libro B. Descrivono il libro con giudizi entusiastici C. Promuovono il libro e ne mettono in evidenza il valore letterario D. Presentano i personaggi del libro e ne sottolineano il coraggio",A,multiple choice,721.0,['item_721_0.png'],2016_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scheda web di presentazione di un libro Il cavaliere inesistente di Italo Calvino pubblicato da Mondadori Prezzo: € 9,50 Edizioni e formati disponibili: Ebook € 6,99 Rilegato € 13,60 Libro € 10,08 Descrizione del prodotto Agilulfo, paladino di Carlomagno, è un cavaliere valoroso e nobile d’animo. Ha un unico difetto: non esiste. O meglio, il suo esistere è limitato all'armatura che indossa: lucida, bianca e... vuota. Non può mangiare, né dormire perché, se si deconcentra anche solo per un attimo, cessa di essere. Una storia ambientata nell’inverosimile medioevo dei romanzi cavallereschi, ma vicina più che mai alla realtà del nostro tempo. Dettagli Genere: Narrativa Editore: Mondadori Collana: Oscar junior Formato: Tascabile Pubblicato: 12/04/2010 Pagine: 182 Lingua: Italiano ISBN-13 9788804598886 Illustratore: F. Maggioni Recensione di una lettrice atena72 - 31/05/2013 04:13 La lucida armatura di Agilulfo è bianca come l’onore del nobile cavaliere che, per conservarlo, dovrà superare ostacoli e prove, come nella migliore tradizione. Ed il suo valore e la sua maestria saranno tanto notevoli e profonde, quanto evanescente ed eterea è la sua natura, la cui fisicità è indissolubilmente legata alla vuota armatura che si porta dietro. Pur non esistendo concretamente, Agilulfo suscita il più grande degli amori e il più grande degli odii. AI punto che, sembra molto più concreto lui, dei suoi superficiali e vanitosi commilitoni. E fino alla fine lotterà, per affermare la superiorità della nobiltà del suo animo e della sua esistenza. {Tratto e adattato da: http://www.inmondadori.it/Il-cavaliere-inesistente-Italo-Calvino/eai978880459888/; giugno 2014) ",10.0,multipla 749,"E4. La recensione di un libro e` A. Un resoconto fatto dall'autore per ottenere il permesso di pubblicazione B. Un articolo di giornale nel quale un lettore riassume il contenuto di un libro appena pubblicato C. La scheda informativa predisposta dai responsabili di un sito web per promuovere un libro di recente pubblicazione D. La presentazione di un libro accompagnata da valutazione critiche",D,multiple choice,723.0,['item_723_0.png'],2016_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scheda web di presentazione di un libro Il cavaliere inesistente di Italo Calvino pubblicato da Mondadori Prezzo: € 9,50 Edizioni e formati disponibili: Ebook € 6,99 Rilegato € 13,60 Libro € 10,08 Descrizione del prodotto Agilulfo, paladino di Carlomagno, è un cavaliere valoroso e nobile d’animo. Ha un unico difetto: non esiste. O meglio, il suo esistere è limitato all'armatura che indossa: lucida, bianca e... vuota. Non può mangiare, né dormire perché, se si deconcentra anche solo per un attimo, cessa di essere. Una storia ambientata nell’inverosimile medioevo dei romanzi cavallereschi, ma vicina più che mai alla realtà del nostro tempo. Dettagli Genere: Narrativa Editore: Mondadori Collana: Oscar junior Formato: Tascabile Pubblicato: 12/04/2010 Pagine: 182 Lingua: Italiano ISBN-13 9788804598886 Illustratore: F. Maggioni Recensione di una lettrice atena72 - 31/05/2013 04:13 La lucida armatura di Agilulfo è bianca come l’onore del nobile cavaliere che, per conservarlo, dovrà superare ostacoli e prove, come nella migliore tradizione. Ed il suo valore e la sua maestria saranno tanto notevoli e profonde, quanto evanescente ed eterea è la sua natura, la cui fisicità è indissolubilmente legata alla vuota armatura che si porta dietro. Pur non esistendo concretamente, Agilulfo suscita il più grande degli amori e il più grande degli odii. AI punto che, sembra molto più concreto lui, dei suoi superficiali e vanitosi commilitoni. E fino alla fine lotterà, per affermare la superiorità della nobiltà del suo animo e della sua esistenza. {Tratto e adattato da: http://www.inmondadori.it/Il-cavaliere-inesistente-Italo-Calvino/eai978880459888/; giugno 2014) ",10.0,multipla 750,"E5. Un libro dal formato tascabile e` un libro A. buono per tutte le tasche, e quindi molto economico B. di dimensione ridotte, solitamente in edizione economica C. di forma quadrata come le tasche di un vestito D. facile da maneggiare e poco curato nella veste tipografica",B,multiple choice,724.0,['item_724_0.png'],2016_10_SNV_E,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scheda web di presentazione di un libro Il cavaliere inesistente di Italo Calvino pubblicato da Mondadori Prezzo: € 9,50 Edizioni e formati disponibili: Ebook € 6,99 Rilegato € 13,60 Libro € 10,08 Descrizione del prodotto Agilulfo, paladino di Carlomagno, è un cavaliere valoroso e nobile d’animo. Ha un unico difetto: non esiste. O meglio, il suo esistere è limitato all'armatura che indossa: lucida, bianca e... vuota. Non può mangiare, né dormire perché, se si deconcentra anche solo per un attimo, cessa di essere. Una storia ambientata nell’inverosimile medioevo dei romanzi cavallereschi, ma vicina più che mai alla realtà del nostro tempo. Dettagli Genere: Narrativa Editore: Mondadori Collana: Oscar junior Formato: Tascabile Pubblicato: 12/04/2010 Pagine: 182 Lingua: Italiano ISBN-13 9788804598886 Illustratore: F. Maggioni Recensione di una lettrice atena72 - 31/05/2013 04:13 La lucida armatura di Agilulfo è bianca come l’onore del nobile cavaliere che, per conservarlo, dovrà superare ostacoli e prove, come nella migliore tradizione. Ed il suo valore e la sua maestria saranno tanto notevoli e profonde, quanto evanescente ed eterea è la sua natura, la cui fisicità è indissolubilmente legata alla vuota armatura che si porta dietro. Pur non esistendo concretamente, Agilulfo suscita il più grande degli amori e il più grande degli odii. AI punto che, sembra molto più concreto lui, dei suoi superficiali e vanitosi commilitoni. E fino alla fine lotterà, per affermare la superiorità della nobiltà del suo animo e della sua esistenza. {Tratto e adattato da: http://www.inmondadori.it/Il-cavaliere-inesistente-Italo-Calvino/eai978880459888/; giugno 2014) ",10.0,multipla 751,"F2. Quale delle forme seguenti può sostituire correttamente il pronome relativo “di cui” nella subordinata “di cui dispongono” (righe 2-3 del testo)? A. ? dei quali B. ? con cui C. ? che D. ? delle quali",D,multiple choice,727.0,"['item_727_0.png', 'item_727_1.png']",2016_10_SNV_F,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 752,"F3. Nell’espressione “A dispetto di questo limite” (riga 3 del testo) con che cosa potresti sostituire “A dispetto di”, lasciando inalterato il significato della frase? A. ? Nonostante B. ? A causa di C. ? Considerato D. ? In relazione a",A,multiple choice,728.0,"['item_728_0.png', 'item_728_1.png']",2016_10_SNV_F,2.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 753,"A2. Perché il costruttore di aquiloni ha dato il nome “Veloce-come-il-tuono” all’aquilone? A. era un nome che piaceva al costruttore di aquiloni B. era un nome perfetto per un aquilone C. era un nome giusto per un drago D. era un nome adatto al comportamento dell’aquilone",D,multiple choice,730.0,['item_730_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 754,"A3. Per spiegare a un tuo compagno che cosa vuole dire che un aquilone “prende bene il vento” (riga 8) diresti che A. l’aquilone usa tutta la spinta del vento B. l’aquilone rincorre con gioia il vento C. l’aquilone va più in fretta del vento D. l’aquilone raggiunge in fretta il vento",A,multiple choice,731.0,['item_731_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 755,"A4. Tieni conto della parte di testo da riga 12 a riga 17. Quale puo` essere il pensiero dell’aquilone quando si allontana da Giulio? A. ""Che disgrazia, il filo si è rotto!"" B. ""Che gioia correre per il cielo!"" C. ""Giulio mi chiama, devo tornare!"" D. ""Aiuto mi sono perso, come farò!?""",B,multiple choice,732.0,['item_732_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 756,"A5. L’aquilone incontra uno stormo di anatre. Perché all’aquilone piace l’idea di andare con loro verso Sud? A. Perché per l’aquilone è un posto nuovo B. Perché l’aquilone preferisce i paesi caldi C. Perché all’aquilone piace fare un lungo viaggio D. Perché l’aquilone spera di incontrare altri aquiloni",A,multiple choice,733.0,['item_733_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 757,"A6. Secondo l’anatra-capo, che cosa serve per resistere al vento del mare? A. Sapere starnazzare B. Avere penne e ossa C. Sbattere velocemente le ali D. Ubbidire al capo",B,multiple choice,734.0,['item_734_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 758,"A7. Che cosa significa che “l’aquilone se ne risentì”? A. L’aquilone si offese a sentire quelle parole B. L’aquilone finse di non capire quelle parole C. L’aquilone si allontanò dopo quelle parole D. L’aquilone sentì per due volte quelle parole",A,multiple choice,735.0,['item_735_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 759,"A8. “Sono un drago, e veloce come il tuono: se ce la fai tu, ce la faccio anche io” (righe 31-32). Perché l’aquilone risponde così all’anatra-capo? A. Per darsi delle arie e spaventare l’anatra B. Perché l’anatra gli stava antipatica C. Per fare una gara con l’anatra D. Perché si sentiva forte e sicuro di sé",D,multiple choice,736.0,['item_736_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 760,"A9. Le anatre “erano abituate a non contraddire mai il capo” (riga 34). “Non contraddire mai il capo” significa A. non ribellarsi mai a quello che dice il capo B. non dire mai qualcosa di male sul capo C. non fidarsi mai di quello che dice il capo D. non ubbidire mai a quello che dice il capo",A,multiple choice,737.0,['item_737_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 761,"A10. L’anatra-capo dice all’aquilone: “Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela!” (righe 35-36). Queste parole fanno capire che A. l’anatra invita l’aquilone a farle vedere come sbatte le ali B. l’anatra pensa che le ali di tela dell’aquilone siano belle da vedere C. l’anatra è convinta che le ali dell’aquilone si romperanno D. l’anatra spera che l’aquilone riuscirà a resistere alla forza del vento",C,multiple choice,738.0,['item_738_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 762,"A11. “… e fu proprio allora che lui uscì fischiando” (righe 38-39). Chi è “lui”? A. L’aquilone B. Il mattino C. L’anatra-capo D. Il vento del mare",D,multiple choice,739.0,['item_739_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 763,"A12. Che cosa fanno le anatre quando arriva il vento del mare? A. Le anatre si sparpagliano e volano in tutte le direzioni B. Le anatre si mettono intorno all’aquilone e lo proteggono C. Le anatre si avvicinano l’una all’altra e seguono l’anatra-capo D. Le anatre si nascondono dietro al promontorio e aspettano che il vento passi",C,multiple choice,740.0,['item_740_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 764,"A13. Il testo dice: “Fu una lotta tremenda e disuguale”. Perché la lotta fu disuguale? A. Perché il vento era più rumoroso dell’aquilone B. Perché il vento era più attento dell’aquilone C. Perché il vento era più furbo dell’aquilone D. Perché il vento era più forte dell’aquilone",D,multiple choice,741.0,['item_741_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 765,"A14. La frase “Ne uscì tutto strappato” vuol dire che l’aquilone uscì tutto strappato A. dal mare B. dalla corsa C. dalla lotta D. dal promontorio",C,multiple choice,742.0,['item_742_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 766,"A15. Dopo lo scontro con il vento, l’anatra-capo dice all’aquilone: “Però! Hai del coraggio.” (riga 48). Che cosa aggiungeresti a queste parole per fare capire in che modo l’anatra ha parlato all’aquilone? A. “Però! – gli disse con sorpresa l’anatra-capo – hai del coraggio” B. “Però! – gli disse con rabbia l’anatra-capo – hai del coraggio” C. “Però! – gli disse con invidia l’anatra-capo – hai del coraggio” D. “Però! – gli disse con preoccupazione l’anatra-capo – hai del coraggio”",A,multiple choice,743.0,['item_743_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 767,"A16. “– Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni …” (righe 48-49). L’anatra non conclude la frase. Se l’anatra l’avesse conclusa, che cosa avrebbe detto? A. “Ho sempre pensato che gli aquiloni fossero paurosi” B. “Ho sempre pensato che gli aquiloni fossero rapidi” C. “Ho sempre pensato che gli aquiloni fossero capricciosi” D. “Ho sempre pensato che gli aquiloni fossero vanitosi”",A,multiple choice,744.0,['item_744_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 768,"A19. Quale altro nome potremmo dare all’aquilone dopo avere letto le sue avventure? A. Docile-come-un-agnello B. Combattivo-come-un-leone C. Leggero-come-una-piuma D. Furbo-come-una-volpe",B,multiple choice,747.0,['item_747_0.png'],2014_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"VELOCE-COME-IL-TUONO C’era una volta un uomo che di mestiere faceva il costruttore di aquiloni. Un giorno costruì un aquilone più bello di tutti gli altri, un grande drago dalle ali verdi e blu e dalla coda verde, che guizzava di qua e di là come un serpente. – Ti chiamerò «Veloce-come-il-tuono», – disse la prima volta che lo lanciò in aria, perché il drago-aquilone saliva in cielo rapidissimo, battendo le ali e agitando la coda. Poi, se prendeva bene il vento, si metteva a correre, veloce come il tuono. Questo aquilone fu regalato a un bambino che si chiamava Giulio, il quale subito se ne innamorò. Giulio passava ore e ore su un prato a lanciare l’aquilone e poi a seguirlo nel volo, e sognava di volare insieme a lui. Ma una volta il lungo filo che teneva in mano si spezzò e Veloce-come-il-tuono si perse nel cielo. Giulio lo chiamò disperato. Ma l’aquilone era troppo felice di muoversi nel cielo senza essere legato a una corda, per ascoltarlo. Salì più in alto e si spostò di qua e di là nel cielo. A un certo punto incontrò uno stormo di anatre in picchiata. – Spostati, – gli disse brusca l’anatra-capo, – che non abbiamo tempo da perdere. – Dove andate? Il capo non rispose, ma un’anatra più gentile e chiacchierona gli disse: – Al Sud, nei paesi dove fa caldo. Vuoi venire con noi? – Perché no? – rispose l’aquilone. – Al Sud non ci sono ancora stato. – Non ce la farai mai, – gli disse l’anatra-capo guardandolo con disprezzo. – Non hai penne, non hai ossa, non ce la farai mai contro il vento del mare, ti farà a brandelli. L’aquilone se ne risentì. – Sono un drago, e veloce come il tuono:se ce la fai tu, ce la faccio anch’io. Per tutta risposta l’anatra starnazzò e con lei tutte le altre, che erano abituate a non contraddire mai il capo. – Vieni, allora, accomodati. Vedremo che cosa farai con le tue ali di tela! Il vento del mare li aspettava nascosto dietro un promontorio. Le anatre e l’aquilone volavano dal mattino ed erano stanchi, e fu proprio allora che lui uscì fischiando. – Stringetevi! – urlò l’anatra-capo a tutto lo stormo. – A testa bassa e a tutta forza: guai a chi rimane indietro! Anche l’aquilone si avvicinò a loro, ma quando l’anatra lo vide strillò: – Via tu, cosa c’entri con noi? Non sei un drago? Arrangiati! Veloce-come-il-tuono rimase solo contro il vento del mare che gli si scagliò addosso furibondo. Fu una lotta tremenda e disuguale: prima gli lacerò le ali, poi la coda, infine la cresta. Ne uscì tutto strappato, ma il vento non riuscì a distruggerlo. – Però! – gli disse l’anatra-capo, – hai del coraggio. Ho sempre pensato che gli aquiloni… In fondo che cosa sono gli aquiloni e a cosa servono? – A fare felici i bambini, – rispose il drago-aquilone, – e adesso me ne torno a casa. Gli era venuta una gran voglia distare attaccato al filo e di vedere Giulio in basso che gridava: «Vai, Veloce-come-il-tuono, vai!!». Ma Giulio lo avrebbe accettato di nuovo, così malridotto com’era? (Tratto e adattato da: Angela Nanetti, “Venti … e una storia”, San Dorligo della Valle, einaudi Ragazzi, © 2007) ",2.0,multipla 769,"A2. Come si comporta il ragazzo appena arriva in città? A. È intimorito dal gran movimento che vede intorno a sé B. Non sa dove andare e cerca qualcuno a cui chiedere informazioni C. Si guarda intorno e resta ammirato da quello che vede D. Vuole conoscere alcune cose ma non sa dove cercarle",C,multiple choice,752.0,['item_752_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 770,"A3. “…non ne aveva viste in tutto il suo viaggio” (riga 5). Che cosa non aveva visto il ragazzo? A. Città ricche di commerci come quella in cui l’aveva portato il suo viaggio B. Case grandi e belle come quella che aveva attirato la sua attenzione C. Navi ondeggianti come quelle che aveva ammirato nel porto D. Persone indaffarate come quelle della città in cui era arrivato",B,multiple choice,753.0,['item_753_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 771,"A4. “– Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa…?” (righe 10-11). Nel rivolgere questa domanda al passante, il ragazzo non tiene conto di una cosa che è importante per quello che succede dopo. Di che cosa si tratta? A. Il passante poteva non conoscere la lingua che lui parlava B. Il passante poteva non voler parlare con uno sconosciuto C. Il passante poteva avere un impegno urgente da sbrigare D. Il passante poteva avere voglia di fargli uno scherzo",B,multiple choice,754.0,['item_754_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 772,"A5. A riga 13 c’è la parola “interlocutore”. Chi è l’interlocutore di cui si parla? A. Il passante B. Il giovane apprendista C. Kannitverstan D. L’amico",B,multiple choice,755.0,['item_755_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 773,"A6. “Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco»” (riga 15). Perché l’autore inserisce questa informazione nel testo? A. Perché vuole mostrare al lettore di conoscere le lingue B. Perché vuole fornire al lettore una spiegazione indispensabile C. Per aumentare la curiosità e l’attesa del lettore D. Per avvertire il lettore che l’olandese è una lingua difficile",B,multiple choice,756.0,['item_756_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 774,"A7. E il ragazzo pensò: “Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo” (riga 30). A chi sta pensando il ragazzo? A. Al passante che aveva incontrato appena arrivato in città B. A una delle navi arrivate al porto C. Alla persona a cui aveva assegnato quel nome D. Al tipo con una cassa sulle spalle",C,multiple choice,757.0,['item_757_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 775,"A9. “ …domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci” (righe 27-29). Perché il giovane ritiene che il proprietario delle casse scaricate dalla barca sia fortunato? A. Perché quelle casse sono arrivate in regalo al proprietario senza che se le aspettasse B. Perché tutta quella merce è un vero spettacolo e attira molta gente C. Perché così tanta merce abbondante e preziosa lui non ce l’avrà mai D. Perché quelle casse vengono scaricate senza che il proprietario faccia nessuna fatica",C,multiple choice,759.0,['item_759_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 776,"A12. Perché il ragazzo “si scusa sentitamente” (riga 45) quando tira per il cappotto l’ultimo del seguito? A. Perché ha capito di aver interrotto il calcolo di quella persona e di averla fatta sbagliare B. Perché crede che quella persona sia triste e non vuole disturbare il suo dolore C. Perché ha visto che quella persona è seria e pensa che sia un tipo che si arrabbia D. Perché si sente intimidito da quella persona e ha paura di ricevere una risposta poco gentile",B,multiple choice,762.0,['item_762_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 777,"A13. “Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri” (righe 59-60). Perché il giovane sente il cuore più leggero? A. Perché ha avuto l’informazione che cercava B. Perché finalmente può andare in un’osteria a mangiare C. Perché non è più solo e può visitare la città insieme agli altri D. Perché non è più tormentato dall’invidia verso chi è ricco",D,multiple choice,763.0,['item_763_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 778,"A15. Quale parola è più adatta a far capire il tipo di errore che ha fatto il protagonista? A. Equivoco B. Colpa C. Disattenzione D. Imprudenza",A,multiple choice,765.0,['item_765_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 779,"A16. Quale verità arriva a conoscere il giovane apprendista? A. Le città sono piene di case lussuose, navi cariche di merci e uomini indaffarati B. La vita di chi è ricco finisce come quella di chi è povero C. Quando arrivi in un paese straniero, riesci a comunicare anche se non conosci la lingua D. Ci sono persone più fortunate di altre",B,multiple choice,766.0,['item_766_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 780,"A17. L’autore avrebbe potuto inserire la frase riportata nel riquadro a sinistra in un altro punto del testo. Quale? A. Dopo la parte in cui il giovane vede il palazzo B. Dopo la parte in cui il giovane incontra il passante C. Dopo la parte in cui il giovane arriva al porto D. Dopo la parte in cui il giovane partecipa al funerale",D,multiple choice,767.0,['item_767_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 781,"A18. La fine del racconto lascia qualcosa di non detto. Che cosa devi aggiungere per capire quello che l’autore intende dire? Parte finale del racconto: “e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam... A. ...e allora si consolò perché aveva capito che lui e il signor Kannitverstan alla fine non erano poi così diversi.” B. ...e allora pensò che aveva ragione ad essere invidioso del signor Kannitverstan.” C. ...e allora decise che avrebbe cercato qualcun altro da ammirare per non pensare più al signor Kannitverstan.” D. ...e allora ricominciò a piangere perché il signor Kannitverstan non c’era più.”",A,multiple choice,768.0,['item_768_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 782,"A19. Come definiresti questa storia? A. È la storia di un viaggio in una città interessante e movimentata B. È la storia di una parola strana C. È la storia di un fraintendimento che aiuta a vederci chiaro D. È la storia di un’amicizia mancata",C,multiple choice,769.0,['item_769_0.png'],2014_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Kannitverstan Fu così che un giorno ad Amsterdam un giovane apprendista artigiano di errore in errore giunse alla conoscenza della verità. Ciò accadde perché quando egli arrivò in questa grande e ricca città di commerci, piena di case lussuose, navi ondeggianti e uomini indaffarati, il suo sguardo fu colpito da una casa grande e bella come ancora non ne aveva viste in tutto il suo viaggio da Tuttlingen ad Amsterdam. A lungo osservò stupito quel magnifico palazzo, con i sei comignoli sul tetto, con i ricchi cornicioni e le finestre alte, più alte della porta della casa di suo padre, e alla fine non poté fare a meno di chiedere informazioni a un passante. – Buon amico, – gli disse, – mi saprebbe dire come si chiama il proprietario di questa splendida casa con le finestre piene di tulipani, aster e violaciocche? Però l’uomo, che probabilmente aveva qualcosa di più importante da fare e purtroppo capiva il tedesco tanto quanto il suo interlocutore capiva l’olandese, ossia nulla, disse sbrigativo: – Kannitverstan, – e se ne andò. Era una parola olandese, che tradotta in italiano vuol dire: «Non capisco». Il giovane straniero però credette che quello fosse il nome del proprietario del quale aveva chiesto notizie. «Deve essere un uomo ricchissimo, questo signor Kannitverstan», pensò e quindi proseguì. Di vicolo in vicolo, finalmente giunse al golfo «Het Ey» o, in italiano, «La Ipsilon». C’erano barche su barche, alberi maestri a non finire e, all’inizio, il giovane non sapeva come farsi strada con soli due occhi tra tutte quelle meraviglie, né come riuscire a guardarle abbastanza a lungo, finché una grande barca attirò la sua attenzione. Era arrivata da poco dall’India orientale e aveva appena attraccato. Sulla banchina c’erano già file intere di casse, una accanto all’altra e una sopra l’altra. Altre ancora venivano fatte rotolare fuori: botti piene di zucchero e di caffè, di riso, di pepe, di liquirizia. Quando ebbe osservato abbastanza lo spettacolo, domandò a un tipo che aveva una cassa sulle spalle, come si chiamava il fortunato al quale il mare portava tutte quelle merci. – Kannitverstan, – fu la risposta. E il ragazzo pensò: «Ha, ha! Guarda un po’ chi salta fuori di nuovo. Non c’è da stupirsi che possieda case di quelle fattezze e tenga davanti alla finestra tulipani nei vasi d’oro, l’uomo al quale il mare porge tali ricchezze!» Tornò indietro e osservò molto tristemente tra sé quanto lui fosse povero tra tanta gente ricca al mondo. Stava pensando: «Ah! Se anch’io potessi un giorno stare così bene come il signor Kannitverstan!» quando girò l’angolo e vide un lungo corteo funebre. Quattro cavalli bardati di nero tiravano una bara coperta da un telo nero, lentamente e tristemente come se sapessero che stavano accompagnando un morto alla pace eterna. Seguiva un folto gruppo di amici e conoscenti del defunto, due a due, ammutoliti e avvolti nei loro cappotti neri. In lontananza si udiva il suono di una campana. Il ragazzo fu preso da quella malinconia che assale qualsiasi buon uomo che veda una bara, e rimase con il cappello in mano, assorto, finché il corteo fu passato. Poi si avvicinò all’ultimo del seguito, il quale stava calcolando tra sé quanto avrebbe potuto guadagnare con il suo cotone se avesse rialzato il prezzo di dieci fiorini per ogni mezzo quintale. Il ragazzo lo tirò per il cappotto, si scusò sentitamente e disse: – Deve essere stato un suo buon amico, l’uomo per cui ora suona la campana e che lei segue preoccupato e pensieroso. – Kannitverstan! – fu la risposta. Un paio di grosse lacrime bagnarono il viso del nostro viandante di Tuttlingen, e il cuore gli si fece pesante e leggero allo stesso tempo. – Povero Kannitverstan! – gridò. – Cosa ti resta di tutte le tue ricchezze? Hai quello che avrò un giorno anch’io nella mia povertà: un abito da morto e un telo di lino, e di tutti quei tuoi bei fiori forse una pianta di rosmarino o una pianta di ruta sul freddo petto. Immerso in questi pensieri, accompagnò il cadavere fino alla tomba, come se fosse stato un suo caro, assistette mentre colui che credeva il signor Kannitverstan veniva calato giù nella sua ultima dimora, e la predica in olandese, della quale non capì neanche una parola, lo commosse più di tante in tedesco alle quali non aveva mai prestato attenzione. Infine, con il cuore più leggero, andò via insieme agli altri, entrò in una locanda dove capivano la sua lingua e mangiò con appetito un pezzo di formaggio Limburger e, quando stava per rattristarsi di nuovo al pensiero di quante persone ricche ci fossero al mondo mentre lui era così povero, gli tornò in mente il signor Kannitverstan di Amsterdam, la sua grande casa, la sua nave ricca e la sua fossa stretta. (Tratto e adattato da: Johann Peter Hebel, Kannitverstan, in “Era una notte buia e tempestosa”, Einaudi Ragazzi, 2002) ",5.0,multipla 783,"B1. Il titolo del primo paragrafo è una domanda: “Perché dormiamo?”. L’autore introduce la risposta a questa domanda con altre domande. Per quale motivo? A. Per vedere che cosa il lettore conosce già sull’argomento B. Per fare capire al lettore che si tratta di un testo di carattere scientifico C. Per invitare il lettore ad affrontare l’argomento ponendosi problemi D. Per mostrare al lettore che ci sono domande a cui la scienza non sa rispondere",C,multiple choice,770.0,['item_770_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 784,"B4. Perché il primo paragrafo si conclude con la frase “... quanto sono ricche di impegni le nostre notti!” (riga 14)? Perché prima si dice che A. durante il sonno succedono molte cose nel corpo e nella mente B. durante la notte continuiamo a pensare agli impegni della giornata C. durante il sonno ci agitiamo quando i sogni sono paurosi D. durante la notte ci vengono più idee che durante il giorno",A,multiple choice,773.0,['item_773_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 785,"B6. Tenendo conto di quello che hai letto nel secondo paragrafo, puoi dire che A. tutti i ragazzi hanno bisogno di andare a dormire alla stessa ora B. alcuni ragazzi hanno bisogno di dormire in una stanza buia C. tutti i ragazzi hanno bisogno di dormire lo stesso numero di ore D. alcuni ragazzi hanno bisogno di andare a dormire prima di altri",D,multiple choice,775.0,['item_775_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 786,"B7. Il terzo paragrafo dice che il letargo serve allo scoiattolo del deserto per A. sopravvivere al caldo torrido B. riprendere le forze esaurite nella ricerca di cibo C. trovare riparo dalla luce abbagliante D. nascondersi dai predatori del deserto",A,multiple choice,776.0,['item_776_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 787,"B9. Nel terzo paragrafo si dice che “lo scoiattolo condivide questa abitudine con altri animali” (riga 46). Questo fa capire che A. lo scoiattolo e altri animali imparano molte abitudini gli uni dagli altri B. lo scoiattolo trova un modo per comunicare ad altri animali che va in letargo C. lo scoiattolo ha bisogno di vivere insieme ad altri animali D. lo scoiattolo e altri animali vanno in letargo nella stessa stagione",D,multiple choice,778.0,['item_778_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 788,"B10. Nel quarto paragrafo l’espressione “rimanere in apnea” (riga 54) significa A. rimanere immobile B. rimanere in stato di allerta C. rimanere senza respirare D. rimanere addormentato",C,multiple choice,779.0,['item_779_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 789,"B11. Nel quarto paragrafo si dice che il cervello dei delfini dorme una metà per volta. Perché i delfini dormono così? A. Perché sono mammiferi che vivono nell’acqua B. Perché cacciano rimanendo in apnea C. Perché hanno bisogno di muoversi in continuazione D. Perché hanno un cervello molto semplice",A,multiple choice,780.0,['item_780_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 790,"B12. Che ruolo hanno i grandi punti esclamativi a destra delle righe alla fine di ciascun paragrafo? A. Attirare l’attenzione su quelle informazioni B. Indicare che quelle sono le informazioni più importanti C. Avvertire che si tratta di informazioni per esperti D. Far capire che non è necessario leggere quelle informazioni",A,multiple choice,781.0,['item_781_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 791,"B13. Rispetto al testo le immagini servono A. ad aggiungere informazioni sul sonno che nel testo non sono presenti B. a spiegare le informazioni che il testo fornisce C. a illustrare qualcosa in relazione con quanto si dice nel testo D. a distrarre il lettore dal testo",C,multiple choice,782.0,['item_782_0.png'],2014_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Perché dormiamo? È il nostro cervello che ci obbliga a farlo! … ma per quale ragione? Per riposarsi? Certamente. In realtà, durante il sonno, è vero che alcuni organi rallentano la loro attività, altri, invece, si attivano! Ad esempio, nei bambini e negli adolescenti, è proprio durante il sonno che viene secreto in maggior quantità l’ormone della crescita. Per eliminare lo stress? Certamente. Durante la notte i nostri muscoli si rilassano e anche la psiche si riprende dalle fatiche quotidiane. Per consolidare quanto abbiamo imparato durante la veglia? In effetti gli studenti, quando rileggono un’ultima volta la lezione prima di addormentarsi, ottengono, al mattino, risultati migliori … Riposarsi, crescere, imparare … … quanto sono ricche di impegni le nostre notti! Per gli antichi Greci il sonno rappresentava semplicemente il contrario della veglia, dell’atività umana. Il dio del sonno, Hypnos, era infati il fratello di Thanatos, il dio della morte; entrambi rendevano l’uomo immobile, totalmente inativo! Sei un tipo notturno o mattiniero? Andare a letto presto, andare a letto tardi, alzarsi presto, alzarsi tardi; ma siamo veramente liberi di scegliere? Tutti noi possediamo nascosto nel cervello un «orologio biologico», che ci induce il sonno quando viene buio e che ci risveglia la mattina, dopo che abbiamo dormito abbastanza. Alcuni certamente più sensibili ai cambiamenti di luce hanno un orologio che «va avanti» e tendono ad andare a dormire e ad alzarsi presto. Altri, invece, hanno un orologio che «va indietro» e li porta a posticipare il momento di andare a letto e quello della sveglia. Tale orologio è «tarato» geneticamente e quindi non rispettare i ritmi non è molto facile: signittca andare contro natura! L’orologio biologico compie spontaneamente un giro in 23 o 25 ore, a seconda degli individui, ma si regola quoffdianamente sulle 24 ore grazie all’alternanza giorno-notte percepita dai nostri occhi. Sonno d'estate Dormire per resistere alla siccità? È l’astuta strategia adottiata dallo scoiattiolo del deserto … Quando arriva la stagione più calda, questo piccolo mammifero, al fresco della sua tana sotterranea, cade in un sonno profondo. Per economizzare acqua e energia, la temperatura del suo corpo si abbassa e il ritmo cardiaco e quello respiratorio rallentano sino a dimezzarsi. Vivrà così, al rallentatore, per tutta l’estate. Solo quando la temperatura esterna sarà tornata a valori più sopportabili lo scoiattolo uscirà dalla sua tana. Qualcuno va in letargo per superare la stagione fredda, qualcuno per sopravvivere a quella troppo calda … quantti dormiglioni! Lo scoiattolo del deserto condivide questa abitudine con altri animali: alcune specie di serpenti, tartarughe e rospi … Dormire con un solo occhio Come tutti gli animali anche il delfino dorme … ma in un modo davvero strano! Nonostante viva nell’acqua, il delttno non è un pesce, ma un mammifero. Come tutti noi, necessita dell’ossigeno dell’aria e quindi riemerge per respirare ogni 3 minuti circa. Naturalmente, ad esempio quando caccia, può rimanere in apnea, ma mai più di 15 minuti! Ma allora … come fa a respirare quando dorme? Molto semplice! Il suo cervello dorme una metà per volta! In tal modo, una metà del suo corpo rimane attiva e gli permette di muoversi e di riemergere per respirare. Quello che si dice dormire con un occhio solo! Gli uccelli migratori, ad esempio gli albatros o i rondoni, possono viaggiare giorni e giorni prima di raggiungere la loro meta. Per riposarsi in volo senza smettere di battere le ali e per non precipitare al suolo, fanno quindi come i delttni: dormono con un occhio solo! (Tratti da: Piccola biblioteca di scienza diretta da Elena Ioli, Perché?, Bari, Edizioni Dedalo, 2006) ",5.0,multipla 792,"C2. Ognuno dei seguenti gruppi di aggettivi è formato da sinonimi. In quale gruppo c’è un intruso? A. povero – misero – bisognoso – scoraggiato B. tenue – fioco – flebile – debole C. malvagio – crudele – perfido – cattivo D. cocciuto – caparbio – ostinato – testardo",A,multiple choice,785.0,['item_785_0.png'],2014_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 793,"C3. Indica la frase scritta in modo corretto. A. A malinquore ho interrotto l’esercizio di scienze B. A malincuore ho interrotto l’esercizio di scienze C. A malincuore ho interrotto l’esercizzio di scienze D. A malincuore ho interrotto l’esercizio di scenze",B,multiple choice,786.0,['item_786_0.png'],2014_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 794,"C4. Nel seguente periodo, quanti sono i verbi? “Agnese dormiva ancora, quando il gatto balzò sul letto, le andò vicino e, leccandole la mano che aveva posato sul cuscino, la svegliò”. A. Quattro B. Cinque C. Sei D. Sette",C,multiple choice,787.0,['item_787_0.png'],2014_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 795,"C7. In quale delle seguenti frasi “fragole” ha funzione di soggetto? A. Maria ha raccolto le fragole nel bosco B. Nel bosco sono nate le fragole C. Abbiamo mangiato le fragole con la panna D. Mi piace la marmellata di fragole",B,multiple choice,790.0,['item_790_0.png'],2014_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 796,"C9. Indica i tempi dei verbi nella frase che segue. “La storia racconta che Pinocchio vide la fata Turchina alla finestra: lo guardava severa per tutte le bugie che aveva detto”. A. Passato remoto, imperfetto, trapassato remoto, presente B. Presente, imperfetto, passato remoto, trapassato remoto C. Presente, passato remoto, imperfetto, trapassato prossimo D. Passato remoto, futuro semplice, imperfetto, presente",C,multiple choice,792.0,['item_792_0.png'],2014_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 797,"A3. Quale di queste espressioni non è un sinonimo di “all’imbrunire” (riga 5)? A. Al crepuscolo B. Al tramonto C. Sul far della sera D. A notte fonda",D,multiple choice,796.0,['item_796_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 798,"A4. Che cosa si vuole mettere in evidenza nella descrizione di ciò che il protagonista vede durante “il viaggio” in bicicletta (righe 5-13)? A. La coesistenza di aspetti in contrasto fra loro B. La bellezza delle città portuali di tutto il mondo C. La varietà delle persone che affollano le strade D. L’eleganza e la modernità degli edifici del centro",A,multiple choice,797.0,['item_797_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 799,"A5. L’espressione “vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo” (righe 12-13) significa che i passanti A. si muovono nello stesso spazio, alcuni rapidamente e altri lentamente B. sono fisicamente vicini ma non comunicano fra loro C. percorrono le stesse strade ma è come se vivessero in epoche diverse D. condividono gli stessi luoghi ma hanno ritmi di vita differenti",C,multiple choice,798.0,['item_798_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 800,"A7. Quale delle seguenti frasi descrive meglio il comportamento del protagonista? A. È presuntuoso e si dà delle arie, trattando i compagni con sufficienza B. Alterna momenti in cui apprezza la solitudine ad altri in cui ricerca la compagnia dei coetanei C. Rifiuta i compagni perché si prendono gioco di lui D. È talmente impegnato nella lettura e nello studio che non trova il tempo per giocare con i coetanei",B,multiple choice,800.0,['item_800_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 801,"A8. Che cosa dà fastidio ai compagni nel comportamento del protagonista? A. Il fatto che si atteggi a intellettuale B. Il suo desiderio di diventare un uomo colto C. Il fatto che non accetti i loro inviti D. Il suo amore per la lettura",A,multiple choice,801.0,['item_801_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 802,"A10. La frase “L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci” (riga 32) significa A. d’estate litigavamo per motivi diversi B. d’estate non avevamo più tempo per bisticciare fra noi C. d’estate ponevamo temporaneamente fine ai nostri litigi D. d’estate facevamo un accordo tra noi",C,multiple choice,803.0,['item_803_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 803,"A11. A che cosa si riferisce la “distanza” di cui si parla alla riga 37? A. Alla lontananza della nuova scuola dal sobborgo dove vive il protagonista B. Alla differenza tra la precedente esperienza scolastica del protagonista e la nuova C. Alla diversità di comportamenti e di aspirazioni tra il protagonista e i compagni D. Al profondo distacco tra l’infanzia e l’adolescenza del protagonista",C,multiple choice,804.0,['item_804_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 804,"A13. L’aggettivo “facoltoso” (riga 40) significa A. che ha frequentato una facoltà universitaria B. che ha larghe disponibilità finanziarie C. che ha la facoltà di prendere decisioni importanti D. che ha raggiunto la fama e la notorietà",B,multiple choice,806.0,['item_806_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 805,"A14. Quando il protagonista va alla scuola secondaria si assiste a un rovesciamento delle parti nella relazione con i coetanei. Infatti A. prima era lui a sentirsi superiore ai coetanei, ora è lui a essere emarginato B. prima era lui a farsi gioco dei compagni, ora è lui a essere offeso C. prima era lui a essere molto ricco, ora è il più povero della scuola D. prima era lui il più studioso, ora trova compagni più bravi di lui",A,multiple choice,807.0,['item_807_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 806,"A16. “Esasperato” (riga 44) significa A. sopraffatto B. fortemente irritato C. umiliato D. molto addolorato",B,multiple choice,809.0,['item_809_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 807,"A17. Il protagonista rimane colpito dal fatto che il compagno non conosca il libro che lui gli cita. Perché, dopo la sorpresa, prova un sentimento di felicità e gioia? A. Perché ha compreso che la vera superiorità è quella intellettuale B. Perché è riuscito a umiliare il compagno che lo offendeva C. Perché la consapevolezza della vittoria sul compagno ha dissolto la rabbia di poco prima D. Perché ha capito che nessun uomo, ricco o povero che sia, è superiore a un altro",A,multiple choice,810.0,['item_810_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 808,"A19. Il “nodo spinoso” (riga 56) che sale alla gola del protagonista è A. il rimpianto per ciò che nella vita aveva sperato di ottenere ma non è stato capace di raggiungere B. la nostalgia per i luoghi della sua infanzia C. il dolore per le sofferenze patite D. il dispiacere per avere speso l’infanzia sui libri invece che in compagnia con gli amici",B,multiple choice,812.0,['item_812_0.png'],2014_08_PN_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa vicino al mare Dopo la partenza di mio padre, noi tre e la mamma eravamo andati a stare dai nonni paterni, in una grande casa dove abitava un mucchio di gente, alcuni dell’età dei miei genitori e poi una piccola folla di cugini e cugine. Era una modesta casa di periferia che aveva però l’innegabile pregio di essere poco distante dal mare; per questo potevo vedere l’andirivieni delle navi e la luce del faro mi faceva compagnia dall’imbrunire all’alba. Il viaggio in bicicletta fino alla punta del promontorio durava all’incirca un quarto d’ora e mi offriva la vista di quel miscuglio di meraviglie e miserie che sono le città portuali di tutto il mondo, ma ancora di più quelle della costa mediterranea dell’Africa. Palazzi candidi, testimoni di un’ostentata eleganza coloniale, ora condomini per benestanti o sedi di uffici, si alternavano a edifici moderni del centro. Sui marciapiedi la gente andava e veniva per i fatti suoi, donne velate camminavano fianco a fianco con donne vestite all’europea, impiegati in giacca e cravatta sfioravano vecchi venditori di frutta con il carretto tirato dall’asino, vicini nello spazio ma separati da una crepa del tempo. Dalla parte opposta a quella da cui arrivavo io c’era la distesa delle raffinerie, delle fabbriche, gli impianti per il gas, il porto, ma non mi avventuravo mai fin là con la mia piccola bicicletta, non avrei saputo che farci e poi m’incuteva anche un po’ di paura. Dopo la visita al faro, riprendevo la via di casa: man mano che mi avvicinavo al nostro sobborgo, le costruzioni apparivano più povere e le rare automobili erano sgangherate. Non si vedevano più tanti giardini e fontane, e nemmeno le sedie dei caffè. Le porte dei modesti edifici calcinati dal sole ricordavano le valve di un mollusco, socchiuse a proteggere l’ombra di piccole botteghe. L’immobilità polverosa sussurrava di un deserto invisibile eppure presente, con il suo respiro di drago. Nel pomeriggio, quando studiavo, in casa c’erano soprattutto donne, e fra queste mia madre. Mio fratello grande aveva trovato un lavoro provvisorio e mia sorella, che era più piccola di me e aveva meno compiti, era a giocare con la folla di cugini e cugine. Io amavo starmene in disparte, magari a leggere, e spesso rifiutavo gli inviti dei coetanei. Quando poi, stanco di star solo, avrei voluto andare con gli altri ragazzini, loro non mi volevano più, offesi dalle mie arie da intellettuale. Se cercavo di partecipare ai loro giochi, non sempre ero accettato e, quando finalmente mi accoglievano, per un po’ dovevo subire scherzi e prese in giro. Ho capito in ritardo che quel che li infastidiva non era tanto il fatto che io volessi diventare un uomo istruito, quanto piuttosto che mi dessi delle arie per questo. Allora ci soffrivo parecchio, ma in fondo mi ha fatto anche bene. L’estate sanciva una tregua ai nostri bisticci, arrivava la vacanza, avevamo da giocare a pallone, da fare i bagni e da pescare con ridicoli retini e lenze di spago. Dalle finestre di casa il mare si vedeva e impiegavamo pochi minuti per arrivarci. La strada attraversava cespugli ruvidi e canneti, ma quando mettevamo i piedi a bagno, l’acqua tra gli scogli ci sorprendeva con i suoi turchesi e i suoi blu, identici a quelli della moschea di Sidi Ali Eddib. Ma con la fine dell’estate la distanza riappariva, e si fece più forte nel momento in cui io solo di tutta la tribù mi iscrissi alle scuole secondarie a indirizzo classico. Mi ritrovai sbalzato in un’altra realtà, quasi un altro mondo, in mezzo a ragazzi provenienti da famiglie facoltose che mi guardavano come un appestato. Ai tempi dell’infanzia di mio padre, la classe dirigente era soltanto francese. In cinquant’anni le cose sono cambiate, oggi esistono gli algerini ricchi, con i loro figli viziati e capricciosi, come quelli di tutto il resto del mondo. Una volta, nei bagni, esasperato dalle offese per le mie origini modeste, me la presi con il figlio di un ingegnere e gli citai La peste di Albert Camus, nemmeno mi ricordo quanto a proposito, ma mi era piaciuto farlo. Rimasi colpito scoprendo che un ragazzo ricco, un ragazzo che aveva tanto tempo libero e tanti soldi per comprarsi tutti i libri del mondo, non avesse voglia di leggere e d’imparare, che addirittura non avesse mai sentito parlare di quello scrittore. Dopo la sorpresa, provai una specie di felicità che scacciò l’arrabbiatura e ora ricordo quella storia soltanto per la gioia che provai. Avevo capito che è il buon uso dell’intelletto e non il denaro a far la differenza tra gli uomini. Una cosa mi manca di allora: studiavo con la finestra aperta, qualche volta una brezza faceva sollevare e scorrere le pagine del libro che avevo davanti e quella brezza aveva l’odore del mare. Quando sono libero dal lavoro, vado a camminare sulla spiaggia e respiro profondamente, cercando di ritrovare quell’odore, ma mi sembra che questo Mediterraneo profumi in un altro modo, e alla gola mi sale un nodo spinoso, difficile da sciogliere. (Tratto da: Cristina Rava, Un mare di silenzio, Garzanti, Milano 2012) ",8.0,multipla 809,"B1. L’ora legale consiste A. nel mettere avanti di un’ora le lancette dell’orologio durante la primavera e l’estate B. nel rendere flessibile l’orario di lavoro C. nel prolungare di un’ora l’orario di lavoro D. nel portare tutti gli orologi di un Paese sulla stessa ora indipendentemente dal fuso orario",A,multiple choice,814.0,['item_814_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 810,"B2. Perché l’ora “legale” si chiama così? A. Perché è stata imposta dai giudici B. Perché segue le leggi astronomiche C. Perché è una convenzione D. Perché rispetta le normative locali",C,multiple choice,815.0,['item_815_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 811,"B4. Che cosa significa l’espressione “aggirare l’ostacolo” (righe 5-6)? A. Ricorrere a un inganno B. Ottenere a tutti i costi ciò che si desidera C. Prevenire le contestazioni D. Raggiungere un obiettivo in modo indiretto",D,multiple choice,817.0,['item_817_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 812,"B5. Per quale ragione i lavoratori giapponesi “dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio” (righe 7-8)? A. Entravano al lavoro in anticipo, ma non uscivano un’ora prima B. Il prolungamento dell’orario lavorativo cadeva nella stagione calda C. Le aziende avevano introdotto l’ora legale contro la loro volontà D. L’anticipo dell’ora ricordava loro il periodo della guerra",A,multiple choice,818.0,['item_818_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 813,"B6. Nel testo si afferma che nei Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia il vantaggio dell’ora legale sarebbe minimo, ma non si spiega la ragione. In base alle tue conoscenze, perché il vantaggio sarebbe minimo? A. Perché nella fascia equatoriale le ore di luce sono comunque di più delle ore di buio B. Perché il risparmio energetico non costituisce un vero problema in zone dove le attività industriali sono limitate C. Perché i Paesi della fascia equatoriale si trovano in continenti diversi e sarebbe difficile mettere d’accordo i rispettivi governi D. Perché in questi Paesi il rapporto fra ore di luce e ore di buio non varia in modo significativo al variare delle stagioni",D,multiple choice,819.0,['item_819_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 814,"B7. Perché durante la prima guerra mondiale alcuni Stati introdussero l’ora legale? A. Per allungare l’orario lavorativo B. Per realizzare un risparmio di energia C. Per far spendere meno ai cittadini D. Per lasciare le strade al buio per meno tempo",B,multiple choice,820.0,['item_820_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 815,"B8. Nel testo si afferma che oggi “il risparmio energetico praticamente non esiste” (righe 18- 19). Ciò dipende dal fatto che A. quando i lavoratori finiscono di lavorare c’è comunque ancora la luce solare B. l’energia attualmente ha un costo molto modesto C. i luoghi di lavoro sono illuminati con fonti energetiche alternative D. lo spreco di energia si fa soprattutto nelle case private e non nei luoghi di lavoro",A,multiple choice,821.0,['item_821_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 816,"B9. Perché il passaggio più difficile è quello del ritorno all’ora solare in autunno? A. Perché l’avvicinarsi dell’inverno rende le persone più malinconiche B. Perché con l’arrivo dell’autunno molte persone vanno soggette a malanni di stagione C. Perché si cumulano i disturbi legati al cambio dell’ora con il peggioramento dell’umore dovuto alla riduzione della quantità di luce D. Perché l’accorciamento del periodo di luce non viene compensato da un parallelo aumento della temperatura giornaliera",C,multiple choice,822.0,['item_822_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 817,"B10. Che cosa sono i “ritmi circadiani” (riga 24)? A. Il succedersi in circolo delle stagioni nel corso dell’anno solare B. L’alternarsi di periodi di sonno profondo e di sonno più leggero durante la notte C. Il ripetersi di fasi diverse nella nostra vita biologica nell’arco di un giorno D. L’avvicendarsi di fasi di attività e di riposo nel corso del mese",C,multiple choice,823.0,['item_823_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 818,"B12. I giapponesi sono definiti “maestri” (riga 33) perché dalla loro esperienza abbiamo imparato che A. le aziende, per poter sfruttare un’ora di luce in più, hanno finito per imporre ai lavoratori ritmi insostenibili B. in tempo di pace non c’è un valido motivo per ricorrere all’ora legale C. avevano ragione i contadini a non volere l’ora legale D. la modificazione del ritmo sonno-veglia provoca disturbi del sonno e stanchezza con riflessi negativi sulla capacità lavorativa",D,multiple choice,825.0,['item_825_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 819,"B14. Nel testo si dice che la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno (righe 41-42) perché così A. si risparmierebbe più energia elettrica tutto l’anno B. si eliminerebbero gli effetti negativi del passaggio dall’ora solare all’ora legale e viceversa C. ci sarebbe la stessa ora in tutti i paesi dell’Europa D. si eliminerebbero i problemi legati all’organizzazione del lavoro e si aumenterebbe la produttività",B,multiple choice,827.0,['item_827_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 820,"B15. L’avverbio “addirittura” (riga 41) indica che ciò che viene detto subito dopo A. precisa e spiega quanto detto prima B. limita quanto detto prima e lo attenua C. contraddice e smentisce quanto detto prima D. è coerente con quanto detto prima e lo rinforza",D,multiple choice,829.0,['item_829_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 821,"B17. Lo scopo principale del testo nel suo insieme è A. evidenziare gli effetti dell’ora legale sulla vita delle persone e proporre dei rimedi B. informare sull’origine storico-economica dell’ora legale C. criticare il fatto che l’ora legale sia stata imposta senza consultare i cittadini D. convincere della necessità di adottare l’ora legale durante tutto l’anno",A,multiple choice,830.0,['item_830_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 822,"B18. Rispetto alla domanda del titolo “L’ora legale: ne vale davvero la pena?”, l’autore del testo A. rimane neutrale e non fornisce al lettore elementi di giudizio B. giudica il ricorso all’ora legale un provvedimento utile e necessario C. porta più argomenti contro che a favore dell’ora legale D. fa discorsi confusi e in contraddizione tra di loro",C,multiple choice,831.0,['item_831_0.png'],2014_08_PN_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’ora legale: ne vale davvero la pena? L’unico paese industrializzato dove non c’è – ma c’è stata – l’ora legale è il Giappone. C’è stata perché fu imposta dagli americani durante l’occupazione militare del Paese, dopo la sconfitta nipponica nella seconda guerra mondiale. Nel 1952 i giapponesi, finalmente liberi di decidere, l’abolirono, forse per ripicca. Tuttavia, le industrie e le banche nipponiche, favorevoli all’ora legale, non si sono arrese e hanno tentato di aggirare l’ostacolo facendo entrare d’estate impiegati e operai un’ora prima per sfruttare la luce. È stato un disastro: i lavoratori non se ne andavano un’ora prima, dormivano meno, si stancavano di più, erano nervosi e lavoravano peggio. L’ora legale non c’è anche in quasi tutti i Paesi equatoriali dell’Africa e dell’Asia perché il vantaggio sarebbe minimo. Il ricorso all’ora legale, che quando nacque si chiamava British summer time, è frutto di una situazione drammatica come la prima guerra mondiale: per l’Inghilterra del 1916, e poi per gli altri Paesi che la imitarono, il risparmio energetico era una tragica necessità dovuta al conflitto. Allora l’ora legale, allungando il periodo di luce serale, consentiva un risparmio di energia perché le fabbriche e gli uffici avevano un orario lungo, spesso con un intervallo tra fine mattinata e pomeriggio. Oggi c’è l’orario di lavoro continuato o, comunque, i lavoratori staccano quasi sempre tra le ore 17 e le 19, quando ci sarebbe ancora luce con l’ora naturale primaverile o estiva. Quindi il risparmio energetico praticamente non esiste. L’ora legale, specie nei momenti di passaggio, checché se ne dica, ha conseguenze significative sulla vita degli esseri umani. Bisogna però distinguere tra le due fasi di passaggio. La più difficile è quella del ritorno all’ora solare in autunno. Qui si sommano soprattutto due effetti: a) l’alterazione dei ritmi stabiliti dal ciclo di 24 ore (i cosiddetti ritmi circadiani) cui sono legate molte funzioni fisiologiche; b) la corrispondenza di questo passaggio con una forma di depressione legata soprattutto al fatto che si altera il fotoperiodo, cioè la durata del periodo di luce giornaliera. Chi non è rimasto scioccato, proprio con il ritorno dell’ora solare, dall’arrivo improvviso del buio, un’ora prima del solito, nei pomeriggi tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre? È un colpo psicologico che avvertono anche persone molto solide e che ha effetti molto forti sul ciclo sonno-veglia, un equilibrio decisivo per il benessere di chiunque nella vita di tutti i giorni e in particolare nel lavoro (come, abbiamo visto, ci insegnano i “maestri” giapponesi). Il disturbo del sonno, del resto, è stato preso molto sul serio nello studio fatto dagli stessi giapponesi per vedere se valeva la pena di provare ad applicare l’ora legale malgrado le forti opposizioni, in particolare da parte dei contadini. Lo studio è stato affidato nel 2005 a un gruppo di scienziati che ha documentato i rischi di insonnia per un gran numero di giapponesi. Gli scienziati hanno concluso: «Diciamo no. È un attentato alla salute psicofisica della popolazione». Per noi italiani, anzi per tutti gli europei, la decisione è stata presa dall’Europa, senza troppe resistenze. E risulta addirittura che oltre la metà degli italiani sarebbe favorevole a estendere l’ora legale a tutto l’anno, perché così si eliminerebbe il problema dei passaggi, in particolare di quello autunnale. ITA08F1 13 (Tratto e adattato da: Ludovico Fraia, Il balletto degli orologi e i disturbi del sonno. Ne vale davvero la pena?, “il Centro”, inserto “Benessere e salute”, 6 ottobre 2011, pag. 03) ",8.0,multipla 823,"C1. Nella frase “Secondo una prima ricostruzione, il ladro sarebbe entrato da una finestra sul retro”, il verbo indica: A. ? un’azione certa B. ? un’azione futura C. ? un’azione improbabile D. ? un’azione possibile",D,multiple choice,832.0,['item_832_0.png'],2014_08_PN_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 824,"C2. “Raggiunta la cima, il gruppo degli alpinisti decise di trascorrere la notte nel rifugio”. La frase sottolineata è: A. ? consecutiva B. ? temporale C. ? finale D. ? concessiva",B,multiple choice,833.0,['item_833_0.png'],2014_08_PN_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 825,"C4. In quale delle seguenti frasi è presente una espressione polirematica (cioè un gruppo di più parole con un significato unitario: es. fuori stagione, botta e risposta)? A. ? Quella ragazza ha un viso acqua e sapone B. ? Per la cena di stasera mancano pane e vino C. ? Nella fattoria razzolavano liberamente galli e galline D. ? Sbuccia la frutta con forchetta e coltello! ",A,multiple choice,835.0,['item_835_0.png'],2014_08_PN_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 826,"C5. “Luca mi ha chiesto quando arriverà l’aereo da Milano”. La frase sottolineata è: A. ? soggettiva B. ? oggettiva esplicita C. ? temporale D. ? interrogativa indiretta",D,multiple choice,836.0,['item_836_0.png'],2014_08_PN_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 827,"C7. Nella frase “Inviterò anche Maria perché tu la conosca” la congiunzione perché ha valore: A. ? causale B. ? interrogativo C. ? finale D. ? consecutivo",C,multiple choice,838.0,['item_838_0.png'],2014_08_PN_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 828,"C8. Leggi la seguente frase. “Era previsto uno spettacolo magnifico ma a causa del maltempo fu annullato: quando lo seppi ci rimasi male”. Il pronome “lo” si riferisce: A. ? al fatto che lo spettacolo fu annullato B. ? al maltempo C. ? al fatto che era previsto uno spettacolo magnifico D. ? allo spettacolo",A,multiple choice,839.0,['item_839_0.png'],2014_08_PN_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 829,"C10. Indica i modi dei verbi presenti nella seguente frase: “Avendo visto in vetrina un bellissimo maglione ho deciso di comprarlo, benché fosse molto caro”. A. ? Gerundio, indicativo, participio, congiuntivo B. ? Gerundio, participio, indicativo, infinito C. ? Gerundio, indicativo, infinito, congiuntivo D. ? Gerundio, indicativo, infinito, condizionale",C,multiple choice,841.0,['item_841_0.png'],2014_08_PN_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 830,"A1. L’obiettivo principale dell’autore di questo testo è di A. spiegare le cause del mal di schiena che colpisce le persone che passano ore e ore al PC B. far capire che star seduti davanti al PC per troppe ore di seguito è nocivo per la salute C. sintetizzare il parere espresso dal direttore della Clinica Ortopedica sul lavoro al PC D. dare consigli per evitare indolenzimenti e contratture dovuti al lavoro davanti al PC",D,multiple choice,842.0,['item_842_0.png'],2014_10_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scrivania e monitor: con le posture corrette la schiena non si lamenta di Miriam Cesta Seduti otto ore al giorno. Tra chi studia e chi lavora davanti al PC sono in tanti a soffrire di indolenzimenti e contratture muscolari. Complici dei dolori alla schiena, in particolare, la posizione adottata nel sedersi alla scrivania e l’altezza del monitor del computer. Dolore alla schiena: cos’è. Il mal di schiena – quando dipende da problemi muscolari – viene provocato da posture sbagliate mantenute per troppo tempo: “I muscoli – spiega a Salute24 Sandro Giannini, direttore della Clinica Ortopedica dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna – si affaticano perché continuamente in tensione, e a lungo andare l’eccessiva tensione può dare contratture. Queste, poi, si ‘fanno sentire’ lungo tutto il muscolo e nel punto di inserzione del muscolo stesso, dove il tendine si attacca all’osso”. Come si previene. Per difendersi dal dolore alla schiena è indispensabile programmare nel corso della giornata lavorativa un’alternanza tra fasi di lavoro e di riposo: “È l’unico modo per far lavorare tutti i muscoli e le articolazioni, senza affaticarne nessuno in particolare”, spiega Giannini. Muoversi ogni tanto ed evitare di rimanere bloccati nella stessa posizione per più ore è l’unico antidoto: un paio di minuti di movimento ogni ora, spiega l’esperto, possono essere sufficienti. Le posizioni ergonomiche. Per chi lavora tutto il giorno davanti al PC o seduto alla scrivania, però, non è comunque sufficiente fare delle piccole pause ogni ora per evitare contratture alla schiena. Fondamentale, infatti, è anche rispettare determinate posizioni ergonomiche: 1) stare seduti sempre dritti, in maniera che il bacino formi con la schiena un angolo retto; 2) mai sbilanciarsi in avanti o lateralmente; 3) la schiena deve essere ben appoggiata alla sedia affinché il peso del corpo venga interamente scaricato sullo schienale; 4) il monitor del computer deve essere posizionato ad altezza occhi, in modo che la testa non debba piegarsi in avanti o indietro per guardare lo schermo; 5) la tastiera del PC deve essere posizionata in maniera da permettere un buon appoggio di tutto l’avambraccio. (Tratto e adattato da: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/2578 - 09/06/2009) ",10.0,multipla 831,"A2. La figura a destra del titolo serve principalmente a A. far capire qual è la posizione migliore e quali gli accessori necessari per lavorare al PC B. mostrare concretamente la posizione che un impiegato ha di solito quando lavora al PC C. suggerire all’imprenditore come arredare al meglio un ufficio moderno D. mostrare gli spazi che sono necessari per ogni postazione di computer",A,multiple choice,843.0,['item_843_0.png'],2014_10_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scrivania e monitor: con le posture corrette la schiena non si lamenta di Miriam Cesta Seduti otto ore al giorno. Tra chi studia e chi lavora davanti al PC sono in tanti a soffrire di indolenzimenti e contratture muscolari. Complici dei dolori alla schiena, in particolare, la posizione adottata nel sedersi alla scrivania e l’altezza del monitor del computer. Dolore alla schiena: cos’è. Il mal di schiena – quando dipende da problemi muscolari – viene provocato da posture sbagliate mantenute per troppo tempo: “I muscoli – spiega a Salute24 Sandro Giannini, direttore della Clinica Ortopedica dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna – si affaticano perché continuamente in tensione, e a lungo andare l’eccessiva tensione può dare contratture. Queste, poi, si ‘fanno sentire’ lungo tutto il muscolo e nel punto di inserzione del muscolo stesso, dove il tendine si attacca all’osso”. Come si previene. Per difendersi dal dolore alla schiena è indispensabile programmare nel corso della giornata lavorativa un’alternanza tra fasi di lavoro e di riposo: “È l’unico modo per far lavorare tutti i muscoli e le articolazioni, senza affaticarne nessuno in particolare”, spiega Giannini. Muoversi ogni tanto ed evitare di rimanere bloccati nella stessa posizione per più ore è l’unico antidoto: un paio di minuti di movimento ogni ora, spiega l’esperto, possono essere sufficienti. Le posizioni ergonomiche. Per chi lavora tutto il giorno davanti al PC o seduto alla scrivania, però, non è comunque sufficiente fare delle piccole pause ogni ora per evitare contratture alla schiena. Fondamentale, infatti, è anche rispettare determinate posizioni ergonomiche: 1) stare seduti sempre dritti, in maniera che il bacino formi con la schiena un angolo retto; 2) mai sbilanciarsi in avanti o lateralmente; 3) la schiena deve essere ben appoggiata alla sedia affinché il peso del corpo venga interamente scaricato sullo schienale; 4) il monitor del computer deve essere posizionato ad altezza occhi, in modo che la testa non debba piegarsi in avanti o indietro per guardare lo schermo; 5) la tastiera del PC deve essere posizionata in maniera da permettere un buon appoggio di tutto l’avambraccio. (Tratto e adattato da: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/2578 - 09/06/2009) ",10.0,multipla 832,"A3. Questo articolo è inserito in una rubrica dal titolo “Salute24”. Perché proprio “24”? A. La rubrica si occupa dei problemi di salute che possono presentarsi nell’intera giornata B. Il titolo della rubrica si lega a quello del quotidiano in cui la rubrica è pubblicata C. La rubrica è pubblicata due volte al mese, cioè 24 volte all’anno D. Le 24 puntate della rubrica si possono raccogliere in un unico fascicolo facile da consultare",B,multiple choice,844.0,['item_844_0.png'],2014_10_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scrivania e monitor: con le posture corrette la schiena non si lamenta di Miriam Cesta Seduti otto ore al giorno. Tra chi studia e chi lavora davanti al PC sono in tanti a soffrire di indolenzimenti e contratture muscolari. Complici dei dolori alla schiena, in particolare, la posizione adottata nel sedersi alla scrivania e l’altezza del monitor del computer. Dolore alla schiena: cos’è. Il mal di schiena – quando dipende da problemi muscolari – viene provocato da posture sbagliate mantenute per troppo tempo: “I muscoli – spiega a Salute24 Sandro Giannini, direttore della Clinica Ortopedica dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna – si affaticano perché continuamente in tensione, e a lungo andare l’eccessiva tensione può dare contratture. Queste, poi, si ‘fanno sentire’ lungo tutto il muscolo e nel punto di inserzione del muscolo stesso, dove il tendine si attacca all’osso”. Come si previene. Per difendersi dal dolore alla schiena è indispensabile programmare nel corso della giornata lavorativa un’alternanza tra fasi di lavoro e di riposo: “È l’unico modo per far lavorare tutti i muscoli e le articolazioni, senza affaticarne nessuno in particolare”, spiega Giannini. Muoversi ogni tanto ed evitare di rimanere bloccati nella stessa posizione per più ore è l’unico antidoto: un paio di minuti di movimento ogni ora, spiega l’esperto, possono essere sufficienti. Le posizioni ergonomiche. Per chi lavora tutto il giorno davanti al PC o seduto alla scrivania, però, non è comunque sufficiente fare delle piccole pause ogni ora per evitare contratture alla schiena. Fondamentale, infatti, è anche rispettare determinate posizioni ergonomiche: 1) stare seduti sempre dritti, in maniera che il bacino formi con la schiena un angolo retto; 2) mai sbilanciarsi in avanti o lateralmente; 3) la schiena deve essere ben appoggiata alla sedia affinché il peso del corpo venga interamente scaricato sullo schienale; 4) il monitor del computer deve essere posizionato ad altezza occhi, in modo che la testa non debba piegarsi in avanti o indietro per guardare lo schermo; 5) la tastiera del PC deve essere posizionata in maniera da permettere un buon appoggio di tutto l’avambraccio. (Tratto e adattato da: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/2578 - 09/06/2009) ",10.0,multipla 833,"A4. Che cos’è una “contrattura” (riga 8)? A. Un irrigidimento doloroso dei muscoli B. Uno strappo dei muscoli o dei tendini del dorso C. Il dolore provocato da una vertebra bloccata D. Una fitta acuta che si avverte quando si piega la schiena",A,multiple choice,845.0,['item_845_0.png'],2014_10_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scrivania e monitor: con le posture corrette la schiena non si lamenta di Miriam Cesta Seduti otto ore al giorno. Tra chi studia e chi lavora davanti al PC sono in tanti a soffrire di indolenzimenti e contratture muscolari. Complici dei dolori alla schiena, in particolare, la posizione adottata nel sedersi alla scrivania e l’altezza del monitor del computer. Dolore alla schiena: cos’è. Il mal di schiena – quando dipende da problemi muscolari – viene provocato da posture sbagliate mantenute per troppo tempo: “I muscoli – spiega a Salute24 Sandro Giannini, direttore della Clinica Ortopedica dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna – si affaticano perché continuamente in tensione, e a lungo andare l’eccessiva tensione può dare contratture. Queste, poi, si ‘fanno sentire’ lungo tutto il muscolo e nel punto di inserzione del muscolo stesso, dove il tendine si attacca all’osso”. Come si previene. Per difendersi dal dolore alla schiena è indispensabile programmare nel corso della giornata lavorativa un’alternanza tra fasi di lavoro e di riposo: “È l’unico modo per far lavorare tutti i muscoli e le articolazioni, senza affaticarne nessuno in particolare”, spiega Giannini. Muoversi ogni tanto ed evitare di rimanere bloccati nella stessa posizione per più ore è l’unico antidoto: un paio di minuti di movimento ogni ora, spiega l’esperto, possono essere sufficienti. Le posizioni ergonomiche. Per chi lavora tutto il giorno davanti al PC o seduto alla scrivania, però, non è comunque sufficiente fare delle piccole pause ogni ora per evitare contratture alla schiena. Fondamentale, infatti, è anche rispettare determinate posizioni ergonomiche: 1) stare seduti sempre dritti, in maniera che il bacino formi con la schiena un angolo retto; 2) mai sbilanciarsi in avanti o lateralmente; 3) la schiena deve essere ben appoggiata alla sedia affinché il peso del corpo venga interamente scaricato sullo schienale; 4) il monitor del computer deve essere posizionato ad altezza occhi, in modo che la testa non debba piegarsi in avanti o indietro per guardare lo schermo; 5) la tastiera del PC deve essere posizionata in maniera da permettere un buon appoggio di tutto l’avambraccio. (Tratto e adattato da: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/2578 - 09/06/2009) ",10.0,multipla 834,"A5. Nella parola “affaticarne” (riga 12) il pronome “ne” si riferisce a A. fasi di lavoro e di riposo B. contratture C. muscolo, tendine, osso D. muscoli e articolazioni",D,multiple choice,846.0,['item_846_0.png'],2014_10_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scrivania e monitor: con le posture corrette la schiena non si lamenta di Miriam Cesta Seduti otto ore al giorno. Tra chi studia e chi lavora davanti al PC sono in tanti a soffrire di indolenzimenti e contratture muscolari. Complici dei dolori alla schiena, in particolare, la posizione adottata nel sedersi alla scrivania e l’altezza del monitor del computer. Dolore alla schiena: cos’è. Il mal di schiena – quando dipende da problemi muscolari – viene provocato da posture sbagliate mantenute per troppo tempo: “I muscoli – spiega a Salute24 Sandro Giannini, direttore della Clinica Ortopedica dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna – si affaticano perché continuamente in tensione, e a lungo andare l’eccessiva tensione può dare contratture. Queste, poi, si ‘fanno sentire’ lungo tutto il muscolo e nel punto di inserzione del muscolo stesso, dove il tendine si attacca all’osso”. Come si previene. Per difendersi dal dolore alla schiena è indispensabile programmare nel corso della giornata lavorativa un’alternanza tra fasi di lavoro e di riposo: “È l’unico modo per far lavorare tutti i muscoli e le articolazioni, senza affaticarne nessuno in particolare”, spiega Giannini. Muoversi ogni tanto ed evitare di rimanere bloccati nella stessa posizione per più ore è l’unico antidoto: un paio di minuti di movimento ogni ora, spiega l’esperto, possono essere sufficienti. Le posizioni ergonomiche. Per chi lavora tutto il giorno davanti al PC o seduto alla scrivania, però, non è comunque sufficiente fare delle piccole pause ogni ora per evitare contratture alla schiena. Fondamentale, infatti, è anche rispettare determinate posizioni ergonomiche: 1) stare seduti sempre dritti, in maniera che il bacino formi con la schiena un angolo retto; 2) mai sbilanciarsi in avanti o lateralmente; 3) la schiena deve essere ben appoggiata alla sedia affinché il peso del corpo venga interamente scaricato sullo schienale; 4) il monitor del computer deve essere posizionato ad altezza occhi, in modo che la testa non debba piegarsi in avanti o indietro per guardare lo schermo; 5) la tastiera del PC deve essere posizionata in maniera da permettere un buon appoggio di tutto l’avambraccio. (Tratto e adattato da: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/2578 - 09/06/2009) ",10.0,multipla 835,"A7. Alla riga 18 si parla di “posizioni ergonomiche”. Dal contesto si capisce che una posizione ergonomica è una posizione del corpo che A. va adottata per alcuni minuti ogni ora per evitare il mal di schiena durante il lavoro al computer B. permette di prevenire i dolori ai muscoli e ai tendini della schiena provocati dal lavoro al computer C. consente di evitare la fatica del lavoro al PC, riducendo al massimo i movimenti del corpo D. serve a evitare che il corpo resti bloccato in una medesima posizione per ore e ore davanti al PC",B,multiple choice,848.0,['item_848_0.png'],2014_10_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Scrivania e monitor: con le posture corrette la schiena non si lamenta di Miriam Cesta Seduti otto ore al giorno. Tra chi studia e chi lavora davanti al PC sono in tanti a soffrire di indolenzimenti e contratture muscolari. Complici dei dolori alla schiena, in particolare, la posizione adottata nel sedersi alla scrivania e l’altezza del monitor del computer. Dolore alla schiena: cos’è. Il mal di schiena – quando dipende da problemi muscolari – viene provocato da posture sbagliate mantenute per troppo tempo: “I muscoli – spiega a Salute24 Sandro Giannini, direttore della Clinica Ortopedica dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna – si affaticano perché continuamente in tensione, e a lungo andare l’eccessiva tensione può dare contratture. Queste, poi, si ‘fanno sentire’ lungo tutto il muscolo e nel punto di inserzione del muscolo stesso, dove il tendine si attacca all’osso”. Come si previene. Per difendersi dal dolore alla schiena è indispensabile programmare nel corso della giornata lavorativa un’alternanza tra fasi di lavoro e di riposo: “È l’unico modo per far lavorare tutti i muscoli e le articolazioni, senza affaticarne nessuno in particolare”, spiega Giannini. Muoversi ogni tanto ed evitare di rimanere bloccati nella stessa posizione per più ore è l’unico antidoto: un paio di minuti di movimento ogni ora, spiega l’esperto, possono essere sufficienti. Le posizioni ergonomiche. Per chi lavora tutto il giorno davanti al PC o seduto alla scrivania, però, non è comunque sufficiente fare delle piccole pause ogni ora per evitare contratture alla schiena. Fondamentale, infatti, è anche rispettare determinate posizioni ergonomiche: 1) stare seduti sempre dritti, in maniera che il bacino formi con la schiena un angolo retto; 2) mai sbilanciarsi in avanti o lateralmente; 3) la schiena deve essere ben appoggiata alla sedia affinché il peso del corpo venga interamente scaricato sullo schienale; 4) il monitor del computer deve essere posizionato ad altezza occhi, in modo che la testa non debba piegarsi in avanti o indietro per guardare lo schermo; 5) la tastiera del PC deve essere posizionata in maniera da permettere un buon appoggio di tutto l’avambraccio. (Tratto e adattato da: http://salute24.ilsole24ore.com/articles/2578 - 09/06/2009) ",10.0,multipla 836,"B1. Che cosa narra questo testo? A. Un episodio eroico avvenuto durante l’ultima guerra mondiale B. I primi passi nella Resistenza di un gruppo di giovani partigiani C. Il raduno di un gruppo di amici reduci dalle Russie e dalle Balcanie D. Le relazioni fra i diversi protagonisti di un romanzo di guerra",B,multiple choice,850.0,['item_850_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 837,"B2. Le “terre” di cui si parla alla riga 2 sono dette “notturne” perché A. il narratore e i suoi amici si sono fermati lì a dormire B. si trovano in una valle incassata, dove arriva solo pochissima luce C. in quei paesi non si vedeva in circolazione anima viva, come se fossero disabitati D. i protagonisti si muovevano al buio e quei luoghi li hanno visti solo di notte",D,multiple choice,851.0,['item_851_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 838,"B3. Alle righe 8 e 9, il narratore parla dei “quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi”. Con quale altra parola o espressione si potrebbe sostituire “pur” senza cambiare il senso di questa frase? A. Anche B. Senza dubbio C. Malgrado tutto D. Magari",C,multiple choice,852.0,['item_852_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 839,"B4. Alla riga 7 il narratore fa una domanda: cosa fa qui il Piave? ma non la mette tra virgolette. Perché? A. È una domanda che il narratore fa a se stesso seguendo il flusso dei suoi pensieri B. È una domanda retorica e le domande retoriche non si mettono tra virgolette C. È una domanda spontanea e brevissima, non un vero e proprio discorso diretto D. È una domanda rivolta al fiume Piave che però non può rispondere",A,multiple choice,853.0,['item_853_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 840,"B5. I frequenti spostamenti dei tre amici per raggiungere e poi percorrere il Canal del Mis avvengono durante la notte perché A. al buio era più facile spostarsi perché i paesi sul fondovalle erano spopolati B. si doveva procedere molto lentamente perché non si conosceva con precisione la meta C. si dovevano attraversare paesi deserti e più volte il fiume Piave per arrivare in tempo D. era necessario muoversi al buio per non essere sorpresi dai nemici",D,multiple choice,854.0,['item_854_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 841,"B6. L’aggettivo “sprangata” alla riga 17 significa A. abbandonata B. isolata C. sbarrata D. sperduta",C,multiple choice,855.0,['item_855_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 842,"B7. La frase “Siamo arrivati, siamo i partigiani” (riga 19) costituisce un momento forte della narrazione. Per quale ragione? A. Indica che l’arrivo in montagna segna per i giovani un momento di riflessione sulla loro avventura B. Esprime l’emozione che il narratore e i suoi compagni provano per essere diventati quel che volevano C. Spiega perché i protagonisti si adattano a dormire in un porcile D. Fa capire che dopo tanta fatica sono arrivati nella radura della malga",B,multiple choice,856.0,['item_856_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 843,"B9. “Un muricciolo a secco” (riga 21) è un muro A. non riparato, in un luogo isolato B. esposto al sole, che riflette il calore C. senza cemento o calce, di sole pietre D. non appoggiato a nessuna costruzione",C,multiple choice,858.0,['item_858_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 844,"B10. Il porcile “era fatto di assi incoerenti” (riga 22). In questo contesto, la parola “incoerenti” significa A. non inchiodate B. sconnesse C. rotte D. malferme",B,multiple choice,859.0,['item_859_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 845,"B11. Bene pensa che gli spifferi di oggi provocheranno problemi di salute “dopo i trent’anni, o i quaranta” (riga 24). Il narratore trova che questi pensieri siano delle “astrazioni barocche”. Perché li definisce così? A. Perché il narratore non crede affatto alle strane teorie di Bene su quello che succederà dopo i trent’anni o i quaranta B. Perché considera che quello non è il momento adatto per complicarsi la vita con pensieri pessimistici sulla propria vecchiaia C. Perché trova che Bene brontola e si lamenta per delle ragioni completamente immaginarie D. Perché, quando uno è giovane e può morire in guerra in ogni momento, pare assurdo pensare ai mali ipotetici di un futuro lontano",D,multiple choice,860.0,['item_860_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 846,"B13. Alla riga 30 si legge “per chilometri e chilometri e chilometri”. La ripetizione serve a A. far capire che la distanza fra i giovani e il mondo abitato era sentita come insuperabile B. indicare che il percorso dal fondovalle fino al monte era stato lunghissimo C. suggerire che la stanchezza per la dura salita stava ormai vincendo i tre amici D. esprimere il fatto che la neve cancellava l’orizzonte e dava un senso d’infinito",A,multiple choice,862.0,['item_862_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 847,"B15. Nell’espressione “gli esiti dei sentieri” (riga 36), la parola “esiti” significa A. margini B. svolte C. sbocchi D. prospettive",C,multiple choice,864.0,['item_864_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 848,"B16. “L’idea per il momento era puramente teorica” (righe 37-38). A quale idea fa riferimento il narratore? A. Accendere un fuoco B. Prendere le trincee C. Insediarsi come reparto prima che il sole fosse alto D. Organizzare un fuoco di sbarramento",D,multiple choice,865.0,['item_865_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 849,"B17. La piccola digressione sui tedeschi e le trincee (righe 41-43) suggerisce che il narratore, quando pensa al corso di formazione militare che ha seguito, reagisce con A. collera B. rassegnazione C. ironica disillusione D. profondo sconforto",C,multiple choice,866.0,['item_866_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 850,"B18. Chi erano i “quattro da Vicenza” di cui si parla alla riga 50? A. Il narratore, Lelio, Ballotta, Antonio B. Il narratore, Nello, Bene, Lelio C. Nello, Bene, Lelio, Ballotta D. Bene, il Moretto, Antonio, Ballotta",B,multiple choice,867.0,['item_867_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 851,"B19. Con la parola “nòcciolo” (riga 51) che cosa intende l’autore? A. Il nucleo primo e centrale B. Il fondamentale centro di raccolta C. La sicura base di riferimento D. Il gruppo dei responsabili militari",A,multiple choice,868.0,['item_868_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 852,"B23. Per parlare delle autorità che decidono chi merita o no una medaglia, il narratore usa in modo insolito la parola “decoratori” (riga 65). La parola dà alla frase un tono A spiccio B. ironico C. amichevole D. casuale",B,multiple choice,872.0,['item_872_0.png'],2014_10_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"… e ci incamminammo per andare in montagna Questo testo costituisce l’attacco del capitolo 4 de “I piccoli maestri”, un libro di Luigi Meneghello, scrittore vicentino recentemente scomparso. Nel libro lo scrittore ha voluto esprimere un proprio modo di vedere la Resistenza (cioè la lotta partigiana per la liberazione dell’Italia dai nazifascisti degli anni 1943-45), a cui anche lui, molto giovane, aveva partecipato. Nel Bellunese c’è un budello di valle che si chiama Canal del Mis. I luoghi che vi danno accesso li ho conosciuti solo di notte, Sospiròlo, Sèdico, Mas, Santa Giustina: terre notturne. La struttura della zona mi sfuggiva, ammesso che ci sia: c’erano borghi, campi, argini, greti, strade buie, case mute; o non c’era nessuno in quei paesi, o dormivano tutti, uomini e bestie. Ci aggirammo nella zona per un paio di notti, seguendo una guida locale. Ogni tanto mi trovavo davanti il greto del Piave e pensavo: cosa fa qui il Piave? cosa c’entra? Forse il frutto di tutto questo girare furono i quattro catenacci che debbo pur chiamare le nostre prime armi: forse andavamo a raccoglierle nei campi, non mi ricordo più. Nel mezzo della seconda notte la guida si voltò fermamente verso i monti, per imboccare il Canal del Mis. Quando ci fummo sotto, tutt’a un tratto sentii la struttura; camminavamo tra alte serrande e contrafforti a incastro, e si percepiva l’impianto del solco lungo e nudo che è il Canale. Camminiamo un pezzo sulla strada in fondovalle; prendiamo un sentiero a destra che si aggrappa al monte, e in pochi minuti siamo alti alti nell’aria nera. Andiamo su per qualche ora al buio; ci fermiamo in una piccola radura sul dosso dei monti. La esplorammo a tastoni, c’era una malga, sprangata. Questo posto si chiama Landrina; nevica. Ora chi ci ha accompagnati ritorna giù: restiamo soli, io Nello e Bene. Ci si mette a dormire nel porcile di fianco alla malga. Siamo arrivati, siamo i partigiani. Bene, rannicchiato sulla paglia tra me e Nello, sbuffava e brontolava. Il porcile era per certi versi un luogo chiuso, per altri un luogo aperto; era addossato a un muricciolo a secco, ed era fatto di assi incoerenti. Per gli spacchi entravano spifferi di vento, ed era principalmente con questi che Bene ce l’aveva, perché era sensibilissimo alle correnti d’aria: diceva che queste cose poi si pagano, dopo i trent’anni, o i quaranta. Notai con una certa sorpresa che gli interessavano quelle età: astrazioni barocche. “Sta’ fermo,” gli dicevo, perché continuava a girarsi, e ora scopriva Nello, ora me. Avevamo una coperta sola. Per gli spacchi entrava anche qualche favilla di neve, ogni tanto ne sentivo una che mi si veniva a posare sul viso, e in un attimo si scioglieva. Si sentiva che eravamo assurdamente soli, per chilometri e chilometri e chilometri. “Che bella notte,” diceva Bene. “Dormi,” dicevo io. Nello non diceva nulla. Tutto ciò che si ricorda di lui, in quei mesi, pare che porti un piccolo sigillo. Sentivo i teneri cristalli intralciarsi con le palpebre, fare una minuscola lotta. Alla mattina, il luogo era attraente, scarno ma non selvaggio: stavamo su una specie di terrazza orientata a sud. Mi misi subito a guardare gli esiti dei sentieri calcolando con gli occhi come si potrebbe organizzare un fuoco di sbarramento. L’idea per il momento era puramente teorica: l’unico vero fuoco che avremmo potuto fare era quello di legna, ammesso che riuscissimo ad accenderlo. Provai a parlarne a Bene, ma lui mi disse: “Non sei stato al corso, tu? pensaci tu.” Al corso ci avevano insegnato principalmente a prendere le trincee. Se i tedeschi fossero stati un popolo sportivo, si sarebbe potuto mandargli a dire, quando venivano su per il sentiero: Fate una trincea, e noi veniamo a prenderla… Il sole era alto; sentimmo voci alle nostre spalle, la spianata era già invasa, gente arrivata da tutt’altra parte. Per fortuna erano compagni, le prime reclute del nostro reparto. Quel giorno e il successivo ne arrivarono parecchi altri: a un certo punto vidi da lontano venir su pel sentiero uno che camminava con passo legnoso e stizzito, dando qualche calcio ai sassi. Era biondo e imbronciato: era Lelio. Lo aspettavamo, ma dava sempre una certa emozione, quando si era su, veder effettivamente arrivare gli amici. In due o tre giorni il piccolo reparto fu al completo. Oltre a noi quattro da Vicenza, che ci sentivamo il nòcciolo, c’erano quindici o venti popolani della zona, alcuni assai giovani, i più reduci dalle Russie e dalle Balcanie; uno era cuoco, bravissimo; che dovesse venire proprio lassù a fare il cuoco pareva un peccato, gli altri aspetti della situazione gli interessavano mediocremente. Si mangiava una volta al giorno, ma bene e in abbondanza. I comitati in pianura dovevano essere tutti sudati. Frammischiati coi bellunesi c’erano anche tre o quattro ragazzi di pianura, uno era addirittura da Venezia, lo chiamavamo Ballotta e aveva le ulcere. Non mi ricordo dove le avesse, ma le aveva: e i suoi tentativi di fare il partigiano, con queste ulcere dentro, erano commoventi. Non sapeva né camminare né portare, né sparare (non che occorresse molto per il momento), né orientarsi. La sua era una lotta contro le ulcere; ma si ostinava a volerla fare lassù. Dopo qualche settimana andammo a riconsegnarlo a certi parenti che aveva nell’Agordino, e lo lasciammo là. A lui venne da piangere, e a me viene in mente che se le medaglie fossero una cosa seria, il nostro primo grande decorato dovrebbe essere lui. Abbiamo due medaglie d’oro fra i nostri compagni più stretti, uno è Antonio, e l’altro è il Moretto; ma se i decoratori avessero idee chiare sulle medaglie, sarebbe giusto proporre anche Ballotta, veneziano con le ulcere. (Tratto da: Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, Rizzoli, 1976) ",10.0,multipla 853,"C3. Qual è lo scopo del progetto del Museo delle scienze di Trento? A. Misurare la superficie dei ghiacciai attraverso documenti scientifici B. Incoraggiare gli alpinisti e i turisti a scattare molte fotografie dei ghiacciai C. Allestire una mostra sulle fasi della 1a guerra mondiale combattute nelle zone alpine D. Documentare lo stato di alcuni ghiacciai confrontando fotografie prese in tempi diversi",D,multiple choice,875.0,['item_875_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 854,"C4. Alle righe 18-19 la giornalista fa un’apparente digressione spostando il discorso sui fiumi. Non si tratta però di una digressione, ma di un’informazione che ha una funzione importante. Quale? A. Evidenziare che la riduzione dei ghiacciai alpini comporta rischi idrici per quasi tutta l’Europa B. Affermare che le Alpi sono importanti per tutti i paesi europei C. Fornire dati sui possibili danni che i cambiamenti futuri porteranno alle attività economiche D. Spiegare come mai i ghiacciai alpini si vanno riducendo",A,multiple choice,876.0,['item_876_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 855,"C5. Alla riga 10 è scritto “in cima alla montagna del Tirolo austriaco”. A quale montagna si riferisce questa espressione? A. Presena B. Ortles C. Grossvenediger D. Marmolada",C,multiple choice,877.0,['item_877_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 856,"C8. Quale delle seguenti espressioni del testo NON si riferisce al “geotelo” di cui si parla alla riga 25? A. Telo bianco B. Tessuto di protezione C. Telone D. Manto bianco",D,multiple choice,880.0,['item_880_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 857,"C9. Quale delle seguenti può sostituire l’espressione “un braccio di ferro” (righe 27-28) nella frase in cui è usata? A. Un enorme scandalo B. Una prova di forza C. Una protesta generale D. Una prova di destrezza",B,multiple choice,881.0,['item_881_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 858,"C10. “In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al di sopra della media” (riga 33). Quale delle seguenti parole potrebbe sostituire l’aggettivo “buono”, senza cambiare il significato della frase? A. Positivo B. Supplementare C. Abbondante D. Esatto",C,multiple choice,882.0,['item_882_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 859,"C11. Alla riga 44 si legge “Trasformazioni simili”. Simili a che cosa? A quale frase del testo si fa qui riferimento? A. “il paesaggio cambia in pochi anni” B. “alcune vie del Cervino sono state chiuse” C. “gli ordigni [sono stati] ritrovati in Trentino” D. “riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie”",A,multiple choice,883.0,['item_883_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 860,"C14. Nella rapida diminuzione dei ghiacciai interviene anche un fenomeno che aggrava la situazione instaurando un circolo vizioso. Quale? A. Le croci sulle vette cedono l’una dopo l’altra, quindi il soccorso alpino deve spostare anche quelle che sono soltanto pericolanti B. La superficie bianca sta ritirandosi da 150 anni a questa parte, provocando in Svizzera la chiusura degli impianti di sci estivo C. Le rocce che riemergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante D. Lo scioglimento del permafrost indebolisce le rocce e fa perdere la stabilità degli appigli sulle vie di scalata",C,multiple choice,886.0,['item_886_0.png'],2014_10_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dalle croci agli ordigni riemersi L’estate nera dei ghiacciai DI ELENA DUSI CADONO le croci, riaffiorano le armi. L’estate nera dei ghiacciai alpini è piena di simboli che farebbero tremare un superstizioso. Il ritmo di fusione del manto bianco ha uguagliato quello della torrida estate del 2003. Ecco allora, alla fine di uno degli agosti più caldi del secolo, riaffiorare in Trentino a 3.200 metri di quota 200 ordigni della Prima guerra mondiale. Passano tre giorni e un crollo avviene sulla vetta del monte Ortles, a 3.900 metri. È la croce più alta dell’Alto Adige: ha ceduto insieme alla roccia su cui era fissata. Quattro giorni dopo il soccorso alpino austriaco rimuove il simbolo religioso sulla cima del Grossvenediger (3.600 metri). Era pericolante e rischiava di colpire qualche alpinista. La croce verrà rimontata 15 metri più in basso su una cresta di granito libera dai ghiacci. I quali, in cima alla montagna del Tirolo austriaco, si sono assottigliati di 7 metri in dieci anni (2 metri solo negli ultimi due anni). Se andrà avanti così, i grandi ghiacciai delle Alpi resteranno un ricordo. Sulle Dolomiti la superficie è passata in un decennio da 8.600 metri quadri a 7.200. Il Museo delle scienze di Trento si è premunito con il progetto “Ghiacciai di una volta”: parte da 75 foto scattate dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 su Alpi e Appennini. Gli appassionati di montagna dovranno inviare le loro immagini di oggi, riprese nel punto di allora, per documentare l’arretramento del fronte bianco. In Europa, le Alpi ospitano i due terzi della superficie coperta da ghiaccio permanente. Le acque che partono dalla catena montuosa finiscono in Mediterraneo, Mare del Nord e Mar Nero. Ma da 150 anni la superficie bianca è in ritirata. Fino agli anni ‘90 si poteva sciare d’estate in quattro località svizzere, oggi ne sono rimaste due, sopra i 3.600 metri. Per salvare gli impianti sportivi si ricorre a una forma estrema di difesa: stendere un telo bianco sul ghiacciaio in agonia per riflettere i raggi del sole e ridurre il riscaldamento. Gli esperimenti sulle Alpi sono in corso da un paio di anni e i primi dati ricavati sul Presena indicano che 90mila metri quadri di “geoteli” hanno ridotto la fusione del 60-70%. Ma a un costo che varia tra 1,5 e 3 euro, queste protezioni rischiano di presentare un conto salato a fine della stagione. E l’idea di stendere i teloni sulla Marmolada ha provocato un braccio di ferro fra Provincia e operatori turistici. Nel frattempo le chiazze scure si moltiplicano anche in altissima quota. Le rocce che emergono assorbono il calore del sole e lo irradiano a quel che resta del ghiaccio circostante. “Il crollo della croce dell’Ortles - spiega Roberto Dinale dell’ufficio idrografico di Bolzano - è stato causato dallo scioglimento del permafrost, lo strato di ghiaccio che funge da intercapedine tra le rocce e le mantiene compatte. In Alto Adige quest’estate abbiamo avuto un grado buono al disopra della media. Le perturbazioni non sono mancate e anziché nevicare ha spesso piovuto fin oltre i 3mila metri”. Le rocce che perdono compattezza, insieme al ghiaccio che scompare per lasciare spazio a sassi e detriti, sono un pericolo per scalatori ed escursionisti. Alcune vie sul Cervino sono state chiuse perché gli appigli avevano perso distabilità. Gli ordigni ritrovati in Trentino (200 granate di 85-100 millimetri di calibro) non sono l’unica testimonianza storica che riaffiora. Sul monte Pasubio riemergono nuovi tratti di trincee e gallerie della Grande Guerra. “In media quest’estate -spiega Dinale - lo spessore dei ghiaccisi è ridotto di un paio di metri. A questo ritmo, il paesaggio cambia in pochi anni. Rispetto a quando ero piccolo, il fronte dei ghiacciai è arretrato di centinaia di metri. La vegetazione prende il posto del manto bianco. Trasformazioni simili prima erano oggetto di racconti fra una generazione e l’altra”. (Tratto e adattato da: Elena Dusi, Scienze, in «la Repubblica.it», 9 settembre 2012) ",10.0,multipla 861,"D3. Nel gruppo di quelli che parlano “solo o prevalentemente dialetto” rientra chi A. parla dialetto o italiano indifferentemente B. parla talvolta dialetto e talvolta italiano C. parla dialetto e spesso anche italiano D. parla dialetto o a volte anche italiano",D,multiple choice,888.0,['item_888_0.png'],2014_10_SNV_D,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’uso del dialetto in Italia In Italia l’uso del dialetto è ancora presente. La tabella che segue riporta una serie di dati, raccolti in anni diversi, sull’uso dell’italiano o del dialetto. Persone di 6 anni e più secondo il linguaggio abitualmente usato in diversi contesti relazionali Anni 1987/88, 1995 e 2000 In famiglia Con gli amici Con gli estranei Come si parla 1987/88| 1995 | 2000 |1987/88| 1995 | 2000 |1987/88| 1995 | 2000 Solo o prevalente- 41,5% | 44,4% | 44,1% || 44,6% | 47,1% | 48,0% | 64,1% | 71,4% | 72,7% mente italiano Solo o prevalente- 32,0% | 23,8% | 19,1% || 26,6% | 16,7% | 16,0% || 13,9% | 6,9% | 6,8% mente dialetto Sia Talia 24,9% | 28,3% | 32,9% || 27,1% | 32,1% | 32,7% || 20,3% | 18,5% | 18,6% Altra lingua o non 1,6% | 3,5% | 3,9% | 1,7% | 4,1% | 3,3% | 17% | 3,2% | 1,9% rispondenti Totale 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% Fonte: dati ISTAT (Tabella tratta e adattata da: Sobrero A., Miglietta A., Introduzione alla linguistica italiana, Bari, Laterza, 2006, pag. 155) ",10.0,multipla 862,"D4. Se continua la tendenza attuale, nei prossimi anni l’uso esclusivo o prevalente del dialetto sarà A. in aumento B. in diminuzione C. stabile D. non è possibile rispondere",B,multiple choice,889.0,['item_889_0.png'],2014_10_SNV_D,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’uso del dialetto in Italia In Italia l’uso del dialetto è ancora presente. La tabella che segue riporta una serie di dati, raccolti in anni diversi, sull’uso dell’italiano o del dialetto. Persone di 6 anni e più secondo il linguaggio abitualmente usato in diversi contesti relazionali Anni 1987/88, 1995 e 2000 In famiglia Con gli amici Con gli estranei Come si parla 1987/88| 1995 | 2000 |1987/88| 1995 | 2000 |1987/88| 1995 | 2000 Solo o prevalente- 41,5% | 44,4% | 44,1% || 44,6% | 47,1% | 48,0% | 64,1% | 71,4% | 72,7% mente italiano Solo o prevalente- 32,0% | 23,8% | 19,1% || 26,6% | 16,7% | 16,0% || 13,9% | 6,9% | 6,8% mente dialetto Sia Talia 24,9% | 28,3% | 32,9% || 27,1% | 32,1% | 32,7% || 20,3% | 18,5% | 18,6% Altra lingua o non 1,6% | 3,5% | 3,9% | 1,7% | 4,1% | 3,3% | 17% | 3,2% | 1,9% rispondenti Totale 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% Fonte: dati ISTAT (Tabella tratta e adattata da: Sobrero A., Miglietta A., Introduzione alla linguistica italiana, Bari, Laterza, 2006, pag. 155) ",10.0,multipla 863,"D5. Quelli che parlano sia italiano sia dialetto nel 2000, rispetto al 1987/88, sono A. in aumento in ogni situazione B. in aumento solo in famiglia e con gli estranei C. in aumento solo in famiglia e con gli amici D. in aumento solo con gli amici e con gli estranei",C,multiple choice,890.0,['item_890_0.png'],2014_10_SNV_D,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’uso del dialetto in Italia In Italia l’uso del dialetto è ancora presente. La tabella che segue riporta una serie di dati, raccolti in anni diversi, sull’uso dell’italiano o del dialetto. Persone di 6 anni e più secondo il linguaggio abitualmente usato in diversi contesti relazionali Anni 1987/88, 1995 e 2000 In famiglia Con gli amici Con gli estranei Come si parla 1987/88| 1995 | 2000 |1987/88| 1995 | 2000 |1987/88| 1995 | 2000 Solo o prevalente- 41,5% | 44,4% | 44,1% || 44,6% | 47,1% | 48,0% | 64,1% | 71,4% | 72,7% mente italiano Solo o prevalente- 32,0% | 23,8% | 19,1% || 26,6% | 16,7% | 16,0% || 13,9% | 6,9% | 6,8% mente dialetto Sia Talia 24,9% | 28,3% | 32,9% || 27,1% | 32,1% | 32,7% || 20,3% | 18,5% | 18,6% Altra lingua o non 1,6% | 3,5% | 3,9% | 1,7% | 4,1% | 3,3% | 17% | 3,2% | 1,9% rispondenti Totale 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% | 100% Fonte: dati ISTAT (Tabella tratta e adattata da: Sobrero A., Miglietta A., Introduzione alla linguistica italiana, Bari, Laterza, 2006, pag. 155) ",10.0,multipla 864,"E3. L’espressione “personale specializzato” è costituita da A. ? Aggettivo + aggettivo B. ? Aggettivo + verbo C. ? Nome + aggettivo D. ? Nome + avverbio La resistenza di una porta blindata a un eventuale tentativo di effrazione è garantita dalla qualità dei suoi componenti. Per essere sicuri di acquistare un buon prodotto, bisogna rivolgersi a personale specializzato e accertarsi che il serramento sia conforme alla normativa vigente, che abbia cioè superato i test anti-scasso previsti dalla legislazione.",C,multiple choice,893.0,['item_893_0.png'],2014_10_SNV_E,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 865,"E4. Con quale delle seguenti parole puoi sostituire “cioè” senza alterare il significato del testo? A. ? infatti B. ? invece C. ? prima D. ? dunque La resistenza di una porta blindata a un eventuale tentativo di effrazione è garantita dalla qualità dei suoi componenti. Per essere sicuri di acquistare un buon prodotto, bisogna rivolgersi a personale specializzato e accertarsi che il serramento sia conforme alla normativa vigente, che abbia cioè superato i test anti-scasso previsti dalla legislazione.",D,multiple choice,894.0,['item_894_0.png'],2014_10_SNV_E,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 866,"E5. Quale di queste parole è l’unica composta con il verbo “parare”? A. parafarmacia B. paraolimpiadi C. parapetto D. paragrafo",C,multiple choice,895.0,['item_895_0.png'],2014_10_SNV_E,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 867,"E8. Leggi la frase che segue. “Gli studenti, che avevano lavorato a lungo sul linguaggio pubblicitario, si riunirono in gruppi per stendere la relazione finale”. La prima virgola A. ? non è corretta perché separa il soggetto dal predicato B. ? è corretta perché in questo caso introduce un inciso C. ? non è corretta perché separa il pronome relativo dal nome a cui si riferisce D. ? è corretta perché il pronome relativo si riferisce solo a un sottogruppo di studenti",B,multiple choice,898.0,['item_898_0.png'],2014_10_SNV_E,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 868,"E9. Nella frase “Ai giornalisti arrivati quella mattina dall’estero è stato detto di attendere” la funzione di soggetto è svolta da: A. ? ai giornalisti B. ? quella mattina C. ? dall’estero D. ? di attendere",D,multiple choice,899.0,['item_899_0.png'],2014_10_SNV_E,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 869,"A1. La parola “MULTA” ti fa venire in mente qualcosa di A. spiacevole B. faticoso C. dispettoso D. noioso",A,multiple choice,900.0,['item_900_0.png'],2013_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo è il titolo del racconto che poi leggerai LE MULTE ",2.0,multipla 870,"A2. Quando pensi a qualcuno che dà una multa ti viene in mente qualcuno che A. racconta B. scrive C. guarda D. cerca",B,multiple choice,901.0,['item_901_0.png'],2013_02_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Questo è il titolo del racconto che poi leggerai LE MULTE ",2.0,multipla 871,"B1. Chi sono i personaggi principali di questo racconto? A. Giacomo e un altro bambino B. Una mamma e il suo bambino C. Un papà e il suo bambino D. I bambini e le loro mamme",B,multiple choice,903.0,['item_903_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 872,"B2. In questo racconto si dice che la multa è A. un foglietto con un messaggio B. un discorso con parole serie C. un elenco di cose da fare D. un divieto di giocare in camera",A,multiple choice,904.0,['item_904_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 873,"B3. Che cosa fa la mamma quando dà una multa a Giacomo? A. Scrive quanto è rimasta male per il comportamento di Giacomo B. Scrive tutte le cose che deve fare Giacomo C. Scrive che cosa Giacomo ha fatto di sbagliato D. Scrive un racconto per far capire a Giacomo come comportarsi meglio",C,multiple choice,905.0,['item_905_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 874,"B4. Che cosa fa Giacomo ogni volta che riceve una multa? A. Fa qualcosa che mostra quanto è arrabbiato B. Fa qualcosa di nascosto nella sua camera C. Fa una cosa che piace a lui, per esempio un disegno D. Fa qualcosa che fa piacere alla mamma",D,multiple choice,906.0,['item_906_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 875,"B5. Che cosa può pensare Giacomo quando legge la multa, prima di mettersi al lavoro? A. Uffa, la mamma mi fa sempre lavorare! B. La mamma ha ragione, ho sbagliato, devo rimediare C. Non è giusto, la mamma non mi lascia il tempo per giocare D. Come è brava la mamma a scrivere le multe!",B,multiple choice,907.0,['item_907_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 876,"B6. Nel testo c’è scritto “Quando il bambino trovava un foglietto del genere si metteva subito al lavoro” (righe 8-9). Quale potrebbe essere “un foglietto del genere“, cioè come quello che dà la mamma? A. GIACOMO NON È STATO FERMO UN MOMENTO. ADESSO DEVE STARE UN PO' TRANQUILLO ALTRIMENTI LO CASTIGO B. GIACOMO MERITA UNA MULTA PERCHÉ HA GIOCATO TUTTO IL POMERIGGIO E DEVE ANCORA FARE I COMPITI C. GIACOMO HA LETTO UN LIBRO MOLTO GROSSO QUINDI GLI DEVO DARE UNA GROSSA RICOMPENSA D. GIACOMO QUESTO POMERIGGIO STARÀ CON LA BABYSITTER E DOVRÀ COMPORTARSI BENE",B,multiple choice,908.0,['item_908_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 877,"B7. Dopo avere ricevuto una multa il bambino “si mette subito al lavoro” (riga 9) perché A. ha paura che la mamma si arrabbi B. vuole fare presto per poi dedicarsi ad altro C. ha capito che è importante pagare le multe D. gli piace molto fare quel lavoro",C,multiple choice,909.0,['item_909_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 878,"B8. Che cosa arrotolava Giacomo? Rileggi la parte di testo nel riquadro per rispondere alla domanda B8. Che cosa arrotolava Giacomo? Rileggi la parte di testo nel riquadro per rispondere alla domanda. A. Arrotolava il cuscino B. Arrotolava il bigliettino C. Arrotolava il disegno D. Arrotolava il nastrino",C,multiple choice,910.0,['item_910_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 879,"B9. Quale di queste frasi del racconto mostra che Giacomo con le multe impara a comportarsi meglio? A. «Poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria» B. «La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa» C. «In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma» D. «E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa»",B,multiple choice,911.0,['item_911_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 880,"B10. “Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma” (righe 21-22). Che cosa metteresti al posto di “quella volta lì” per rendere più chiara questa frase? A. Quando il bambino non aveva riordinato la sua camera la vera multa l’aveva pagata la mamma B. Quando il bambino aveva fatto il disegno la vera multa l’aveva pagata la mamma C. Quando il bambino aveva fatto arrabbiare la mamma la vera multa l’aveva pagata la mamma D. Quando il bambino aveva rotto il vetro la vera multa l’aveva pagata la mamma",D,multiple choice,912.0,['item_912_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 881,"B11. Nel racconto si dice che “la vera multa l'aveva pagata la mamma” (righe 21-22). Come paga quella multa la mamma? A. Regala un bel disegno alla vicina B. Va al cinema con la vicina C. Dà dei soldi alla vicina D. Scrive un biglietto di scuse alla vicina",C,multiple choice,913.0,['item_913_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 882,"B13. La frase del testo “se l’era cavata molto bene” (riga 29) vuol dire che Giacomo A. ce l’aveva fatta B. si era tolto la curiosità C. se ne era andato via D. aveva capito subito",A,multiple choice,915.0,['item_915_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 883,"B14. Perché la mamma si dà le multe da sola? A. Perché le piace giocare a fare il vigile con il suo bambino B. Perché vuole assomigliare al suo bambino C. Perché a volte fa qualcosa che dà dispiacere al suo bambino D. Perché le piace inventarsi qualcosa da fare con il suo bambino",C,multiple choice,916.0,['item_916_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 884,"B15. Che cosa significa la frase del testo “Invece da grande diventò inventore” (riga 43)? A. Invece di fare quello che piaceva alla mamma diventò inventore B. Invece di fare quello che voleva diventò inventore C. Invece di fare un lavoro che lo portava lontano diventò inventore D. Invece di fare il vigile diventò inventore",D,multiple choice,917.0,['item_917_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 885,"B16. Perché alla fine del racconto si dice che “le multe per la lontananza sparirono”? Rileggi la parte di testo nel riquadro per rispondere alla domanda. A. Perché le mamme avevano smesso di dare multe B. Perché Giacomo aveva inventato qualcosa che aiutava a superare la lontananza C. Perché le mamme non andavano più via per lavoro D. Perché Giacomo non si allontanava mai dalla sua famiglia per motivi di lavoro",B,multiple choice,918.0,['item_918_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 886,"B17. Come completeresti il titolo “Le multe” per fare capire un po’ di più la storia? A. Le multe: un gioco divertente della mamma B. Le multe: molto meglio dei castighi C. Le multe: ecco il nostro segreto! D. Le multe: la più dura delle punizioni",B,multiple choice,919.0,['item_919_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 887,"B18. Una di queste informazioni va proprio d’accordo con la storia che hai letto. Quale? A. La mamma per andare al lavoro prendeva un treno affollato e rumoroso B. L’amico di Giacomo abitava a pochi passi da casa sua e giocavano sempre insieme a pallone C. Giacomo era felice quando la mamma era contenta di lui D. Giacomo conosceva un vigile: una volta gli aveva anche prestato il suo fischietto",C,multiple choice,920.0,['item_920_0.png'],2013_02_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MULTE C’era una mamma che quando si arrabbiava col suo bambino perché faceva una cosa sbagliata o brutta o disobbediva non lo sgridava. No. Gli dava una multa. La multa era un foglietto, e lei ci scriveva sopra cose così: GIACOMO HA LASCIATO IN DISORDINE LA SUA CAMERA QUINDI MERITA UNA MULTA Quando il bambino trovava un foglietto del genere sul cuscino, si metteva subito al lavoro, perché sapeva che le multe sono una cosa seria e vanno pagate. Così, per esempio, faceva un disegno molto bello alla mamma, con un bambino che sta rimettendo in ordine la sua camera, butta via le cartacce, porta nel cesto della biancheria sporca la biancheria sporca. Poi lo arrotolava, lo chiudeva con un nastrino, ci metteva sopra un bigliettino con scritto PAGAMENTO MULTA e lo lasciava sul cuscino della sua mamma. La volta dopo, però, si ricordava di mettere a posto la camera senza prendere la multa. Naturalmente poteva anche succedere che il bambino combinasse qualche guaio. E in quel caso la multa era più seria. Per esempio, una volta, giocando a pallone, aveva rotto il vetro di una vicina di casa che abitava al piano terreno. Quella volta lì la vera multa l'aveva pagata la mamma, nel senso che aveva dovuto ripagare il vetro nuovo alla vicina. E anche il bambino aveva dovuto pensare a una multa molto grossa. Praticamente ogni sera aveva inventato una fiaba e l’aveva raccontata alla mamma, prima di dormire, per una settimana di fila. Proprio il contrario di quello che succede di solito, visto che normalmente sono le mamme (o i papà) a raccontare le storie della sera ai bambini, e non era stato per niente facile. Però il bambino ci si era messo d'impegno, se l'era cavata molto bene e la mamma era rimasta contenta, perché dopo la storia lui le dava un bacio sulla fronte e lei si addormentava tranquilla e faceva dei sogni molto belli. Anche la mamma prendeva una multa, qualche volta. Per esempio, dopo essere andata via per lavoro per alcuni giorni (in quel caso il bambino restava con il papà e la babysitter), la multa se la scriveva da sola. Così: QUESTA È UNA MULTA PER LA LONTANANZA E poi metteva il foglietto sulla scrivania del bambino. In questo caso lui sapeva che poteva decidere qualcosa di bello da fare insieme alla mamma, come andare al cinema o a vedere uno spettacolo a teatro. Si divertivano tutti e due, e soprattutto stavano insieme. Sarebbe stato veramente buffo se quel bambino una volta cresciuto avesse deciso di fare il vigile, visto che era così abituato alle multe. Invece da grande diventò un inventore, e inventò un telefono speciale che ti faceva vedere le persone, oltre che sentirle, e se toccavi il video sentivi la pelle di chi ti parlava come se fosse lì con te. Così almeno le multe per la lontananza sparirono dalla vita dei bambini, e anche delle mamme e dei papà che ogni tanto devono andare lontano per via del loro lavoro. (Tratto e adattato da: Beatrice Masini, Un papà racconta, Torino, Einaudi, 2007, pag. 42) ",2.0,multipla 888,"A2. Da quanto puoi capire dal testo, per quale motivo Konrad e il maestro si spingono fino al limite del bosco? A. Per andare in cerca di erbe medicinali B. Per procurarsi roba da mangiare C. Per andare a caccia D. Per cercare Melisenda",D,multiple choice,924.0,['item_924_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 889,"A3. Che cosa significa la frase “e rispose, senza una logica apparente” (righe 7-8)? Significa che diede una risposta A. Che sembrava molto precisa B. Che sembrava non c'entrare niente C. Senza pensare a quello che diceva D. Senza dare importanza alla domanda",B,multiple choice,925.0,['item_925_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 890,"A5. Fino a quando Melisenda decide di restare sull’albero? A. Fino a quando sarà buio B. Fino a quando avrà finito di raccogliere le uova C. Fino a quando arriverà qualcuno ad aiutarla D. Fino a quando le uova si apriranno",D,multiple choice,927.0,['item_927_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 891,"A6. Melisenda dice “Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…” (righe 37-38). Cosa potresti aggiungere per completare quello che Melisenda sta dicendo a Guglielmo? A. Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata: vedremo chi ha capito cosa c'è dentro le uova B. Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata: dovrò starci poco quassù sull'albero C. Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata: avrò finalmente vinto la nostra gara D. Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata: gli uccelli rapaci non saranno più un pericolo",B,multiple choice,928.0,['item_928_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 892,"A7. Melisenda dice “Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…” (righe 37-38). Con queste parole Melisenda intende A. Stupire Guglielmo B. Confondere Guglielmo C. Rassicurare Guglielmo D. Insospettire Guglielmo",C,multiple choice,929.0,['item_929_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 893,"A9. Perché Melisenda prende le uova? A. Vuole dare qualcosa da mangiare a Guglielmo B. Vuole fare un dispetto al barone padrone del bosco C. Vuole vedere quante uova riesce a portare giù senza romperle D. Vuole allevare un giovane falcone per addestrarlo",D,multiple choice,931.0,['item_931_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 894,"A10. Che cosa significa “precauzione” nella frase “Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste” (riga 68)? A. Attenzione e delicatezza B. Lentezza e calma C. Incertezza e timore D. Leggerezza e imprudenza",A,multiple choice,932.0,['item_932_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 895,"A11. Quando Melisenda dice “Lo sapevo” (riga 73), che cosa intende dire? A. Sapevo che qualcuno sarebbe venuto a salvarmi B. Sapevo che erano uova di tordo C. Sapevo che non potevo restare sull'albero per sempre D. Sapevo che c'era qualcuno nascosto nei cespugli",B,multiple choice,933.0,['item_933_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 896,"A13. Qual è il “mistero” che Giovanni da Bologna vuole chiarire (riga 80)? A. Come mai ci sono più di dieci uova in uno stesso nido B. Quale specie di uccello uscirà dall'uova più scuro C. Come ha fatto Malisenda a trovare tante uova D. Quanto tempo ci vuole per covare quelle uova",B,multiple choice,935.0,['item_935_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 897,"A16. Il titolo di questo racconto è “Una caccia singolare”. La “caccia” in questo racconto consiste A. Nell'inseguire e nel catturare B. Nel raccogliere e nel portar via C. Nel mandar via e nel far cadere D. Nel nascondersi e nel fuggire",B,multiple choice,938.0,['item_938_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 898,"A17. La caccia di Melisenda è A. Un passatempo per divertirsi B. Uno sport per mostrare agilità C. Un modo per realizzare un sogno D. Un'attività per combattere la noia",C,multiple choice,939.0,['item_939_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 899,"A18. Questo racconto, nel suo insieme, ci vuole fare capire A. Come possono essere spericolati i bambini quando vogliono fare cose da grandi B. Che anche chi sa tante cose sbaglia e fa brutta figura C. Quante scoperte possono fare i bambini in un bosco D. Che anche i bambini hanno delle passioni e fanno di tutto per realizzarle",D,multiple choice,940.0,['item_940_0.png'],2013_05_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UNA CACCIA SINGOLARE Sempre conversando di erbe e di roba da mangiare, Konrad e il maestro Giovanni da Bologna arrivarono a una casupola che sorgeva al limite del bosco. Un muretto a secco delimitava un piccolo orto coltivato a zucchine e cetrioli, e una donna – certo la padrona di casa – stava china a legare i gambi di quelle piante a delle cannucce infisse nel terreno. Konrad le chiese se avesse visto Melisenda, la seconda figlia di messer Rufo. La donna scosse il capo, ma le brillarono gli occhi e rispose, senza una logica apparente: «Però Guglielmino è nel bosco a raccogliere ghiande per il maiale». In mancanza di meglio, penetrarono nel bosco seguendo le tracce del misterioso Guglielmo. Quando Konrad e maestro Giovanni lo avvistarono, però, Guglielmo non stava procurando il cibo al maiale di casa, ma se ne stava naso all'aria sotto un albero alto e fronzuto, tenendo steso un lembo della sudicia camicia. «Secondo me si rompe, se lo gettate. Però fate come credete meglio, madonna » diceva con molto rispetto a qualcuno che stava sull'albero, nascosto dalle fronde. «Melisenda!» sussurrò Konrad. «Ssstt!» fece maestro Giovanni, tirandolo a sé per nascondersi dietro a un cespuglio. Subito dopo infatti si sentì la voce di Melisenda: «Non so come fare a scendere, Guglielmo. Ho legato alla cintura il lembo della veste, ma è così piena di uova che se non te ne getto qualcuno, non mi posso muovere». «Gettate, allora!» sospirò Guglielmo rassegnato. Splash! Ciaff! «Peccato! Se erano fresche potevamo mangiarle!» sospirò il bambino, che non era abituato a veder sprecare così il cibo. Ma non disse niente per non disturbare Melisenda che scendeva cautamente lungo i rami. Arrivata alla biforcazione principale del tronco, però, la bambina dovette fermarsi. «Non ho più appiglio, Guglielmo. Devo per forza saltare. Ma cosa ne sarà delle uova, se non riesco a cadere in piedi?» «Si romperanno, come quelle che avete gettato» disse con logica stringente il bambino. «E così tutta la nostra fatica sarà sprecata. Io non salto». «Non vorrete restare lassù fino a notte? Anzi, se non volete saltare, dovrete restarci tutta la vita...» «Ma no! Non così a lungo! Solo fino a che le uova si schiudono... Chissà, magari erano nel nido da tanto tempo e la cova è quasi terminata…» «E cosa mangerete nel frattempo? E se la notte farà freddo? E se tornano i padroni del nido? I falchi sono terribili, quando si arrabbiano...» insisteva Guglielmo preoccupato. «Non so cosa farò, in quel caso. Deciderò sul momento. Ma adesso non posso saltare». «E se andassi al castello a chiedere una scala?» «Bravo! Intanto, chi vuoi che ti dia retta, al castello? E poi, se il barone viene a sapere che ho raccolto le uova nel suo bosco, le vorrà per sé e addio mio bel falcone!» «Potrei andare in cerca di aiuto a casa vostra». «Così mi prenderei una bella razione di frustate! No, Guglielmo, non c'è altro da fare. Bisogna aspettare che le uova si schiudano... Speriamo che nella mia veste stiano abbastanza al caldo». A questo punto Konrad non riuscì a trattenersi e la sua risata echeggiò nel bosco, facendo sussultare il piccolo Guglielmo, che raccolse la sua bisaccia e fuggì svelto come una lepre. «Melisenda» chiese con molta serietà Giovanni da Bologna uscendo allo scoperto, «cosa fate lassù? Se non ho inteso male, state covando». «Sì, sto covando, e Konrad non ha niente da ridere... Visto che mio padre non me lo vuole regalare, ho deciso di procurarmi da sola un falcone... Almeno un uovo sarà quello buono, no? Ne ho raccolti più di dieci... E quando il pulcino nascerà, lo alleverò, lo addestrerò e vi farò vedere se non posso essere anch'io un falconiere bravo come re Federico!» «Questo ce lo dirà il futuro» disse maestro Giovanni, cercando di rimanere serio. «Io credo comunque che possiate continuare la cova a casa. È più comodo. Guardate, se vi calate tenendovi a quel ramo e poggiate il piede sulla mia spalla, riesco a prendervi e a mettervi giù senza danneggiare le uova». Mantenne la promessa e depose gentilmente Melisenda sull'erba. «Mostratemi il vostro bottino» le chiese poi. Melisenda sciolse con precauzione un lembo della veste, e allora fu maestro Giovanni a non poter trattenere una risata. «Uova di falco queste! Ma non eravate la mia allieva più brava in storia naturale? Queste sarebbero uova di falco, secondo voi! Queste sono uova di tordo, povera Melisenda! E volevate restare a covarle sull'albero fino alla fine dei tempi...» Melisenda guardò offesa i suoi due sghignazzanti salvatori. «Lo sapevo» mentì. «Ma non sono tutte uova di tordo. Guardate, ce n'è uno diverso, più grande, più scuro, e quello è certo un uovo di falco». Maestro Giovanni guardò e si fece attento. «Perbacco, è vero! C'è un uovo diverso dagli altri. E lo avete trovato sul serio nello stesso nido?» «Lo giuro» rispose solennemente la bambina. «Che strano!» bofonchiò il maestro. «Vale davvero la pena di covarle, queste uova, per chiarire il mistero. Su, presto, a casa, che i padroni stanno per tornare e il mio stomaco dice che è ora di cena!» (Tratto e adattato da: Bianca Pitzorno, La bambina col falcone, Firenze, Salani Editore, 2003) ",5.0,multipla 900,"B1. Indica quale tra le seguenti frasi sintetizza meglio il primo paragrafo. A. Avere più di un animale in casa è un'ottima idea, ma non tutti ci pensano B. Ogni animale può avere un amico a patto che sia della stessa specie e che abbia lo stesso carattere C. Gli animali domestici stanno meglio da soli e non accettano intrusi D. In alcuni casi è possibile fare vivere nella stessa casa più animali, ma ci vuole attenzione",D,multiple choice,942.0,['item_942_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 901,"B2. In base al testo, in quale caso animali di specie diversa non possono mai stare insieme nella stessa casa? A. Quando due specie non vanno d'accordo B. Quando una specie si contende il cibo con un'altra C. Quando una specie dà la caccia all'altra D. Quando due specie devono condividere il territorio con un'altra",C,multiple choice,943.0,['item_943_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 902,"B3. Due cani possono diventare amici A. Se il padrone li tiene occupati facendo fare loro molta attività fisica e portandoli ai giardini B. Se il padrone dà la stessa quantità di cibo a tutti e due C. Se il padrone evita che i due cani entrino in competizione per avere la sua attenzione D. Se il padrone non presta troppa attenzione alle loro richieste",C,multiple choice,944.0,['item_944_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 903,"B4. L’espressione “potenziali coinquilini” (riga 23) fa riferimento A. Ai cani che frequentano i giardini B. Al cane di casa e al nuovo cane C. Al cane di casa e agli animali dei vicini D. Al cane e agli altri animali di casa",B,multiple choice,945.0,['item_945_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 904,"B5. Per quale coppia di animali il testo prevede una convivenza difficile? A. Cane e gatto B. Coniglio e cane C. Gatto e coniglio D. Roditore e gatto",D,multiple choice,946.0,['item_946_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 905,"B7. Il principale motivo per cui il gatto non aggredisce il coniglio è che A. Il coniglio è un animale molto socievole B. Il coniglio non è una preda C. Il coniglio è grande più o meno come un gatto D. Il coniglio non ha paura del gatto",C,multiple choice,948.0,['item_948_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 906,"B8. Nel testo si suggerisce di far incontrare in un luogo “neutrale” gli animali che dovranno vivere insieme (riga 23 e riga 33). Per “neutrale” si intende un luogo A. Che non piace a nessuno dei due animali B. Che non è adatto né all'uno né all'altro animale C. Che non innervosisce l'animale più aggressivo D. Che non appartiene né all'uno né all'altro animale",D,multiple choice,949.0,['item_949_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 907,"B9. In base al testo come si comporta un animale “territoriale”? A. Preferisce i luoghi recintati B. Si adatta a ogni territorio C. Difende il proprio territorio D. Necessita di spazi ampi",C,multiple choice,950.0,['item_950_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 908,"B10. In base al testo, quando si decide di far vivere insieme più animali c’è un elemento che in molti casi ha bisogno di particolare attenzione. Qual è? A. Il territorio dove far incontrare inizialmente i due animali B. Il cibo da dare loro nei primi giorni C. I giochi con cui farli diventare amici D. Il posto dove far dormire nel primo periodo i due animali",A,multiple choice,951.0,['item_951_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 909,"B12. Marco vorrebbe prendere in casa un altro animale. Ma non vuole fare troppa fatica per abituare il suo cane e il nuovo arrivato a vivere insieme. Quale animale sarebbe più adatto tenendo conto delle caratteristiche di Marco e Billy e di quanto hai letto nel testo? A. Cane B. Gatto C. Coniglio D. Criceto",A,multiple choice,953.0,['item_953_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 910,"B13. Qual è lo scopo di questo testo? A. Informare sui bisogni degli animali domestici più comuni B. Scoraggiare chi ha già un animale dal prenderne altri C. Dare consigli su come far vivere più animali nella stessa casa D. Convincere ad accogliere in casa diversi animali",C,multiple choice,954.0,['item_954_0.png'],2013_05_SNV_B,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Chi va d’accordo con chi? Avete avuto la splendida idea di aumentare il numero degli abitanti di casa? Pensate che il vostro quattrozampe abbia bisogno di compagnia? Ebbene, pausa di riflessione. Prima di far entrare in casa un nuovo animale, leggete. Alcuni animali stanno meglio per i fatti loro, e se imporrete loro un intruso, nel migliore dei casi arriveranno a sopportarlo pacificamente. Vi sono poi animali che sotto lo stesso tetto non possono proprio stare perché hanno l’uno l’istinto della preda, l’altro del predatore: finirebbe sicuramente male! Altre volte, invece, dall’incontro tra due animali, della stessa specie o di specie diverse, può nascere una bella amicizia. Che tipo di rapporto si instaurerà dipende dal carattere dell’individuo, dall’indole della specie e da come gestiremo i primi incontri. È necessario scegliere con criterio e, in certi casi, avere molta pazienza. Cane + cane Solitamente, il bene più prezioso per il cane è il suo padrone, anche se alcuni sono molto interessati al cibo o alla cuccia. Quindi, affinché due cani stringano amicizia, vanno fissate regole che scongiurino le rivalità. Innanzitutto, quando si “parla” o si svolge qualche attività o si fa qualche gioco con un cane, non bisogna farsi distrarre dall’altro, ma ignorarlo finché non abbiamo finito. Almeno all’inizio, abbiate un occhio di riguardo verso il cane “padrone di casa”, che non deve associare l’arrivo del rivale con la perdita dei privilegi. Per capire se il nostro cane potrebbe gradire un amico, valutiamo come si comporta con i suoi simili: se ai giardini è socievole e non litiga, buon segno. I primi incontri dei potenziali coinquilini devono avvenire in territorio neutrale, all’aperto, dove possono giocare e annusarsi; solo dopo possono entrare in casa insieme. Roditori + cani, gatti, conigli Criceti, cavie, topolini sono prede a tutti gli effetti. Sebbene esistano casi di convivenza riuscita, tenere questi animali in casa con dei gatti potrebbe essere complicato, nonché molto stressante per il roditore, che passerebbe la vita in una gabbia sotto lo sguardo famelico di un felino. Diversamente, se il cane non ha uno spiccato istinto predatorio, è probabile che ignori del tutto il piccolo mammifero. Conigli e cavie vanno molto d’accordo: l’unica accortezza da adottare è farli conoscere in un ambiente neutrale, perché il coniglio è molto territoriale e potrebbe uccidere la cavia, se la percepisse come un invasore. Gatto + coniglio Il coniglio è un animale sociale che vive bene in gruppo e fa amicizia facilmente. Sebbene sia una preda, il gatto non lo percepisce come tale perché hanno taglia simile e ci convive bene. È necessario però favorire un avvicinamento corretto, attraverso una separazione degli spazi. Inizialmente il coniglio va lasciato libero in una stanza, con una rete che lo divide dal resto della casa e permette ai due di vedersi, studiarsi e annusarsi, sentendosi al contempo protetti nel loro territorio. Quando ci sembrano a proprio agio, si può togliere la rete, stando attenti a far incontrare gli animali fuori dalla stanza del coniglio, che è territoriale e può diventare aggressivo. (Tratto e adattato da: Dunia Rahwan, Relazioni pericolose? in Focus Wild, n. 4, novembre 2011) ",5.0,multipla 911,"C1. Solo una di queste parole è divisa correttamente in sillabe: quale? A. ca-nta-ndo B. con-se-rva-va C. cas-ca-no D. per-do-na-ste",D,multiple choice,955.0,['item_955_0.png'],2013_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 912,"C3. Indica la sequenza che contiene 4 parole nell’ordine alfabetico corretto. A. chiedere – chiodo – cartone – cantante B. compenso – compiere – completo - concilio C. colore – crostino – cuore – cemento D. ciliegia – chilometro – controllore – computer",B,multiple choice,957.0,['item_957_0.png'],2013_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 913,"C4. Nel testo che segue “Molti amici sono venuti alla festa e mi hanno portato dei regali. Alcuni invece non sono venuti ma mi hanno mandato gli auguri con un sms”, la parola sottolineata è: A. un aggettivo dimostrativo B. un aggettivo indefinito C. un pronome personale D. un pronome indefinito",D,multiple choice,958.0,['item_958_0.png'],2013_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 914,"C7. Indica quale sequenza di parole è formata solo da nomi composti. A. piantagione – portavalori – saliscendi B. chiaroscuro – pescatore – pescespada C. pianoforte – parafango – portasapone D. portineria – spazzolino – montacarichi",C,multiple choice,961.0,['item_961_0.png'],2013_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 915,"C10. Nel breve testo che segue un segno di punteggiatura è sbagliato. Quale? Il mister, si fermò all’improvviso. Poi guardò negli occhi il portiere e gli chiese: «Te la senti di giocare anche domani?» A. La virgola B. Il punto C. I due punti D. Le virgolette",A,multiple choice,964.0,['item_964_0.png'],2013_05_SNV_C,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 916,A3. A quale fatto si riferisce il “guaio” di cui si parla alla riga 10?,A,multiple choice,967.0,['item_967_0.png'],2013_06_SNV_A,3.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"ITA06F1 3 COME SONO DIVENTATO PORTIERE Mi avevano fatto giocare con loro perché recuperavo la palla ovunque finiva. Una destinazione abituale era il balcone di un appartamento abbandonato del primo piano. La voce era che ci abitava un fantasma. I vecchi palazzi contenevano botole murate, passaggi segreti, delitti e amori. I vecchi palazzi erano nidi di fantasmi. Andò così la prima volta che salii al balcone. Dal finestrino a piano terra del cortile dove abitavo, il pomeriggio guardavo il gioco dei più grandi. Il pallone calciato male schizzò in alto e finì sul terrazzino di quel primo piano. Era perduto, un superflex paravinil1 un po’ sgonfio per l’uso. Mentre bisticciavano sul guaio, mi affacciai e chiesi se mi facevano giocare con loro. Sì, se ci compri un altro pallone. No, con quello, risposi. Incuriositi accettarono. Mi arrampicai lungo il tubo dell’acqua che passava accanto al terrazzino e proseguiva in cima. Era piccolo e fissato al muro con dei morsetti arrugginiti. Cominciai a salire, il tubo era coperto da polvere, la presa era meno sicura di quello che mi ero immaginato. Mi ero impegnato, ormai. Guardai in su: dietro i vetri di una finestra del terzo piano c’era lei, la bambina che cercavo sempre di sbirciare. Era al suo posto, la testa appoggiata sulle mani. Di solito guardava il cielo, in quel momento no, guardava giù. Dovevo continuare e continuai. Per un bambino cinque metri sono un precipizio. Scalai il tubo puntando i piedi sui morsetti fino all’altezza del terrazzino. Sotto di me si erano azzittiti i commenti. Allungai la mano sinistra per arrivare alla ringhiera di ferro, mi mancava un palmo. In quel punto dovevo fidarmi dei piedi e stendere il braccio che teneva il tubo. Decisi di farlo di slancio e ci arrivai con la sinistra. Ora dovevo portarci la destra. Strinsi forte la presa sul ferro del terrazzo e buttai la destra ad afferrare. Persi l’appoggio dei piedi: le mani ressero per un momento il corpo nel vuoto, poi subito un ginocchio, poi due piedi e scavalcai. Com’è che non avevo avuto paura? Capii che la mia paura era timida, per uscire allo scoperto aveva bisogno di stare da sola. Lì invece c’erano gli occhi dei bambini sotto e quelli di lei sopra. La mia paura si vergognava di uscire. Si sarebbe vendicata dopo, la sera nel buio del letto, col fruscio dei fantasmi nel vuoto. Buttai il pallone di sotto, ripresero a giocare senza badare a me. La discesa era più facile, potevo stendere la mano verso il tubo contando su due buoni appoggi per i piedi sul bordo del terrazzino. Prima di allungarmi verso il tubo guardai veloce al terzo piano. Mi ero offerto all’impresa per desiderio che si accorgesse di me, minuscolo scopettino da cortile. Era lì con gli occhi sbarrati, È un tipo di pallone da calcio, in uso negli anni Cinquanta del Novecento. prima che potessi azzardare un sorriso era scomparsa. Stupido a guardare se lei stava guardando. Bisognava crederci senza controllare, come si fa con gli angeli custodi. Mi arrabbiai con me buttandomi lungo il tubo in discesa per togliermi da quel palcoscenico. Sotto mi aspettava il premio, l’ammissione al gioco. Mi misero in porta e fu così deciso il mio ruolo, sarei diventato portiere. Da quel giorno mi chiamarono “ ’a scigna”, la scimmia. Mi tuffavo in mezzo ai loro piedi per afferrare la palla e salvare la porta. Il portiere è l’ultima difesa, dev’essere l’eroe della trincea. Prendevo calci sulle mani, in faccia, non piangevo. Ero fiero di giocare coi più grandi, che avevano nove e anche dieci anni. Capitò altre volte il pallone sul terrazzino, ci arrivavo in meno di un minuto. Davanti alla porta da difendere c’era una pozzanghera, per una perdita d’acqua. All’inizio del gioco era limpida, potevo vederci di riflesso la bambina ai vetri, mentre la mia squadra attaccava. Non l’avevo mai incontrata, non sapevo com’era il resto del corpo, sotto la faccia appoggiata alle mani. Nei giorni di sole dal mio finestrino arrivavo a risalire a lei attraverso un rimbalzo di vetri. Restavo a guardarla finché non mi lacrimavano gli occhi per la luce. Da poco in un appartamento del palazzo era arrivato un apparecchio televisivo. Sentivo dire che si vedevano persone e animali che si muovevano ma senza i colori. Invece io potevo guardare la bambina con tutto il marrone dei capelli, il verde del vestito, il giallo che ci metteva il sole. (Tratto e adattato da: E. De Luca, Il giorno prima della felicità, Milano, Feltrinelli, 2011) ",6.0,multipla 917,"A1. Perché l’autore scrive all’inizio del racconto “Non ci crederete, e siete liberi di farlo” (riga 1)? Perché l’autore sa che quello che dice dopo A. è una bugia B. sembra poco adatto agli adulti C. sembra impossibile D. è pieno di sorprese",C,multiple choice,968.0,['item_968_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 918,"A2. Quando l’autore scrive “il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo” (riga 2) vuol far capire che A. il bambino non si ricordava più il colore delle pillole B. il bambino aveva poca memoria e dimenticava in fretta C. il bambino quando aveva mal di pancia diventava pallido D. il mal di pancia spariva e il bambino non ci pensava più",D,multiple choice,969.0,['item_969_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 919,"A3. Perché funzionavano le pillole della bidella? A. Perché il bambino le prendeva tutti i giorni B. Perché il bambino credeva nel loro potere C. Perché erano medicine D. Perché erano magiche",B,multiple choice,970.0,['item_970_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 920,"A4. Le pillole della bidella servivano A. a soddisfare la golosità del bambino B. a calmare il bambino quando era troppo vivace C. ad aiutare il bambino quando entrava a scuola D. a creare amicizia fra il bambino e la bidella",C,multiple choice,971.0,['item_971_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 921,"A5. Per la bidella lo sguardo storto del bambino era il segno che A. il bambino era preoccupato B. il bambino era arrabbiato C. il bambino voleva sfidarla D. il bambino era strabico",A,multiple choice,972.0,['item_972_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 922,"A6. “Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca” (riga 5). Che cosa aggiungeresti a questa frase del testo per rendere più chiaro il suo significato? A. Io la prendevo e dopo aver ringraziato, siccome sapevo che mi faceva stare bene, me la cacciavo in bocca. B. Io la prendevo e dopo aver ringraziato, siccome non volevo che qualcuno mi vedesse, me la cacciavo in bocca. C. Io la prendevo e dopo aver ringraziato, siccome la fragola era proprio il mio gusto preferito, me la cacciavo in bocca. D. Io la prendevo e dopo aver ringraziato, siccome stavo per entrare in classe, me la cacciavo in bocca.",A,multiple choice,973.0,['item_973_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 923,"A7. Che cosa faceva dire al bambino che le pillole erano “portentose” (riga 7)? A. Il fatto che facessero guarire da tutte le malattie B. Il fatto che facessero passare a tutti il mal di pancia C. Il fatto che gli facessero fare le scale in fretta D. Il fatto che gli facessero subito passare il mal di pancia",D,multiple choice,974.0,['item_974_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 924,"A8. Qual è stata la reazione della mamma al racconto del figlio? A. Si è inquietata B. Si è divertita C. Si è offesa D. Si è tranquillizzata",A,multiple choice,975.0,['item_975_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 925,"A9. Tenendo conto di quanto il testo ha detto finora, quale ragionamento potrebbe aver fatto la mamma quando ha esclamato “Cosa?” “Quali pilloline?” (riga 11)? A. Ancora pillole? Si deve trattare di pillole nuove, non ne ho ma sentito parlare! B. Di solito io conosco tutto, è strano che io non conosca il nome di queste pillole. Che pillole saranno? C. Qualcuno dà pillole al mio bambino senza il mio permesso? Devo capire di cosa si tratta. D. Questo bambino ha troppa fantasia, non sa più cosa inventarsi per attirare la mia attenzione!",C,multiple choice,976.0,['item_976_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 926,"A10. “Una faccia che ve la raccomando” (righe 14-15) è una faccia A. che non promette niente di buono B. che fa ridere C. da imitare D. che è difficile da descrivere",A,multiple choice,977.0,['item_977_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 927,"A11. Quando l’autore scrive “l’indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere” (riga 17) vuole dire che il giorno dopo la mamma A. voleva chiacchierare con la bidella B. voleva chiedere spiegazioni alla bidella C. voleva litigare con la bidella D. voleva fare conoscenza con la bidella",B,multiple choice,978.0,['item_978_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 928,"A12. Quale parola metteresti fra queste due frasi del testo per collegarle correttamente? “io mi pentii di averne parlato …… mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre” (righe 17-18-19). A. quindi B. però C. perché D. allora",C,multiple choice,979.0,['item_979_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 929,"A13. Il bambino pensa che la mamma forse avrebbe fatto “arrestare la povera bidella” (riga 19). Quale parte del testo fa capire da cosa nasce questo pensiero? A. Quella notte dormii poco e male, travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi. B. “Raccontami tutto”, ordinò, e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l’indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato. C. Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella. D. Pensavo che ce l’avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto.",B,multiple choice,980.0,['item_980_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 930,"A14. “Non volevo assistere a drammi in diretta” (riga 25). Un dramma è una vicenda triste, che causa sofferenze. A quale “dramma” sta pensando il bambino a questo punto della storia? A. I suoi compagni lo avrebbero preso in giro per le pillole B. La bidella lo avrebbe accusato di essere una spia C. La mamma avrebbe litigato con la bidella per le pillole D. Il mal di pancia sarebbe diventato insopportabile",C,multiple choice,981.0,['item_981_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 931,"A15. “Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise” (righe 37-38). Come mai la mamma e la bidella a un certo punto sorridono? A. Si sono accorte dalla voce del maestro che il bambino le stava spiando B. Si sono stancate di litigare e hanno trovato un accordo C. Hanno capito che la mamma si era preoccupata tanto per niente D. Si stavano raccontando qualcosa di divertente",C,multiple choice,982.0,['item_982_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 932,"A17. Quando la mamma alla fine è andata via era serena perché A. si era convinta che le pillole facevano guarire il mal di pancia B. aveva capito che cosa erano in realtà le pilloline C. aveva visto che la bidella era un tipo convincente D. si era resa conto che la bidella aveva molto lavoro da fare",B,multiple choice,984.0,['item_984_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 933,"A18. La decisione presa dalla mamma alla fine porta a una conseguenza molto apprezzata dal bambino. Quale? A. La mamma e la bidella diventeranno amiche B. Il bambino continuerà ad avere le sue pilloline C. La mamma non avrà più mal di pancia D. Il bambino potrà mangiare dolci a volontà",B,multiple choice,985.0,['item_985_0.png'],2012_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LE MAGIE DELLA BIDELLA Non ci crederete; e siete liberi di farlo; ma con le pilloline magiche della signora bidella il mal di pancia divenne un pallido e sbiadito ricordo… Quando entravo a scuola la mattina io e lei incrociavamo i nostri sguardi e se il mio era un po; storto lei infilava una mano nella tasca e tirava fuori una pillolina alla fragola… Io la prendevo e dopo aver ringraziato me la cacciavo in bocca… Tempo di arrivare su al secondo piano; in classe; e il mal di pancia se n;era andato… Quelle pilloline erano davvero portentose! Pensavo che se erano state così utili nel mio caso avrebbero potuto esserlo per tanti altri bambini che soffrivano del mio stesso problema… Anche mamma; quand;era bambina; se le avesse avute non avrebbe sofferto di mal di pancia… “Cosa?” esclamò quando le raccontai tutta la storia… “Quali pilloline?” “Sono pilloline contro il mal di pancia… La signora bidella dice che anche suo figlio soffriva della stessa cosa e ora sta benissimo”… Ma anziché essere felice per me; mamma fece una faccia che ve la raccomando… “Raccontami tutto”; ordinò; e quando ebbi vuotato il sacco lei disse che l'indomani mattina avrebbe fatto due chiacchiere con la bidella e io mi pentii di averne parlato… Mamma mi avrebbe sicuramente proibito di prenderne delle altre e forse avrebbe fatto addirittura arrestare la povera bidella… Quella notte dormii poco e male; travolto dai sensi di colpa e dai rimorsi… Il mattino dopo; mamma mi portò a scuola camminando veloce come una che vuole vincere la maratona… Io facevo una fatica cane a starle dietro anche perché mi era venuto un mal di pancia di quelli tosti; e temevo che non avrei potuto avere la mia pillolina magica… Non appena fummo dentro; infilai le scale veloce come la luce poiché non volevo assistere a drammi in diretta… Mamma invece si diresse decisa verso la bidella che; ignara di tutto; scribacchiava qualcosa alla sua scrivania… Mi fermai in cima alle scale a spiare la scena; curioso… Mamma parlò tenendo gli occhi fissi sulla bidella; che alla fine del discorso cacciò una mano in tasca; la tasca dove di solito teneva le magiche pilloline contro il mal di pancia; e ne tirò fuori una mostrandola alla mamma… A quel punto; del tutto inaspettatamente; mamma se la mise in bocca e rimase per un po' assorta… Perché le assaggiava; mi chiesi? Che a furia di camminare veloce le fosse venuto anche a lei il mal di pancia? Studiavo la faccia di mamma; pronto a distogliere lo sguardo nel caso si fosse avventata come una furia contro la povera e innocente bidella… Invece in un attimo tutta la tensione che leggevo sul suo viso sparì… Le rughette imbronciate si rilassarono e la vidi perfino sorridere! Anche la bidella sorrise… Poi si strinsero le mani… Alla fine mamma se ne andò e la bidella si rimise a scribacchiare alla scrivania… A quel punto il maestro mi chiamò. “Alvise! Cosa fai là sulle scale?” Io non risposi; però entrai in classe senza farmelo ripetere… Passai il resto della mattinata a torturarmi con pensieri e domande senza risposta… Provai ad avvicinare la bidella durante la ricreazione ma; giunto a pochi metri da lei; dovetti desistere… Pensavo che ce l;avesse con me perché ero andato a spifferare a mamma quello che lei probabilmente riteneva un segreto… Il pomeriggio fu ancora peggio… Feci il conto alla rovescia delle ore e dei minuti che mi separavano dall;uscita… Cosa mi avrebbe detto mamma? Quale sarebbe stato il futuro della signora bidella e delle sue magiche pilloline? E soprattutto quale destino avrebbe avuto il mio mal di pancia mattutino? “Tutto risolto”; disse mamma quando venne a prendermi all;uscita… Io la guardai senza capire… “La signora bidella ha l;autorizzazione”; disse… “L;autorizzazione per le pillole contro il mal di pancia… È tutto in regola”… “Davvero?” Non riuscivo a crederci… “Davvero!” Tirai un sospiro di sollievo. la brava donna non sarebbe stata arrestata per colpa mia e io avrei potuto completare la mia cura contro il mal di pancia… “Ti ho vista che ne assaggiavi una”; le confessai… “Avevo un inizio di mal di pancia e la signora bidella è riuscita a convincere anche me!” “E poi ti sei sentita meglio?” “Praticamente da subito!” (Tratto e adattato da. Guido Sgardoli; Due per uno ; Roma; Nuove Edizioni Romane; 2011) ",5.0,multipla 934,"B1. Il nome Inuit significa A. mangiatori di carne cruda B. Indiani d’America C. la gente D. il popolo dei ghiacci",C,multiple choice,988.0,['item_988_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 935,"B2. Dal testo si capisce che Inuit ed Eschimesi A. sono due popolazioni molto diverse B. sono popolazioni che vivono in terre vicine C. sono la stessa popolazione D. sono due popolazioni che si sono unite",C,multiple choice,989.0,['item_989_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 936,"B5. Che cosa si può mettere al posto di “anche se” alle righe 5 e 24 senza cambiare il significato della frase? A. Come se B. A meno che C. Visto che D. Per quanto",D,multiple choice,992.0,['item_992_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 937,"B6. Nella società Inuit un ragazzo ha il diritto di sposarsi quando ha dimostratondi essere capace di A. resistere al freddo del Polo Nord B. cacciare foche, orsi e caribù C. comandare ai cani da slitta D. guadagnarsi la vita portando in giro i turisti",B,multiple choice,993.0,['item_993_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 938,"B7. Che cosa significa la parola “usanze” nella frase “sopravvivono ancora antiche usanze” (righe 31-32)? A. Canzoni B. Gare C. Danze D. Abitudini",D,multiple choice,994.0,['item_994_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 939,"B8. “Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici” (righe 33-34). Questo e` uno degli esempi dati dall'autrice per fare capire meglio un’affermazione del testo. Quale? A. Molti passatempi sono simili ai nostri B. Presso molte comunità sopravvivono antiche usanze C. Tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali D. Ai giorni nostri molte cose sono cambiate",B,multiple choice,995.0,['item_995_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 940,"B9. Come si risolvevano fino a qualche tempo fa le liti nella società` Inuit? A. Con una danza speciale chiamata “danza del tamburo” B. Con una gara di canto di gola in cui si imitavano gli animali selvatici C. Cantando canzoni dove ci si scambiavano più insulti possibili D. Prendendo in giro gli avversari con nomi di animali",C,multiple choice,996.0,['item_996_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 941,"B10. Alla riga 39 si dice che nella tradizione degli Inuit “i nomi hanno molta importanza”. Riguardo a questa informazione il testo A. fornisce la spiegazione e anche un esempio B. si limita ad elencare una serie di nomi C. non dà spiegazioni e neppure chiarificazioni D. indica solo i nomi più diffusi",A,multiple choice,997.0,['item_997_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 942,"B12. Vogliamo cambiare il titolo di questo testo. Quale dei seguenti titoli ne riassume meglio il contenuto? A. Il deserto di ghiaccio B. Nel paese dove non si vede mai il sole C. Alla scoperta degli Inuit D. I cacciatori di balene",C,multiple choice,999.0,['item_999_0.png'],2012_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL POPOLO DEI GHIACCI Un immenso deserto di ghiaccio dove, d’inverno, il sole non si vede mai e anche gli animali, dalla volpe all’orso polare, sono bianchi come ciò che li circonda. È questo l’ambiente in cui vivono, nelle terre sconfinate intorno al Polo Nord, gli Inuit. Nella loro lingua significa “la gente” ed è di sicuro questo il modo in cui preferiscono essere chiamati, anche se molti li conoscono come Eschimesi (nella lingua degli Indiani d’America significa “mangiatori di carne cruda”). Anche se la maggior parte di loro oggi vive in villaggi e fa la spesa nei negozi, gli Inuit vanno ancora a caccia: una tradizione che li tiene uniti e li fa sentire orgogliosi di riuscire a sopravvivere alla natura. Quando vanno in cerca di foche e trichechi in primavera, di caribù in autunno e di orsi d’inverno, devono affrontare molti pericoli, a iniziare dal freddo. Non a caso, i ragazzi che dimostrano di saper cacciare sono considerati uomini e possono già sposarsi. Ancora oggi, gli Inuit indossano stivali di pelle di foca a più strati e parka (giacconi) di pelliccia di caribù, folta e impermeabile, su cui viene cucita una grande tasca coperta da un cappuccio che serve alle mamme per trasportare i bambini più piccoli. Il parka delle ragazze, invece, non ha questa tasca, o se ce l’ha è usata per trasportare bambole, oggetti o cuccioli di alaskan malamute (conoscete gli husky? I malamute sono un po’ più grossi). I canisono il mezzo di trasporto più importante degli Inuit insieme al kayak, una canoa stretta e leggera, e l’umiak, una barca più grande adatta alla caccia alle balene (è permesso cacciarne solo pochi esemplari all’anno). Molto resistenti, gli alaskan malamute sono usati per trainare grandi slitte fatte di ossa di balena e pelle di caribù. E anche se la maggior parte delle persone preferisce le motoslitte, che vanno più veloci e non hanno bisogno di cibo, molti continuano ad affidarsi ancora… ai quattro zampe. Tra i ghiacci, il “popolo dei ghiacci” ha imparato a fare anche le case di ghiaccio: gli igloo! Ma in tutto questo ghiaccio, come si passa il tempo? Ai giorni nostri, molte cose sono cambiate. I ragazzi, ad esempio, imparano a guidare le motoslitte per portare in giro a pagamento i turisti. E anche molti dei loro passatempi sono simili ai nostri. Presso molte comunità, però, sopravvivono ancora antiche usanze. Ad esempio la danza del tamburo, in cui si balla e canta al ritmo di un grande tamburo. Oppure le gare di canto gutturale: una cantilena fatta con la gola in cui spesso si imitano i versi di animali selvatici. Con le gare di canto “normale”, invece, fino a pochi anni fa si risolvevano le liti tra le persone: nei testi delle canzoni si mettevano più insulti possibili, per vendicarsi della persona che aveva causato un’offesa! Nauja (gabbiano), Amaruq (lupo) … tra gli Inuit sono molto diffusi i nomi degli animali. E nella loro tradizione i nomi hanno molta importanza: secondo loro, infatti, i familiari defunti rivivono anche nei nomi dati ai bambini. Se un papà chiama suo figlio “padre mio”, ad esempio, vuol dire che lo spirito del nonno rivivrà in quel bambino. E se quel bambino fa i capricci o piange, non bisogna sgridarlo perché dentro di lui c’è lo spirito del nonno. (Tratto e adattato da: Silvana Olivo, Focus Junior, n. 33, ottobre 2006) ",5.0,multipla 943,"C2. Nella frase “Questa estate ogni settimana la televisione ha ridato lo stesso film.” il soggetto è A. questa estate B. ogni settimana C. la televisione D. lo stesso film",C,multiple choice,1001.0,['item_1001_0.png'],2012_05_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 944,"C3. Quale dei seguenti gruppi di aggettivi contiene solo aggettivi qualificativi? A. giallo, dolce, quello, mio B. bianco, stupendo, piacevole, troppo C. quale, lungo, tanto, allegro D. alto, violaceo, simpatico, gelido",D,multiple choice,1002.0,['item_1002_0.png'],2012_05_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 945,"A1. L’espressione “l’amato e innamorato Nené” (riga 3) vuole sottolineare che A. Rosaria aveva trovato in Nené un innamorato sincero B. l’amore di Rosaria per Nené era molto profondo C. Nené era una persona degna dell’amore di Rosaria D. il sentimento di amore fra Nené e Rosaria era reciproco",D,multiple choice,1010.0,['item_1010_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 946,"A2. Nella frase “Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica” (riga 4), l’espressione “piuttosto all’antica” significa che i genitori A. erano piuttosto anziani B. erano severi con la figlia C. avevano nostalgia del passato D. avevano idee poco moderne",D,multiple choice,1011.0,['item_1011_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 947,"A4. Con quale parola si può sos""tuire “siccome” (riga 20) senza cambiare il significato della frase? A. Invece B. Quando C. Poiché D. Però",C,multiple choice,1013.0,['item_1013_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 948,"A5. Che cosa significa “rompere gli indugi” (riga 26)? A. Fare in fretta B. Smettere di aspettare C. Superare gli ostacoli D. Aggirare le regole",B,multiple choice,1014.0,['item_1014_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 949,"A6. Il colonnello dice: “– Svelto, giovano!o, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là!” (riga 29) perché A. pensa che Nené sia capace di riparare lo sciacquone B. vuole fare uno scherzo al fidanzato di Rosaria C. scambia Nené per l’idraulico D. ha freyya di far riparare il guasto nel bagno",C,multiple choice,1015.0,['item_1015_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 950,"A8. Dalle battute del dialogo che si svolge tra Nené e il colonnello (righe 28-41) si capisce che A. Nené e il colonnello credono di parlare della stessa cosa mentre stanno parlando di due cose diverse B. il colonnello pretende una cosa che Nené non è in grado di fare C. Nené e il colonnello si sentono imbarazza"" perché discutono di qualcosa di cui di solito non si parla D. il colonnello è furioso e Nené ha molta paura delle sue reazioni",A,multiple choice,1017.0,['item_1017_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 951,"A10. Quale effe!o vuole o!enere l’autore con le due frasi che seguono? “Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione” (righe 52-53) “Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccica"" sulla fronte” (righe 53-54) A. Vuole sottolineare il contrasto tra il “prima” e il “poi” nelle condizioni di Nené B. Vuole far capire al lettore che Nené è una persona mite e indifesa C. Vuole suggerire al lettore che c’è stato un cambiamento importante nella vita di Nené D. Vuole impietosire il lettore con i guai accaduti a Nené",A,multiple choice,1019.0,['item_1019_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 952,"A12. A un certo punto “A Luana cominciò a scappare la pazienza” (riga 62). Perché Luana si spazientisce? A. Pensa che si sta perdendo tempo B. Ha previsto di prendere l’aperitivo più tardi C. Trova maleducato il comportamento del marito D. Vorrebbe poter usare il bagno",A,multiple choice,1021.0,['item_1021_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 953,"A13. Perché l’idraulico “girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta” (righe 74-75)? A. Non voleva l’aperitivo che il colonnello gli aveva offerto B. Era irritato perché non era stato pagato C. Era seccato per aver dovuto lavorare anche la domenica D. Pensava che lo avessero scomodato senza motivo",D,multiple choice,1022.0,['item_1022_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 954,"A16. Per quale motivo, quando è quasi l’una, Rosaria fissa la porta con il cuore che le batte? A. Perché è sempre più in ansia per il ritardo di Nené B. Perché ha paura che Nené non sia più innamorato C. Perché sa che suo padre tiene moltissimo alla puntualità D. Perché teme che il fidanzato non piaccia ai genitori",A,multiple choice,1025.0,['item_1025_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 955,"A17. Le vicende del racconto si possono definire A. una serie di imbrogli B. un insieme di coincidenze C. un succedersi di incidenti D. una catena di equivoci",D,multiple choice,1026.0,['item_1026_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 956,"A18. Lo scopo di questo racconto è quello di A. dimostrare che anche un amore sincero può finire male B. fare riflettere sulle relazioni fra le persone all'interno di una famiglia C. divertire i le#ori con una storia ricca di episodi comici D. invitare i le#ori a portare pazienza di fronte ai piccoli guai quotidiani",C,multiple choice,1027.0,['item_1027_0.png'],2012_06_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"MOMENTI SBAGLIATI Finalmente per Rosaria era giunto il momento più importante della sua vita. Nella tarda mattinata di quella domenica, e precisamente a mezzogiorno, avrebbe fatto conoscere ai suoi genitori Nené, l’amato e innamorato Nené. Rosaria era figlia unica di due genitori piuttosto all’antica. Il padre, colonnello in pensione, era autoritario e si incolleriva facilmente quando le cose non andavano come voleva lui; la moglie, Luana, sapeva però domarlo quando le piccole incandescenze di Arturo superavano i limiti dell’educazione. Quella mattina si alzarono presto tutti e tre per ricevere degnamente il futuro marito di Rosaria. La cucina era pulitissima, il salotto in ordine, la tavola già pronta. Tutto a posto fino all’ultimo momento. Fino a quando Luana uscì dal bagno con gli occhi di fuori, pallida e balbettante: – Non funziona, lo scarico del water s’è rotto un’altra volta! Il panico prese il posto dell’allegria. Il colonnello volle subito prendere in mano la situazione cercando di ristabilire la calma: – Ci penso io! – disse. E subito le due donne, in coro: – Nooo! – Lo conoscevano bene, Arturo avrebbe passato la giornata a smontare l’intero bagno. – Lasciamolo rotto, non fa niente! – esclamò Luana. E Rosaria: – Ma se poi gli scappa? Che figura ci facciamo? Chiamiamo subito l’idraulico! Ma era domenica, le officine erano tutte chiuse. Siccome a mezzogiorno mancavano ancora due ore, le donne decisero di uscire per cercare qualcuno in grado di risolvere velocemente il problema. Lasciarono a casa il colonnello e andarono a caccia di un idraulico. Intanto Nené, che era arrivato molto prima del previsto, aveva cominciato a girare intorno al palazzo guardando di tanto in tanto l’orologio. Dopo il terzo caffè preso al terzo bar, decise di rompere gli indugi e di salire, malgrado l’oretta d’anticipo. Quando Arturo sen' il campanello si precipitò ad aprire. Vide il giovane e subito: – Svelto, giovanotto, che è tardi! Ecco, il bagno è quello là! Nené si ritrovò nel bagno quasi spinto alle spalle dal colonnello. – Faccia svelto! – concluse Arturo chiudendo la porta. Nené era stato informato da Rosaria che suo padre, qualche volta, veniva preso dalle mattane. Allora stette al gioco in attesa che Rosaria arrivasse. Pensò che il colonnello voleva che facesse pipì. Nené fece pipì, provò a spingere il bottone, ma non funzionava. Riaprì la porta e, con esitazione, disse: – Ho fatto, colonnello! – Arturo si infilò nel bagno e spinse il bottone. Ma lo sciacquone continuava a non funzionare. – Mi stai prendendo in giro, giovanotto? Che hai fatto? – E l’altro, imbarazzato: – Ho fatto… la pipì! – Il colonnello andò su tutte le furie. – Ah, – gridò, – tutto qua? – E Nené: – Non mi veniva di più, colonnello. – Arturo si fece ancora più nervoso: – Ti sei reso conto che lo scarico non funziona? – In effetti! – Allora che aspetti? Mettiti subito al lavoro! Nené, che non voleva contraddirlo, si fece consegnare gli strumenti e si dette da fare. Ma appena svitò una rondella fu investito da un getto d’acqua pauroso. – Bravo, vedo che hai trovato l’acqua! Adesso cerca di fermare la falla! – si sen' dire dal colonnello. Nené provò in tutti i modi e, inzuppandosi come un pulcino, riuscì a bloccare l’emorragia. Finalmente spinse il bottone e, non si sa come, lo scarico funzionò. I due fecero festa. Poi il colonnello: – Svelto, pulisci per terra! – In ginocchio e con uno straccio in mano, il povero Nené riportò a lucido il pavimento del bagno. Poi si vide consegnare nelle mani due biglietti da diecimila lire: – Vai, vai! – gli disse Arturo spingendolo verso l’uscita. Mezz’ora prima Nené era entrato in quell’appartamento, lindo e colmo d’emozione. Ora si ritrovava per strada frastornato, fradicio e con i capelli appiccicati sulla fronte. Starnutendo se ne tornò piano piano a casa sua. Qualche minuto più tardi giunsero le due donne in compagnia di un giovane idraulico, il nipote del macellaio di fronte. Il colonnello, ringalluzzito dalla vittoria, fiero di sé, sembrava diventato più alto. Vide quel giovane e subito lo abbracciò come un figlio: – Benvenuto in questa casa! – gli disse con un nodo alla gola. E la figlia: – Hai visto che l’ho trovato? – E il padre: – Non esagerare figliola, anche lui ha trovato te. Non è vero ragazzo mio? – E l’idraulico: – Diciamo che ci siamo incontrati a metà strada! – Bene, – fece il colonnello, – vuoi un caffè o un aperitivo? – A Luana cominciò a scappare la pazienza: – Non perdiamo tempo, l’aperitivo lo prendiamo dopo! – A questo punto il colonnello si impuntò e lanciò un urlo: – Basta! A casa mia si fa come dico io! Cosa vuoi bere, ragazzo? – Il giovane guardò le due donne e alzò le spalle, mentre Rosaria corse a piangere in camera sua. – Faccia lei! – disse l’idraulico. Luana raggiunse la figlia in camera e la spinse a reagire, a riprendere in mano la situazione. Le due, allora, più agguerrite che mai, tornarono in salotto. Entrarono proprio nel momento in cui l’ospite chiedeva al colonnello: – Scusi, colonnello, dov’è il bagno? – Arturo si alzò in piedi con un sorriso grande da qua a là e si mise quasi sull’attenti. – Prego, – disse, – da questa parte! Il colonnello mostrò al giovane come funzionava bene lo scarico: – Guardi che meraviglia! – Spinse il bottone e l’acqua venne giù chiara e abbondante. L’idraulico, incredulo, pensando di trovarsi in una casa di matti, girò la schiena e se ne andò quasi sbattendo la porta. Il colonnello ci rimase male: – Ma come? – si rivolse amareggiato alle due donne. – Abbiamo fatto tanto e lui preferiva lo scarico rotto! Certo che il mondo fuori di qui va proprio alla rovescia! Moglie e figlia erano convinte che ad aggiustare il bagno fosse stato Arturo, e allora, tornata la felicità, si prepararono ad aspettare Nené. Era quasi l’una e il giovane ancora non si faceva vivo. A Rosaria cominciò a battere il cuore, sempre più forte, gli occhi fissi alla porta d’ingresso. (Tratto e adattato da: V. Cerami, La gente, Torino, Einaudi, 1993) ",6.0,multipla 957,"B1. Dal testo e dalla pianta qui di fianco, si capisce che la Grotta della Bàsura è A. una grotta sotto il livello del mare B. una caverna scavata in epoca preistorica dagli uomini primi""vi C. un complesso di caverne naturali D. una grotta rimasta del tu#o inesplorata fino a oggi",C,multiple choice,1028.0,['item_1028_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 958,"B3. Alla riga 8 il verbo “attestano” significa A. sottolineano B. dichiarano C. testimoniano D. accertano",C,multiple choice,1030.0,['item_1030_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 959,"B4. L’espressione “Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica” (riga 13) a quando fa riferimento? A. A quando gli abitanti di Toirano avevano usato la grotta della Bàsura come rifugio per sfuggire ai bombardamenti della guerra B. A quando le genti della Riviera, minacciate dalle invasioni barbariche, erano state costrette a fuggire C. A quando la grotta della Bàsura era servita da abitazione agli uomini primitivi D. A quando Don Morelli aveva trovato degli avanzi preistorici nella sala della grotta oggi intitolata al suo nome",A,multiple choice,1031.0,['item_1031_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 960,"B5. Nella frase “un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio” (riga 19), con quale parola si può sostituire “forzare”? A. Rompere B. Aprire C. Attraversare D. Aggirare",B,multiple choice,1032.0,['item_1032_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 961,"B6. Le tracce di unghie di orso osservate sulle pareti di un corridoio vengono definite “le più belle” che si trovino in una grotta (righe 22-23) perché A. erano molto più chiare ed evidenti di quelle trovate in altre grotte B. graffiando le pareti della grotta gli orsi avevano tracciato dei bei disegni C. era la prima volta che impronte di orso venivano scoperte in una grotta D. i graffi sulle pareti della grotta sembravano una decorazione",A,multiple choice,1033.0,['item_1033_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 962,"B7. L’ “orso delle caverne” è un animale A. del tutto simile all'orso bruno attuale B. che oggi non esiste più C. che vive ancora nella grotta della Bàsura D. attualmente in via di estinzione",B,multiple choice,1034.0,['item_1034_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 963,"B8. L’espressione “questo animale” (riga 30) ha lo stesso riferimento di molte espressioni utilizzate nel capoverso precedente (righe 26-29). Qual è l’unica espressione che non si riferisce allo stesso animale? A. Ursus spelaeus B. Questo particolare tipo di orso C. Orso bruno attuale D. Orso delle caverne",C,multiple choice,1035.0,['item_1035_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 964,"B10. Gli orsi dell’era quaternaria usavano le caverne A. per trascorrervi dormendo l’inverno B. come magazzino per le riserve di cibo C. per viverci abitualmente con i loro cuccioli D. come rifugio in caso di pericolo",A,multiple choice,1037.0,['item_1037_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 965,"B11. Che cosa è “particolarmente marcato” (righe 35-36) nelle femmine degli orsi? A. L’amore per i propri cuccioli B. Il grasso accumulato nel corpo C. Il fenomeno del letargo invernale D. Il bisogno di una alimentazione variata",C,multiple choice,1038.0,['item_1038_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 966,"B13. Nella frase “La temperatura in grotta, poi, è ...” (righe 42-43), puoi sostituire la parola “poi” con A. inoltre B. dopo C. anche D. invece",A,multiple choice,1040.0,['item_1040_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 967,"B14. La grotta della bàsura è definita una “grotta orizzontale”. In questo genere di grotta la temperatura A. diminuisce nelle parti più lontane dall'ingresso B. cresce via via che si procede nell'interno C. è condizionata dalla temperatura esterna D. resta costantemente più fresca della temperatura esterna",B,multiple choice,1041.0,['item_1041_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 968,"B17. Verso il fondo della grotta della bàsura sono stati ritrovati grandi ammassi di ossa di orso. Perché? A. Gli uomini primitivi avevano fatto strage di orsi B. Gli orsi non erano più riusciti a ritrovare il percorso verso l’uscita C. Una grave epidemia aveva provocato la morte di migliaia di orsi D. I resti di molti orsi si sono ammucchiati nel corso di un lungo periodo di tempo",D,multiple choice,1044.0,['item_1044_0.png'],2012_06_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La Grotta della Bàsura e l’orso delle caverne La Grotta della Bàsura si apre a 183 metri sul livello del mare vicino a Toirano in Liguria, al centro di una zona ricchissima di caverne naturali, in parte abitate dall’uomo primitivo. Fino al 1950 la grotta era nota solo per il suo tratto iniziale. Nel 1890 la grotta era stata visitata per la prima volta con intendimenti scientifici da Don Niccolò Morelli che vi scoperse, nella sala oggi intitolata al suo nome, avanzi preistorici e anfore romane di tarda età imperiale. Resti di quest’epoca non sono rari nelle grotte e attestano come, nei tempi rovinosi delle invasioni barbariche (II-V secolo d.C.), genti fuggiasche dalla Riviera cercassero asilo nelle grotte, così come vi trovarono rifugio i Toiranesi dopo il tremendo bombardamento dell’agosto 1944, mentre era in corso la seconda guerra mondiale. Durante questo ritorno forzato alla vita preistorica, alcuni componenti del gruppo che aveva scelto come alloggio la Grotta della Bàsura constatarono che, nel punto che fino ad allora era stato creduto la fine della grotta, un filo d’aria filtrava da una fessura tra la volta rocciosa e la cima di una grossa stalagmite. La fessura era molto stretta ma permetteva il passaggio di alcuni pipistrelli che, evidentemente, abitavano in un tratto più interno della grotta. Nel maggio del 1950 un gruppo di ricercatori decise di forzare il passaggio ostruito dalla stalagmite. Dopo vari giorni di lavoro fu possibile scoprire sale e corridoi sempre più vasti, che offrivano tutto il fascino di un mondo sotterraneo inviolato per millenni. Sulle pareti di un corridoio vennero subito osservate le più belle tracce di unghie di orso che si trovino in una grotta e verso il fondo della grotta furono ritrovate le ossa di un grosso animale preistorico: l’orso delle caverne. Durante l’età quaternaria viveva infatti una specie di orso, diversa per molti caratteri dall’orso bruno attuale, che trascorreva una parte della sua vita nelle grotte. Questo particolare tipo di orso, oggi estinto, è stato chiamato Ursus spelaeus, ossia “orso delle caverne”. La vita in grotta di questo animale era legata al letargo invernale. Durante la stagione fredda è spesso difficile procurarsi il cibo. Diverse specie superano questa difficoltà ricorrendo alla soluzione di consumare lentamente in un lungo letargo le riserve di grasso accumulate durante l’estate. Questo comportamento è comune a tutti gli orsi e si manifesta in misura tanto più accentuata quanto più lunga e fredda è la stagione invernale; ma esso è particolarmente marcato nelle femmine. Non appena sopraggiunge l’inverno esse si ritirano in un riparo ben protetto, dove in primavera nasceranno i giovani orsacchiotti. Non deve sorprendere il fatto che alcuni orsi abbiano scelto le grotte come luogo favorevole al letargo. L’aria delle grotte è infatti molto umida, e l’umidità attenua quell’arsura, per cui l’orso, quando si risveglia dal letargo, si affretta alla ricerca dell’acqua e beve ripetutamente e a lungo. La temperatura in grotta, poi, è nell’inverno notevolmente più elevata di quella esterna. Superato il primo tratto, che risente degli sbalzi stagionali, la temperatura di una grotta orizzontale tende ad aumentare man mano che ci si allontana dall’ingresso. È per questo che, per quanto fosse lungo e accidentato il percorso, gli orsi delle caverne tendevano a raggiungere il fondo della grotta. Qui si trovano ammassi di ossa di orso così imponenti da permettere di calcolare che siano appartenute a varie migliaia di individui; qualcuno ha addirittura ipotizzato che vi fosse stata una strage di orsi o una grave epidemia. Ma quello che noi oggi vediamo non è che il risultato di un lento accumulo nel tempo. (Tratto e adattato da: E. Tongiorgi, N. Lamboglia, “La grotta di Toirano”, in Ittnerari liguri 11, Istituto Internazionale di Studi Liguri, Bordighera, 1978) ",6.0,multipla 969,"C5. In quale delle seguenti frasi la divisione in gruppi sintattici è corretta? A. Il mio bellissimo / gatto soriano / è riuscito a scappare / nel giardino confinante B. Il mio bellissimo gatto soriano / è riuscito / a scappare nel giardino confinante C. Il mio bellissimo gatto soriano / è riuscito a scappare / nel giardino confinante D. Il mio bellissimo gatto / soriano è riuscito / a scappare / nel giardino confinante",C,multiple choice,1050.0,['item_1050_0.png'],2012_06_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 970,"C8. Tra le frasi seguenti scegli quella in cui c’è un verbo intransitivo. A. Giovanni ieri ha dormito tutto il giorno B. Al mercato la carne è venduta a un prezzo più basso C. Oggi mio padre ha comprato due giornali D. Le valigie sono state caricate direttamente in macchina",A,multiple choice,1053.0,['item_1053_0.png'],2012_06_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 971,"A1. In base al testo, un “inserzionista” è chi A. tratta affari per telefono B. fa annunci economici sui giornali C. crea pubblicità per i giornali D. pubblica sui quotidiani informazioni a pagamento",B,multiple choice,1055.0,['item_1055_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 972,"A3. Il protagonista non ricorre ai negozianti per vendere la sua collezione perché A. si sente superiore a loro B. lo ritiene poco dignitoso C. vuole ricavare più soldi D. si fida poco di loro´",B,multiple choice,1057.0,['item_1057_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 973,"A4. La parola “colonne” alla riga 6 indica A. le pagine centrali dei quotidiani B. le bacheche in cui si affiggono gli avvisi C. i caratteri a stampa più grandi ed evidenti D. le suddivisioni verticali delle pagine",D,multiple choice,1058.0,['item_1058_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 974,"A5. L’espressione “garantiva l’anonimato” alla riga 7 significa A. assicurava un guadagno al netto delle tasse B. metteva in contatto con molti compratori sconosciuti C. permetteva di non rivelare la propria identità D. permetteva di concludere in fretta la trattativa",C,multiple choice,1059.0,['item_1059_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 975,"A6. “... più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere” (righe 21-23). Perché il protagonista si comporta così? A. Era affezionato alla sua raccolta e gli dispiaceva separarsene B. Pensava che i compratori non apprezzassero abbastanza la sua collezione C. Gli faceva piacere essere chiamato al telefono e sentirsi cercato D. Voleva prolungare il più possibile la trattativa per trovare il miglior offerente",C,multiple choice,1060.0,['item_1060_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 976,"A7. La parola “anziché” alla riga 27 può essere sostituita da A. invece di B. per C. prima di D. allo scopo di",A,multiple choice,1061.0,['item_1061_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 977,"A8. Qual è il vero motivo per cui il protagonista non vende la sua collezione di francobolli? A. Nessuno gli telefona più per comperarla B. Ha messo in vendita altri oggetti C. Ha deciso di non venderla più D. Il suo obiettivo non è più quello di vendere",D,multiple choice,1062.0,['item_1062_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 978,"A10. Dalle righe 28-29 e 30 si capisce che il protagonista A. rimpiange di aver rotto i rapporti con i colleghi di lavoro B. anche nella vita lavorativa era stato un uomo solo C. era stato indifferente verso le persone con cui lavorava D. aveva avuto rapporti conflittuali con i colleghi di lavoro",B,multiple choice,1064.0,['item_1064_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 979,"A12. Qual è la differenza più importante fra quello che il protagonista mette in vendita nella prima offerta e quello che mette in vendita nelle offerte successive? A. Nel primo caso il protagonista descrive lo stato di ciò che mette in vendita, negli altri casi no B. Nel primo caso offre qualcosa che interessa a molti, negli altri casi fa offerte poco interessanti C. Nel primo caso offre qualcosa che possiede, negli altri casi offre qualcosa che non possiede D. Nel primo caso mette in vendita qualcosa di poco prezioso, negli altri casi oggetti di grande valore",C,multiple choice,1066.0,['item_1066_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 980,"A13. “Chi era laconico e chi era ciarliero”, alle righe 48-49, significa che gli interlocutori erano A. alcuni spazientiti, altri rassegnati B. alcuni di poche parole, altri chiacchieroni C. qualcuno timido, qualcuno intraprendente D. qualcuno pignolo, qualcuno sbrigativo",B,multiple choice,1067.0,['item_1067_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 981,"A16. Nella frase “gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato una attività commerciale” (righe 58-59), il verbo “dovere” indica A. un obbligo B. una necessità C. una probabilità D. una realtà",C,multiple choice,1070.0,['item_1070_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 982,"A17. Nella casa del protagonista vengono trovati “armadi e cassetti sottosopra” (riga 64) perché A. c’è stata una perquisizione della polizia B. l’anziano vive in una situazione di abbandono C. c’è stato un tentativo di furto D. il protagonista è una persona disordinata",C,multiple choice,1071.0,['item_1071_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 983,"A19. Di che cosa è davvero vittima il protagonista? A. Della cattiveria del prossimo B. Del meccanismo che lui stesso ha messo in atto C. Dell’invidia dei vicini D. Del desiderio di guadagno che si è impadronito di lui",B,multiple choice,1073.0,['item_1073_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 984,"A20. Il tema centrale del testo è A. la solitudine B. la fragilità umana C. la noia D. l’avarizia",A,multiple choice,1074.0,['item_1074_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 985,"A21. Il testo che hai letto è A. un rapporto di polizia B. un racconto verosimile C. un racconto fantastico D. un articolo di cronaca",B,multiple choice,1075.0,['item_1075_0.png'],2012_08_PN_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’INSERZIONISTA L’idea gli era venuta un giorno quasi per caso. A chi mai avrebbe lasciato la sua collezione di francobolli messa insieme con tanta pazienza nel corso di una vita? Non aveva moglie né figli né fratelli, a cui consegnare in eredità quel prezioso album. Tanto valeva, ormai che era vecchio, disfarsene e realizzare un po’ di soldi. Però dai negozianti, che per anni aveva frequentato come compratore, si vergognava adesso di entrare. Non desiderava sembrare in vendita. Perché non ricorrere alle colonne di un quotidiano, che meglio di tutti garantiva l’anonimato? «Filatelico anziano cede raccolta commemorativi europei. Telefonare ore pasti...» Se n’era quasi dimenticato quando, una settimana più tardi, intorno a mezzogiorno squillò il telefono. Ascoltando quel trillo improvviso fu colto da una strana euforia, rispose quasi con allegria alla voce sconosciuta. «Sì, sono io che ho fatto l’annuncio! Dica pure.» In realtà era l’interlocutore a pretendere schiarimenti, e anzi non volle sbilanciarsi minimamente con un’offerta qualsiasi. «Guardi, io il prezzo non l’ho ancora fissato» disse lui cercando di prendere tempo. «Mi lasci il Suo numero e La richiamerò.» Tornò a tavola, ma il suo pasto solitario fu di nuovo interrotto da una seconda chiamata. «Pronto, sì, buongiorno» rispose questa volta con maggiore scioltezza. Certo non avrebbe mai pensato che tanta gente potesse interessarsi a lui, ma più si facevano vivi i compratori interessati, e più lui capiva di non avere nessuna intenzione di vendere. Il piacere consisteva semmai nel sentirsi richiesto, nella breve trattativa che ne seguiva, e soprattutto in quei trilli prolungati che scuotevano il silenzio di quelle stanze. In capo a pochi giorni, purtroppo, gli appelli si diradarono fino a spegnersi del tutto. Se la collezione di francobolli non aveva trovato un acquirente era solo perché lui aveva indugiato, dilettandosi a chiacchierare anziché contrattare il valore della merce. Quelle persone senza volto erano uscite dalla sua vita senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite, indifferenti alla sua sorte com’erano stati un tempo i colleghi d’ufficio. Una mattina, mentre su una panchina del giardino comunale sfogliava i titoli del giornale, quasi assente e soprapensiero, l’occhio gli cadde sulle colonne fitte di annunci economici. Certo, quando avesse voluto, con una modica spesa avrebbe potuto ritentare l’esperimento, riallacciare il dialogo con tante voci ignote, ma adesso era prematuro, lo avrebbero riconosciuto e mandato al diavolo insieme alla sua collezione. Ci pensò qualche giorno e poi formulò una nuova inserzione, imitando un linguaggio di cui cominciava ad apprezzare le sfumature. «BMW seminuova accessoriata cedo affarone.» Ecco, con poche centinaia di lire a parola, adesso possedeva anche una macchina. Il primo fu un giovanotto sbrigativo, pronto ad acquistare la vettura in giornata. «Mi dica quanto vuole, le dò i soldi sull’unghia...» «Mi spiace, l’ho venduta mezz’ora fa.» Volevano sapere, chiedevano dettagli, anno di immatricolazione, numero di chilometri, anche se non potevano più comperarla, e lui era felice di accontentarli, condividendo alla fine il loro rincrescimento. «Sarà per un’altra volta» finiva per congedarsi. Quasi non usciva più di casa, nemmeno per la solita passeggiata ai giardini, nel timore che suonasse a vuoto il telefono. Chi proponeva scambi, compensi, dilazioni. Chi era laconico e chi era ciarliero. Chi si spazientiva e chi si rassegnava. Mai nella sua vita aveva avuto a disposizione un campionario di umanità così ricco, e la possibilità di influenzarne per breve tempo gli umori. Ogni volta, la sensazione era di possedere davvero quei beni, e di poterne disporre a suo piacimento. Ora per nulla al mondo avrebbe rinunciato al colloquio con le voci sconosciute, al piacere di tenere in pugno i loro desideri, le loro vanità, i loro capricci. Quelle pareti che avevano ascoltato solo i rintocchi della pendola in anticamera, ora assorbivano fiumi di parole, e persino sussurri, imprecazioni, qualche risata. Quel telefono che era stato muto per anni, suonava come impazzito. Udendo squillare incessantemente il suo telefono, gli inquilini delle porte accanto dovevano essersi convinti che egli avesse inaugurato un’attività commerciale, poiché lo squadravano, incontrandolo, con grande curiosità. Del resto anche il suo aspetto fisico era cambiato, e qualche timido sorriso gli distendeva la faccia incupita. Ma fu una serenità di breve durata. La polizia lo trovò, chiamata dai vicini di casa allarmati dal lungo silenzio, senza vita, armadi e cassetti sottosopra. La sua ultima inserzione era stata: «Vendo brillante inestimabile valore…». (Tratto e adattato da: C. Castellaneta, Questa primavera, Milano, Rizzoli, 1984, pp. 229-233) ",8.0,multipla 986,"B1. Che cosa significa che un sistema energetico è “sostenibile”? A. Produce energia facilmente trasportabile B. Non ha un impatto negativo sull'ambiente C. Produce energia a prezzi molto bassi D. Le scorie si possono riciclare per altri usi",B,multiple choice,1077.0,['item_1077_0.png'],2012_08_PN_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA) ",8.0,multipla 987,"B3. Oggi l’idrogeno può essere ottenuto A. dall'acqua B. dal vapore C. dall'energia elettrica D. dai combustibili fossili",D,multiple choice,1079.0,['item_1079_0.png'],2012_08_PN_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA) ",8.0,multipla 988,"B6. L’uso dell’idrogeno per le auto è conveniente perché A. ha una resa elevata e non inquina l’aria B. prolunga la vita dei motori C. permette di raggiungere velocità più elevate D. assicura percorrenze più lunghe con minori consumi",A,multiple choice,1082.0,['item_1082_0.png'],2012_08_PN_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA) ",8.0,multipla 989,"B7. Una delle soluzioni proposte per il problema del rilascio di CO2 nella produzione di idrogeno è di A. bruciarla in ambiente protetto nel momento stesso in cui viene generata B. trasformarla in vapore acqueo C. imprigionarla in giacimenti di combustibili fossili abbandonati D. disperderla nell'atmosfera",C,multiple choice,1083.0,['item_1083_0.png'],2012_08_PN_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA) ",8.0,multipla 990,"B8. Lo scopo principale del testo che hai letto è A. mettere in guardia sui numerosi problemi non risolti legati all'uso dell’idrogeno B. informare sulle caratteristiche e sugli usi dell’idrogeno per la produzione di energia C. illustrare i vantaggi economici dell’uso dell’idrogeno per l’industria automobilistica D. riportare le diverse e contrastanti posizioni nel mondo scientifico sul futuro uso dell’idrogeno",B,multiple choice,1084.0,['item_1084_0.png'],2012_08_PN_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"UN FUTURO A IDROGENO SENZA CO2 L’idrogeno non può essere considerato una fonte primaria di energia, in quanto non esistono giacimenti di idrogeno, ma è un “vettore energetico”, ovvero è un buon sistema per accumulare e trasportare energia. L’idrogeno è un vettore ideale per un sistema energetico “sostenibile”, in quanto: • può essere prodotto da una pluralità di fonti, sia fossili che rinnovabili, tra loro intercambiabili e disponibili su larga scala per le generazioni future; • può essere impiegato per applicazioni diversificate, dal trasporto alla generazione di energia elettrica, con un impatto ambientale nullo o estremamente ridotto sia a livello locale che globale. Accanto ai vantaggi, l’introduzione dell’idrogeno presenta ancora numerosi problemi connessi allo sviluppo delle tecnologie necessarie per rendere il suo impiego economico e affidabile. Lo sviluppo di tali tecnologie è oggi al centro dei programmi di ricerca di numerosi paesi. Uno dei problemi più critici è sicuramente quello della produzione; in prospettiva l’idrogeno si potrà ottenere dall’acqua, a emissioni zero, utilizzando le energie rinnovabili; oggi la soluzione più vicina è rappresentata dai combustibili fossili (estrazione dell’idrogeno a partire da carbone, petrolio e gas naturale) ma il problema da risolvere, in questo caso, è quello della separazione e del confinamento della CO2 prodotta insieme all’idrogeno. L’idrogeno può essere utilizzato: • nei motori a combustione interna. L’idrogeno è un eccellente combustibile e può essere bruciato in un normale motore a combustione interna come accade in alcuni modelli di auto già commercializzati. I rendimenti sono elevati e le emissioni si riducono a vapore acqueo e pochissimi ossidi di azoto; • nelle celle a combustibile. Sono sistemi elettrochimici capaci di convertire l’energia chimica di un combustibile direttamente in energia elettrica con un rendimento nettamente superiore a quello degli impianti convenzionali e senza emissioni di CO2. Le celle a combustibile sono una soluzione già adottata da molte case automobilistiche per la costruzione di prototipi elettrici alimentati a idrogeno. Un’automobile a celle a combustibile produce a bordo l’elettricità necessaria al suo funzionamento, senza emissioni nocive; • nelle centrali termoelettriche a idrogeno. I programmi di ricerca e sviluppo della tecnologia consentiranno di costruire impianti che utilizzeranno l’idrogeno per la generazione centralizzata di energia elettrica. Questi impianti, abbinati ad un sistema di separazione e di confinamento della CO2, ad esempio in giacimenti esauriti di petrolio o di metano, permetteranno la produzione di elettricità con un alto rendimento e senza rilascio di anidride carbonica. (Tratto e adattato da: Clima e cambiamenti climatici, 2005, Roma, ENEA) ",8.0,multipla 991,"C3. Per poter cambiare treno, in caso di necessità, il viaggiatore deve A. presentare il biglietto a chi emette quello nuovo B. esigere un nuovo biglietto dal controllore C. pagare un costo aggiuntivo D. esporre il suo caso all'autorità competente",A,multiple choice,1087.0,['item_1087_0.png'],2012_08_PN_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie"" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie"" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni ",8.0,multipla 992,"C4. In base a quanto si dice sul retro (Faccia 2) del biglietto, il viaggiatore che non riesce a convalidare il biglietto a chi deve rivolgersi? A. Al capostazione B. Agli impiegati della biglietteria C. Al controllore D. Agli agenti della polizia ferroviaria",C,multiple choice,1088.0,['item_1088_0.png'],2012_08_PN_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie"" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie"" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni ",8.0,multipla 993,"C5. Che cosa fa l’obliteratrice? A. Distrugge il biglietto già utilizzato, facendolo a striscioline B. Invia al capotreno l’informazione che il viaggiatore è arrivato al binario C. Stampa sul biglietto la data e l’ora e lo rende utilizzabile per un periodo definito D. Aggiorna automaticamente il numero dei biglietti utilizzati quel giorno in quella stazione",C,multiple choice,1089.0,['item_1089_0.png'],2012_08_PN_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie"" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie"" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni ",8.0,multipla 994,"C7. Un biglietto come quello qui riprodotto deve essere convalidato? A. Sì, perché tutti i biglietti devono essere convalidati B. No, perché il biglietto viene convalidato a bordo C. Sì, per confermare la prenotazione D. No, perché non è un treno regionale",D,multiple choice,1091.0,['item_1091_0.png'],2012_08_PN_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie"" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie"" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni ",8.0,multipla 995,"C8. Le modalità di convalida del biglietto sono scritte anche in inglese. Perché? A. Ciò permette ai viaggiatori inglesi di capire cosa fare prima di salire su un treno B. È la lingua più conosciuta dai viaggiatori stranieri C. Trenitalia è una società mista italo-britannica D. Le comunicazioni rivolte al pubblico, nei paesi europei, sono scritte anche in inglese",B,multiple choice,1092.0,['item_1092_0.png'],2012_08_PN_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Osserva con attenzione le due facce (fronte e retro) del biglietto ferroviario qui riprodotto e poi rispondi alle domande. Faccia 1 (FRONTE) AW 8538310 AG BIGLIETTO CON PRENOTAZIONE FRECCIARGENTO MINI N. 1 ADULTI DA ESIBIRE IN CASO DI CAMBIO DI TRENO Con questo viaggio risparmi circa 54kg di CO2 Data Ora Partenza --->Arrivo Data Ora Classe 01.03 15.55 PADOVA ROMA TERMINI 01.03 19.03 2 TRENO 9419 CARROZZA 006 POSTI 77 CORRIDOIO MINI EUR****47,00 TERM. POS TOT.BIGL.N.1 830402460132 0749AW6538310 00001 0080 SOLE E LUNA VIAGGI 280211 09:47 06148**2 P.IVA 05403121003 P.N.R. XMJGMR Faccia 2 (RETRO) CONDIZIONI DI TRASPORTO MODALITA’ DI CONVALIDA DEL BIGLIETTO Il contra o di trasporto è disciplinato dalle “Condizioni Generali di trasporto dei passeggeri di Trenitalia”. Maggiori informazioni su “Condizioni Generali di trasporto” e “modalità di convalida del biglie o” presso le Biglie erie delle stazioni, le agenzie di viaggio e sul sito: www.ferroviedellostato.it/areaclien!/condizioniditrasporto I biglie"" per treni regionali e gli abbonamen! regionali, che non prevedono un posto riservato, devono essere convalida! alla obliteratrice prima della partenza. Per tali !toli di viaggio la validità decorre dal momento della convalida del biglie o. I viaggiatori con biglie o non convalidato incorrono nel pagamento di penalità. Nel caso non fosse possibile convalidare i biglie"" per mancanza o guasto delle obliteratrici, rivolgersi, all’a o della salita, al personale di bordo che convaliderà il biglie o senza applicare alcuna penalità. VALIDATION OF THE TICKET Tickets not including seat reserva!on must always be validated. Lack of valida!on can result in fines. For further informa!on please check our website www.ferroviedellostato.it or go to one of our Trenitalia Ticke!ng and Assistance customer centres. ATTENZIONE! Non tentare di salire al volo o di aprire le porte quando il treno si muove e non salire o scendere dal treno al di fuori dei marciapiedi delle stazioni ",8.0,multipla 996,"D2. In quale delle seguenti frasi la parola “lungo” è usata come aggettivo? A. ? Abbiamo passeggiato lungo il fiume B. ? Avete parlato a lungo senza concludere niente C. ? Il viale dietro casa mia è davvero lungo D. ? Ho girato in lungo e in largo tutto il supermercato",C,multiple choice,1094.0,['item_1094_0.png'],2012_08_PN_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 997,"D8. Quale delle seguenti parole corrisponde a questa analisi: nome, maschile, singolare, derivato? A. Libreria B. Libresco C. Libraio D. Libricini",C,multiple choice,1100.0,['item_1100_0.png'],2012_08_PN_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 998,"A1. Lo Sportase è un integratore perché A. restituisce all'organismo sostanze che ha perduto B. fornisce tutta l’acqua di cui il corpo ha bisogno C. completa un’alimentazione poco equilibrata D. aumenta le forze per l’attività sportiva",A,multiple choice,1104.0,['item_1104_0.png'],2012_10_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Sportase Integratore energetico salino L’ATTIVITÀ FISICO-SPORTIVA Praticare una regolare attività sportiva migliora lo stato di benessere e di salute del nostro organismo. Ma chi pratica sport notoriamente suda molto e con il sudore elimina sia molta acqua; che deve essere reintrodotta rapidamente; sia diversi sali minerali; che devono essere reintegrati. LA FATICA Durante l’attività fisica si verifica un notevole incremento della produzione di calore; con aumento progressivo della temperatura corporea. Una temperatura troppo elevata; oltre a costringere lo sportivo a interrompere lo sforzo; è pericolosa per la salute. La perdita di acqua con il sudore è accompagnata da quella di sali minerali che altera la capacità delle cellule di trasmettere lo stimolo nervoso. È quindi possibile che perdite importanti di sali minerali facciano diminuire la capacità di prestazione dello sportivo e; insieme con la perdita di zuccheri e di liquidi; possano determinare un quadro di fatica acuta. In conclusione; quando lo sforzo è intenso e prolungato; la reintegrazione con acqua; sali minerali ed elementi energetici zuccherini rappresenta un metodo per ritardare l?insorgenza della fatica e per evitare danni all?organismo . L’IMPORTANZA DEGLI ZUCCHERI Durante lo svolgimento di attività fisica il muscolo trae energia dalle riserve di zuccheri; che costituiscono una fonte di energia rapidamente disponibile; che però viene altrettanto rapidamente consumata. SPORTASE contiene maltodestrine e fruttosio; due carboidrati (tipi di zuccheri) a rapido assorbimento; che reintegrano le riserve muscolari di glicogeno; un materiale che il nostro organismo produce come riserva energetica. L’IMPORTANZA DEI SALI MINERALI Con il sudore si perdono soprattutto sodio; potassio; magnesio e cloro; importanti nella regolazione dell’equilibrio organico. In particolare; durante la pratica di attività sportiva si verifica una perdita di potassio dai muscoli che può determinare la comparsa di crampi e debolezza muscolare. SPORTASE contiene sia potassio sia magnesio e perciò la sua assunzione in corso di attività fisica permetterà di ridurre l?affaticamento muscolare; consentendo un recupero funzionale più rapido. Modalità d'uso; indicazioni e posologia di SPORTASE MODALITÀ D'USO. sciogliere una bustina in 500 ml di acqua (bottiglia o borraccia da mezzo litro) e mescolare/agitare bene. Si otterrà una bevanda energetico-salina di pronta utilizzazione ideale nei casi d’intensa attività fisica sia agonistica che amatoriale. INDICAZIONI. Sportase reintegra i sali minerali persi con la sudorazione e; grazie al potassio e al magnesio; esplica un’efficace azione sulla contrazione muscolare. Inoltre fornisce energia derivante dalla presenza di carboidrati; quali fruttosio e maltodestrine. POSOLOGIA. Sportase deve essere assunto durante o immediatamente dopo l’attività fisica. Si consiglia di non superare 3 bustine al giorno. ",10.0,multipla 999,"A4. Qual è la funzione fondamentale di Sportase? A. Fornire all'organismo energia e sali minerali B. Eliminare la sete e i crampi muscolari C. Diminuire la sudorazione e la perdita di cloro D. Controllare la temperatura corporea e il livello di potassio",A,multiple choice,1107.0,['item_1107_0.png'],2012_10_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Sportase Integratore energetico salino L’ATTIVITÀ FISICO-SPORTIVA Praticare una regolare attività sportiva migliora lo stato di benessere e di salute del nostro organismo. Ma chi pratica sport notoriamente suda molto e con il sudore elimina sia molta acqua; che deve essere reintrodotta rapidamente; sia diversi sali minerali; che devono essere reintegrati. LA FATICA Durante l’attività fisica si verifica un notevole incremento della produzione di calore; con aumento progressivo della temperatura corporea. Una temperatura troppo elevata; oltre a costringere lo sportivo a interrompere lo sforzo; è pericolosa per la salute. La perdita di acqua con il sudore è accompagnata da quella di sali minerali che altera la capacità delle cellule di trasmettere lo stimolo nervoso. È quindi possibile che perdite importanti di sali minerali facciano diminuire la capacità di prestazione dello sportivo e; insieme con la perdita di zuccheri e di liquidi; possano determinare un quadro di fatica acuta. In conclusione; quando lo sforzo è intenso e prolungato; la reintegrazione con acqua; sali minerali ed elementi energetici zuccherini rappresenta un metodo per ritardare l?insorgenza della fatica e per evitare danni all?organismo . L’IMPORTANZA DEGLI ZUCCHERI Durante lo svolgimento di attività fisica il muscolo trae energia dalle riserve di zuccheri; che costituiscono una fonte di energia rapidamente disponibile; che però viene altrettanto rapidamente consumata. SPORTASE contiene maltodestrine e fruttosio; due carboidrati (tipi di zuccheri) a rapido assorbimento; che reintegrano le riserve muscolari di glicogeno; un materiale che il nostro organismo produce come riserva energetica. L’IMPORTANZA DEI SALI MINERALI Con il sudore si perdono soprattutto sodio; potassio; magnesio e cloro; importanti nella regolazione dell’equilibrio organico. In particolare; durante la pratica di attività sportiva si verifica una perdita di potassio dai muscoli che può determinare la comparsa di crampi e debolezza muscolare. SPORTASE contiene sia potassio sia magnesio e perciò la sua assunzione in corso di attività fisica permetterà di ridurre l?affaticamento muscolare; consentendo un recupero funzionale più rapido. Modalità d'uso; indicazioni e posologia di SPORTASE MODALITÀ D'USO. sciogliere una bustina in 500 ml di acqua (bottiglia o borraccia da mezzo litro) e mescolare/agitare bene. Si otterrà una bevanda energetico-salina di pronta utilizzazione ideale nei casi d’intensa attività fisica sia agonistica che amatoriale. INDICAZIONI. Sportase reintegra i sali minerali persi con la sudorazione e; grazie al potassio e al magnesio; esplica un’efficace azione sulla contrazione muscolare. Inoltre fornisce energia derivante dalla presenza di carboidrati; quali fruttosio e maltodestrine. POSOLOGIA. Sportase deve essere assunto durante o immediatamente dopo l’attività fisica. Si consiglia di non superare 3 bustine al giorno. ",10.0,multipla 1000,"B1. Il testo che hai letto si intitola “La giornata” e non “Una giornata” perché narra A. come Andurro trascorre il giorno in un momento particolare B. il modo abituale in cui Andurro trascorre il giorno C. quello che è successo ad Andurro in una giornata importante D. il modo in cui Andurro vede cambiare il cielo nel corso della giornata",B,multiple choice,1109.0,['item_1109_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1001,"B2. Nella frase “Malgrado fosse già sveglio” (riga 2), con quale congiunzione si può sostituire “malgrado” senza cambiare il resto della frase né il suo significato? A. Anche se B. Poiché C. Come se D. Sebbene",D,multiple choice,1110.0,['item_1110_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1002,"B3. A quale momento della giornata si fa riferimento nel brano che segue? “Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell'arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo»” (righe 5 - 7). A. Alla mattina B. All'alba C. Alla notte D. Al tramonto del sole",B,multiple choice,1111.0,['item_1111_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1003,"B5. Perché Andurro “rise un poco e scosse la testa” (riga 13)? A. È contento di esser vivo mentre la moglie è morta B. Si ricorda che la moglie sembrava una gallinella C. Immagina di parlare ancora con la moglie D. Si sorprende che la moglie sia morta prima di lui",D,multiple choice,1113.0,['item_1113_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1004,"B6. Indica il significato che nel testo assume il verbo “biascicare” (riga 17 e 32). A. Parlare in modo incomprensibile B. Cercare di masticare senza denti C. Borbottare fra sé e sé D. Mangiare senza appetito",B,multiple choice,1114.0,['item_1114_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1005,"B10. Alla fine del testo si legge “la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio” (righe 51-52). Che cosa significa questa frase? A. La sera divenne bruscamente notte fonda, così da favorire il sonno del vecchio B. Il vecchio stentò ad addormentarsi mentre le ore della sera scorrevano lentamente C. Il vecchio si addormentò quando, alla fine della sera, la sua mente fu libera da ogni pensiero D. Le ore della sera, in attesa del sonno, passarono lievi e piacevoli per il vecchio",D,multiple choice,1118.0,['item_1118_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1006,"B13. In questo testo la narrazione è condotta prevalentemente con verbi al passato remoto. Quando viene usato il tempo imperfetto esso indica azioni A. che durano per breve tempo B. che si ripetono ogni giorno C. che sono avvenute una volta sola D. che si sono ormai concluse",B,multiple choice,1121.0,['item_1121_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1007,"B16. Nel descrivere la giornata di Andurro l’autrice vuole soprattutto mettere in evidenza il contrasto tra A. le dure condizioni di vita del protagonista e la sua capacità di godere di ogni piccola cosa B. l’agiatezza della vita dei signori e la povertà di quella di Andurro C. la giovinezza della nipote Elena e la vecchiaia di Andurro D. il lento trascorrere delle ore della notte e l’animazione del villaggio durante le ore del giorno",A,multiple choice,1124.0,['item_1124_0.png'],2012_10_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"La giornata Il vecchio Andurro, che non conosceva la propria età, si svegliò nella notte alta, come sempre gli accadeva. Malgrado fosse già sveglio, non poteva però alzarsi fino alla mattina, quando sua nipote Elena veniva per aiutarlo. Da solo, era incapace di alzarsi. Le ore di immobilità e di silenzio, fino all’alba, scorrevano per lui senza fastidio né dolore, facili come acqua. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea lui non vedeva di fuori; pure avvertiva il pullulare delle stelle nell’arco celeste e il loro trascolorarsi finché pensava: «Ci siamo». E, si può dire, nello stesso istante, per le fessure trapelava la prima luce, simile nel colore ad un viso pallido e ancora sbattuto dai sogni. Il vecchio Andurro pensò: «Fra poco verrà mia nipote Elena mentre prima veniva mia moglie Maria. Era una vecchia ancora così vispa, sempre a chiacchierare e arruffarsi come una gallina, quando già io non potevo fare due passi in fila. Le dicevo: “Con chi borbotterai, Gallinella, quand’io sarò sotterrato?” Invece, guarda, lei è morta, e io son qua». Egli rise un poco e scosse la testa. In quel punto arrivò, alta, a piedi nudi, la nipote Elena. Chinando su lui gli occhi neri, che le raggiavano nella fronte come due astri, seria ed esperta lo vestì e lo aiutò a sedersi sul gradino della soglia. Non dimenticò di lasciargli la scodella della zuppa che doveva bastargli per tutto il giorno: una pappa di pane molle e d’erbe tritate, quanto esiste di meglio per un vecchio buono solo a biascicare. E senza rumore, movendo con nobilissima grazia il fianco, la nipote Elena se ne andò. Seduto sullo scalino della soglia, il vecchio sapeva che il sole si era levato ma, nascosto dalla montagna, non si vedeva. Dai fianchi della montagna ne trapelava l’ardore, finché apparvero i raggi e il vecchio pensò per la millesima volta: «Pare lo Spirito Santo dietro la nuvola». Questo pensiero lo tenne occupato parecchio tempo; alla fine, libera, di sulla montagna si versò la meravigliosa corrente d’oro, e i vetturini uscirono per addobbare i loro cavalli e partirono fra gli schiocchi delle fruste. A tutti, Andurro gridava: – Buon viaggio! – ma essendo la sua voce impastata e roca, simile ad un brontolio di tuono, essi non lo capivano. Alle dieci cominciava il passaggio dei signori che scendevano al mare: – Accomodatevi, signorini, – supplicava il vecchio, – salite sulla mia terrazza, che c’è il bel panorama –. Credendo che il suo scopo fosse il guadagno, i più rifiutavano. Invece Andurro non voleva compenso, anzi offriva alle signore i garofani della sua terrazza. Non potendo lui stesso salire fin lassù, da dove appariva fino il vulcano e le isole, voleva che almeno qualcun altro godesse al suo posto. – Bello! – gridavano tutti dall’alto. E il vecchio rideva contento per l’onore. A mezzogiorno, biascicò metà della zuppa, lasciando il resto per la cena. Per alcune ore nessuno passò, fuori dei marmocchi seminudi che si rotolavano nella polvere e di qualche asino portato alla cavezza da una bambina. Buona parte di questo tempo, il vecchio la trascorse con la testa chinata sulle ginocchia o appoggiata allo stipite. Udendo le campane pensò alla canzone: «Din don, campanon, fra Simon». Anche simile canzone ebbe il potere di occupare la sua mente per lunghe ore; al modo di un suono che nasce da un punto, e attraverso una rupe, e un’altra, e un’altra, si ripercuote per amplissimo spazio. A intervalli, la nipote Elena appariva per offrirgli i suoi servigi. Salutandola con gesto indulgente egli le gridò: – Ce l’hai il damo? Il sole scese dalla parte del mare, ma il vecchio solo vagamente ne distingueva l’ardente cerchio. Prima che l’umidità vespertina potesse penetrargli nelle ossa, venne la solerte nipote Elena, alta e a piedi nudi; e chinando su di lui gli occhi neri, che le facevano ombra nella fronte come due rose di velluto, lo spogliò e lo mise a letto. Poi, fattogli sul viso il segno della croce, andò via. Dalla sua camera stretta e quasi sotterranea, di nuovo il vecchio non vedeva di fuori; ma avvertiva la prima animazione delle stelle nel crepuscolo del cielo, e il loro accendersi in un punto fisso. «A quest’ora, – pensò, – mia moglie Maria quand’era viva recitava il rosario, e cip cip, cip cip, non la finiva più. Se Dio vuole, quella sua canzonetta sarà servita anche per me. Così non dovrò preoccuparmi troppo dell’anima mia. Già». Grazie a questo pensiero che gli girava nella mente, la sera camminò facile e benigna sulla veglia del vecchio. Battevano le ore della notte, e la luna, sottile quasi quanto un filo, via via procedeva con quel suono. Quand’essa fu molto alta e quasi al declino, il vecchio Andurro si addormentò. (Tratto e adattato da: Elsa Morante, Lo scialle andaluso, Torino, Einaudi, 2007) ",10.0,multipla 1008,"C3. Quale delle seguenti frasi è la parafrasi di “ove irrompono sparuti monelli” (versi 6 e 7)? A. Dove all'improvviso arrivano correndo dei bambini magri e patiti B. Dove appaiono a un certo momento dei bambini dispettosi C. Dove si muovono avanti e indietro dei bambini spauriti D. Dove dei bambini arruffati e sporchi camminano e giocano",A,multiple choice,1127.0,['item_1127_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,multipla 1009,"C5. Il “lei” del verso 8 sta per A. la persona con la quale dialoga il poeta B. la strada appena descritta C. la primavera senza sole D. la voce dei monelli che tace di sera",B,multiple choice,1129.0,['item_1129_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,multipla 1010,"C7. Indica la serie formata da parole della poesia che si riferiscono tutte alla stessa area di significato A. squarcio – scatto di tacchi – duetto d’opera B. clamore – squarcio – capannello C. clamore – scatto di tacchi – sgolarsi d’un duetto D. sparuti monelli – tacchi adolescenti – fatica e ira",C,multiple choice,1131.0,['item_1131_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,multipla 1011,"C8. Quale funzione ha la ripetizione delle parole “volti” e “ombra” nei versi 11 e 12? A. Far capire che gli abitanti di via Scarlatti sono scostanti B. Tradurre un senso di angoscia e di smarrimento C. Dire che il poeta non riesce a riconoscere la gente D. Esprimere la stanchezza e l’impotenza del poeta",B,multiple choice,1132.0,['item_1132_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,multipla 1012,"C9. Il verbo “irride” (verso 13) segna il passaggio e il contrasto tra A. la rappresentazione di vecchi irosi e quella di giovani che si vogliono divertire B. l’interno di tristezza e di ira e l’esterno di gioia e allegria C. il silenzio dei passanti anziani e il chiasso dei giovani che corrono a sentire l’opera D. la scena triste che precede e l’immagine scanzonata che segue",D,multiple choice,1133.0,['item_1133_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,multipla 1013,"C11. Nella parte centrale del testo (versi 3-16) il poeta A. scopre progressivamente suoni, colori, umanità di via Scarlatti B. coglie i momenti e le scene felici di via Scarlatti C. si lamenta della tristezza e del buio della strada dove andrà ad abitare D. si commuove vedendo la miseria e la disperazione dei monelli e dei giovani",A,multiple choice,1135.0,['item_1135_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,multipla 1014,"C13. Qual è l’immagine complessiva che il poeta dà di via Scarlatti? A. Silenziosa e tranquilla B. Luminosa e serena C. Buia con sprazzi di luce D. Deserta e in ombra",C,multiple choice,1137.0,['item_1137_0.png'],2012_10_SNV_C,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Via Scarlatti La poesia è stata scritta da Vittorio Sereni nel 1945, in occasione del suo trasloco in via Scarlatti a Milano. La seconda guerra mondiale era appena finita e Milano era stata pesantemente bombardata. Il poeta aveva già avuto esperienza diretta della guerra come soldato. Con non altri che te è il colloquio. Non lunga tra due golfi di clamore va, tutta case, la via; ma l’apre d’un tratto uno squarcio ove irrompono sparuti monelli e forse il sole a primavera. Adesso dentro lei par sera. Oltre anche più s’abbuia, è cenere e fumo la via. Ma i volti i volti non so dire: ombra più ombra di fatica e d’ira. A quella pena irride uno scatto di tacchi adolescenti, l’improvviso sgolarsi d’un duetto d’opera a un accorso capannello. E qui t’aspetto. (Vittorio Sereni, Gli strumenti umani in M.T. Sereni (a cura di) “Tutte le poesie”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1986) ",10.0,multipla 1015,"D1. “OKkio alla SALUTE” è A. il nome di un istituto di sondaggi B. il nome di un centro di cura dell’obesità C. il nome di un dipartimento dell’Istituto Superiore di Sanità D. il nome di una indagine",D,multiple choice,1139.0,['item_1139_0.png'],2012_10_SNV_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24) ",10.0,multipla 1016,"D4. A che cosa servono i dati statistici presentati dall'autore? A. A dimostrare che molte malattie sono dovute alle cattive abitudini di vita e all'eccesso di peso dei giovani B. A lanciare un allarme sulle alte percentuali di bambini italiani con eccesso di peso e con cattive abitudini di vita C. A far vedere come si distribuiscono le percentuali di bambini con eccesso di peso nelle diverse Regioni d’Italia D. A far capire che l’attività fisica è essenziale per la salute dei bambini di 8-9 anni",B,multiple choice,1142.0,['item_1142_0.png'],2012_10_SNV_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24) ",10.0,multipla 1017,"D5. La carta tematica della Fig.1 mostra che rispetto al sovrappeso e all'obesità A. le situazioni più gravi sono al Nord B. le situazioni più gravi sono al Centro C. le situazioni più gravi sono al Sud D. le differenze tra le diverse aree del Paese sono poco rilevanti",C,multiple choice,1143.0,['item_1143_0.png'],2012_10_SNV_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24) ",10.0,multipla 1018,"D7. Se in una Regione si riscontrasse una percentuale esattamente del 33% di bambini in sovrappeso, in quale delle quattro categorie questa Regione si verrebbe a trovare? A. = 25% B. > 25% - < 33% C. = 33% - <40% D. = 40%",C,multiple choice,1145.0,['item_1145_0.png'],2012_10_SNV_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24) ",10.0,multipla 1019,"D8. L’abitudine di guardare la TV in camera è stata riscontrata in A. circa un bambino su due B. circa un terzo dei bambini C. circa un bambino su quattro D. circa un bambino su dieci",A,multiple choice,1146.0,['item_1146_0.png'],2012_10_SNV_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24) ",10.0,multipla 1020,"D9. L’autore spiega che certe abitudini alimentari “specie se concomitanti, […] predispongono all'aumento di peso” (righe 9-10). Nel testo che cosa vuol dire “specie se concomitanti”? A. Soprattutto quando abitano insieme diversi bambini che hanno cattive abitudini alimentari B. In special modo quando un bambino è obeso e ha cattive abitudini alimentari C. In particolare quando un bambino ha contemporaneamente più di una cattiva abitudine alimentare D. Principalmente quando un bambino in sovrappeso ha una crescita non armoniosa",C,multiple choice,1147.0,['item_1147_0.png'],2012_10_SNV_D,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"OKkio alla SALUTE Molte malattie sono attribuibili a comportamenti e stili di vita che si instaurano sin dalla giovane età, tra cui una scorretta alimentazione, poca attività fisica e un eccesso di peso. OKkio alla SALUTE è una ricerca promossa dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha l’obiettivo di raccogliere informazioni sull’alimentazione e l’attività fisica dei bambini della scuola primaria, in modo da poter contribuire alle iniziative di prevenzione dell’obesità. La prima raccolta dati, condotta nel 2008, indica che in Italia circa il 36% dei bambini di 8-9 anni sono in condizione di sovrappeso o obesità. Esistono notevoli differenze da Regione a Regione: le percentuali di bambini con peso eccessivo sono più alte nel Sud. L’indagine evidenzia anche una grande diffusione di abitudini alimentari che, specie se concomitanti, non favoriscono una crescita armonica e predispongono all’aumento di peso: l’11% dei bambini non fa colazione e il 28% la fa in maniera non adeguata; l’83% fa una merenda a scuola qualitativamente non corretta; il 23% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e verdura e il 41% dei bambini fa uso giornaliero di bevande zuccherate. Per quanto riguarda l’attività fisica, i dati raccolti nel corso di questa prima rilevazione hanno evidenziato che i bambini in Italia fanno poca attività fisica: un bambino su 4 non ha svolto attività fisica il giorno precedente l’indagine e solo uno su 10 ha un livello di attività fisica di un’ora al giorno, come raccomandato per la sua età. Molti, invece, sono i bambini che eccedono ampiamente nell’uso della TV e dei videogiochi. Tratto e adattato da: Spinelli A. et al. (a cura di), OKkio alla SALUTE, Risultati 2008, Roma, Istituto Superiore di Sanità, 2009. (Rapporti ISTISAN 09/24) ",10.0,multipla 1021,"E2. A che cosa serve il primo capoverso? A. A riassumere brevemente l’intero testo B. A presentare un’idea centrale della quale i capoversi seguenti discutono il pro e il contro C. A spiegare i problemi dell’ambiente D. A introdurre il ragionamento generale che giustifica il contenuto dei capoversi successivi",D,multiple choice,1150.0,['item_1150_0.png'],2012_10_SNV_E,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Contribuire allo sviluppo sostenibile: due suggerimenti di sofiaf98 Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo della società che non compromette la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni. Perché un processo sia sostenibile deve utilizzare le risorse ad un ritmo tale che esse possano rigenerarsi naturalmente. È necessario adottare un comportamento etico basato su attività che rientrino nell’ottica della sostenibilità, in modo da raggiungere un equilibrio tra le esigenze dell’uomo e quelle della natura. In questo anche la scuola può fare qualcosa. Ho analizzato comportamenti ad alto impatto ambientale nella mia scuola e ne ho individuati due: eccessivo consumo di acqua e cattivo uso del riscaldamento. Primo problema: nei bagni scolastici si spreca molta acqua. Per ottimizzare il risparmio idrico, propongo l’installazione di riduttori di flusso. Il riduttore per rubinetto, che viene inserito al posto del normale “frangigetto”, è un meccanismo piccolo ma estremamente raffinato: un sistema di riduzione di flusso in vari livelli che frammenta l’acqua in minuscole particelle e la miscela con aria. Il volume del getto si mantiene corposo e confortevole, in questo modo si consuma circa la metà dell’acqua, pur garantendo il mantenimento della stessa pressione di uscita. Con un intervento molto semplice ed economico è possibile risparmiare fino al 50% dell’acqua calda e fredda! Secondo problema: cattivo uso del riscaldamento. I termosifoni funzionano in maniera non razionale. In particolare, quando la temperatura si alza, i radiatori continuano a funzionare. È opportuno avere un controllo diretto sui termosifoni che permetta di regolarli a seconda dei casi, per evitare sprechi. L’utilizzo di valvole termostatiche su tutti i radiatori consente di regolare automaticamente l’afflusso di acqua calda in base alla temperatura scelta ed impostata su una apposita manopola graduata. Se la temperatura ambientale supera quella impostata, la valvola strozza l’afflusso di acqua calda, dirottandola verso altri radiatori e impedendo così il verificarsi di sovratemperature fastidiose. Questo accorgimento consente un risparmio energetico fino al 20% ed un risparmio economico consistente se si pensa che 1°C di sovratemperatura implica una maggior spesa di riscaldamento di circa il 6-7%. (Tratto e adattato da: http://scuola.repubblica.it/contributo/due-suggerimenti-semplici/4298/?id_contrib=17, 22-03-2011) ",10.0,multipla 1022,"E4. Adottando tutti e due i suggerimenti dati nel testo, quanto si potrebbe risparmiare? A. 50% dell’acqua e 20% dell’energia per il riscaldamento B. 6-7% delle spese di riscaldamento e 1% di acqua calda C. 1% di sovratemperatura e 20% dell’acqua calda e fredda D. 20% delle spese di riscaldamento e 50% della pressione dell’acqua",A,multiple choice,1152.0,['item_1152_0.png'],2012_10_SNV_E,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Contribuire allo sviluppo sostenibile: due suggerimenti di sofiaf98 Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo della società che non compromette la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni. Perché un processo sia sostenibile deve utilizzare le risorse ad un ritmo tale che esse possano rigenerarsi naturalmente. È necessario adottare un comportamento etico basato su attività che rientrino nell’ottica della sostenibilità, in modo da raggiungere un equilibrio tra le esigenze dell’uomo e quelle della natura. In questo anche la scuola può fare qualcosa. Ho analizzato comportamenti ad alto impatto ambientale nella mia scuola e ne ho individuati due: eccessivo consumo di acqua e cattivo uso del riscaldamento. Primo problema: nei bagni scolastici si spreca molta acqua. Per ottimizzare il risparmio idrico, propongo l’installazione di riduttori di flusso. Il riduttore per rubinetto, che viene inserito al posto del normale “frangigetto”, è un meccanismo piccolo ma estremamente raffinato: un sistema di riduzione di flusso in vari livelli che frammenta l’acqua in minuscole particelle e la miscela con aria. Il volume del getto si mantiene corposo e confortevole, in questo modo si consuma circa la metà dell’acqua, pur garantendo il mantenimento della stessa pressione di uscita. Con un intervento molto semplice ed economico è possibile risparmiare fino al 50% dell’acqua calda e fredda! Secondo problema: cattivo uso del riscaldamento. I termosifoni funzionano in maniera non razionale. In particolare, quando la temperatura si alza, i radiatori continuano a funzionare. È opportuno avere un controllo diretto sui termosifoni che permetta di regolarli a seconda dei casi, per evitare sprechi. L’utilizzo di valvole termostatiche su tutti i radiatori consente di regolare automaticamente l’afflusso di acqua calda in base alla temperatura scelta ed impostata su una apposita manopola graduata. Se la temperatura ambientale supera quella impostata, la valvola strozza l’afflusso di acqua calda, dirottandola verso altri radiatori e impedendo così il verificarsi di sovratemperature fastidiose. Questo accorgimento consente un risparmio energetico fino al 20% ed un risparmio economico consistente se si pensa che 1°C di sovratemperatura implica una maggior spesa di riscaldamento di circa il 6-7%. (Tratto e adattato da: http://scuola.repubblica.it/contributo/due-suggerimenti-semplici/4298/?id_contrib=17, 22-03-2011) ",10.0,multipla 1023,"E5. Chi è o che cos'è “sofiaf98”? A. Un sito Internet che parla di problemi ambientali B. Il titolo di un giornale pubblicato su Internet dagli studenti di un istituto scolastico C. Una studentessa che ha mandato un contributo al sito Internet di un giornale D. La dirigente di un istituto scolastico preoccupata dallo spreco di acqua e di riscaldamento",C,multiple choice,1153.0,['item_1153_0.png'],2012_10_SNV_E,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Contribuire allo sviluppo sostenibile: due suggerimenti di sofiaf98 Lo sviluppo sostenibile è una forma di sviluppo della società che non compromette la possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni. Perché un processo sia sostenibile deve utilizzare le risorse ad un ritmo tale che esse possano rigenerarsi naturalmente. È necessario adottare un comportamento etico basato su attività che rientrino nell’ottica della sostenibilità, in modo da raggiungere un equilibrio tra le esigenze dell’uomo e quelle della natura. In questo anche la scuola può fare qualcosa. Ho analizzato comportamenti ad alto impatto ambientale nella mia scuola e ne ho individuati due: eccessivo consumo di acqua e cattivo uso del riscaldamento. Primo problema: nei bagni scolastici si spreca molta acqua. Per ottimizzare il risparmio idrico, propongo l’installazione di riduttori di flusso. Il riduttore per rubinetto, che viene inserito al posto del normale “frangigetto”, è un meccanismo piccolo ma estremamente raffinato: un sistema di riduzione di flusso in vari livelli che frammenta l’acqua in minuscole particelle e la miscela con aria. Il volume del getto si mantiene corposo e confortevole, in questo modo si consuma circa la metà dell’acqua, pur garantendo il mantenimento della stessa pressione di uscita. Con un intervento molto semplice ed economico è possibile risparmiare fino al 50% dell’acqua calda e fredda! Secondo problema: cattivo uso del riscaldamento. I termosifoni funzionano in maniera non razionale. In particolare, quando la temperatura si alza, i radiatori continuano a funzionare. È opportuno avere un controllo diretto sui termosifoni che permetta di regolarli a seconda dei casi, per evitare sprechi. L’utilizzo di valvole termostatiche su tutti i radiatori consente di regolare automaticamente l’afflusso di acqua calda in base alla temperatura scelta ed impostata su una apposita manopola graduata. Se la temperatura ambientale supera quella impostata, la valvola strozza l’afflusso di acqua calda, dirottandola verso altri radiatori e impedendo così il verificarsi di sovratemperature fastidiose. Questo accorgimento consente un risparmio energetico fino al 20% ed un risparmio economico consistente se si pensa che 1°C di sovratemperatura implica una maggior spesa di riscaldamento di circa il 6-7%. (Tratto e adattato da: http://scuola.repubblica.it/contributo/due-suggerimenti-semplici/4298/?id_contrib=17, 22-03-2011) ",10.0,multipla 1024,"F1. In quale delle seguenti frasi la parola “fiume” è usata in senso figurato (o metaforico)? A. Il fiume scorreva liscio come olio B. Il battello scivolava silenzioso sul placido fiume C. Fu sommerso da un fiume di parole D. Le campagne furono inghiottite dal fiume in piena",C,multiple choice,1154.0,['item_1154_0.png'],2012_10_SNV_F,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 1025,"F2. Nella frase “Lo metta pure a posto Lei il libro!” il soggetto è A. Lo B. posto C. libro D. Lei",D,multiple choice,1155.0,['item_1155_0.png'],2012_10_SNV_F,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 1026,"F4. In quale delle frasi che seguono “oltre” svolge la funzione grammaticale di preposizione? A. Siamo andati troppo oltre: dobbiamo tornare indietro B. Oltre alla felpa, mettiti anche il giubbotto C. Oltre che essere bella, è anche simpatica D. È tardi: non posso aspettare oltre",B,multiple choice,1157.0,['item_1157_0.png'],2012_10_SNV_F,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 1027,"F9. “Tutti siamo delusi della campagna acquisti della mia squadra; ne voglio parlare con l’allenatore”. In questa frase il pronome “ne” sostituisce A. della mia squadra B. della mia delusione C. dell’allenatore della mia squadra D. della campagna acquisti della mia squadra",D,multiple choice,1162.0,['item_1162_0.png'],2012_10_SNV_F,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,10.0,multipla 1028,"A1. Chi è il personaggio principale del racconto che hai letto? A. Un bambino di nome Leo. B. Il cucciolo Leo. C. Un ghepardo amico di Leo. D. La leonessa, mamma di Leo.",B,multiple choice,1164.0,['item_1164_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1029,"A2. All’inizio della storia, perché la mamma di Leo è preoccupata? A. Perché Leo non è abbastanza forte. B. Perché Leo è troppo sciocco per stare nel branco. C. Perché Leo non vuole andare a caccia. D. Perché Leo ha troppi amici.",C,multiple choice,1165.0,['item_1165_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1030,"A3. Per quale motivo Leo scappa nella giungla? A. La mamma gli dice che non può più stare con i leoni. B. Vuole andare a giocare con gli animali della giungla. C. Non vuole più rimanere nel branco con gli altri leoni. D. Vuole imparare a cacciare come tutti gli altri leoni.",A,multiple choice,1166.0,['item_1166_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1031,"A4. Che cosa vuol dire “sbirciare” (riga 8)? A. Osservare in silenzio. B. Osservare con molta attenzione. C. Guardare senza farsi vedere. D. Guardare da vicino.",C,multiple choice,1167.0,['item_1167_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1032,"A5. Nella storia si legge che «Due leopardi affamati inseguono le antilopi» (riga 9). In che posizione si trovano le antilopi? A. Dietro ai due leopardi. B. Davanti ai due leopardi. C. In mezzo ai due leopardi. D. Vicino ai due leopardi",B,multiple choice,1168.0,['item_1168_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1033,"A6. Nel testo si dice: “ … Leo corre in loro aiuto …” (riga 10). Leo corre in aiuto: A. di tutti gli animali della giungla. B. delle antilopi. C. dei due leopardi. D. dei piccoli ippopotami.",B,multiple choice,1169.0,['item_1169_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1034,"A7. Come vive Leo nella giungla? A. Male perché non ha imparato a cacciare. B. Bene perché può mangiare a volontà. C. Male perché ha troppo da fare. D. Bene perché si è fatto molti amici.",D,multiple choice,1170.0,['item_1170_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1035,"A8. Che cosa sceglie di fare Leo nella giungla? A. Giocare con tutti. B. Dormire e mangiare. C. Aiutare chi è in difficoltà. D. Nuotare nell’acqua del fiume.",C,multiple choice,1171.0,['item_1171_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1036,"A9. Indica quale delle seguenti azioni Leo non fa. A. Accompagna dei cuccioli a fare il bagno. B. Si occupa di una giraffa ferita. C. Soccorre un uccello con l’ala spezzata. D. Porta da mangiare ad altri animali.",D,multiple choice,1172.0,['item_1172_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1037,"A10. Che cosa mangia nella giungla Leo? A. Il cibo che riesce a procurarsi. B. La frutta che trova per terra. C. Altri animali già morti. D. Il cibo offerto dagli amici.",D,multiple choice,1173.0,['item_1173_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1038,"A11. Che cosa si potrebbe mettere al posto della parola “premure” (riga 20)? A. Prepotenze. B. Urgenze. C. Gentilezze. D. Imprese.",C,multiple choice,1174.0,['item_1174_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1039,"A12. “… un fiume in piena” (riga 21) è un fiume: A. pieno di rifiuti che lo inquinano. B. pieno di sassi che ne ostacolano il corso. C. pieno di pesci fino ai bordi. D. pieno d’acqua fino quasi a straripare.",D,multiple choice,1175.0,['item_1175_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1040,"A13. Che cosa vuol dire che Leo si getta nelle acque del fiume “senza esitare” (riga 24)? A. Leo si tuffa all'improvviso. B. Leo si tuffa senza chiedere aiuto. C. Leo si tuffa con prudenza. D. Leo si tuffa senza incertezze.",D,multiple choice,1176.0,['item_1176_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1041,"A14. Che cosa succede dopo che Leo è riuscito a salvare il piccolo ghepardo? A. Leo viene portato via dalle acque del fiume. B. Il piccolo ghepardo trascina Leo nel fiume. C. Leo salta sulla riva del fiume. D. L’amico di Leo viene trascinato dalla corrente.",A,multiple choice,1177.0,['item_1177_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1042,"A15. In che modo gli animali della giungla cercano di salvare Leo? A. Si dispongono in fila legati con una corda. B. Si tuffano tutti insieme nel fiume. C. Si mettono uno vicino all'altro legati per la coda. D. Si sporgono dal ponte per ripescarlo al volo.",C,multiple choice,1178.0,['item_1178_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1043,"A16. Qual è la cosa più importante per Leo? A. Essere un bravo cacciatore. B. Diventare il più coraggioso di tutti. C. Rendersi utile agli altri. D. Fare nuove esperienze.",C,multiple choice,1179.0,['item_1179_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1044,"A17. Questo racconto vuole farci capire che: A. a volte le mamme hanno torto. B. l’amore riesce a unire tutti. C. non sempre i leoni sono animali feroci. D. aiutare gli amici richiede molta fatica",B,multiple choice,1180.0,['item_1180_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1045,"A18. Quale altro titolo potresti dare a questo racconto? A. Un leone speciale. B. Un leone nuotatore. C. Un leone pigro. D. Un leone solitario.",A,multiple choice,1181.0,['item_1181_0.png'],2011_02_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"IL LEONE CHE VOLEVA AMARE Di solito i leoni sono animali feroci, Leo invece ama tutti quanti e gioca dal mattino alla sera con i suoi amici. Mamma leonessa è preoccupata e un giorno gli dice: - Se non te la senti di fare il cacciatore devi andartene di qui, non c’è posto per te nel branco. Leo scappa nella giungla. Quella notte, mentre dorme, Leo viene svegliato da un grande fragore. Sbircia dalla tana, e vede un gruppo di antilopi in fuga. Due leopardi affamati inseguono le antilopi. Facendosi coraggio, Leo corre in loro aiuto e cerca di salvarle. Due cuccioli feriti sono rimasti soli nel buio, lontani dal branco. Se Leo non li aiuta, verranno mangiati. Allora, li trascina nella sua tana, li pulisce, li ristora e lecca loro le ferite, finché le piccole antilopi guariscono. Le piccole antilopi baciano Leo. Da quel giorno, Leo decide di aiutare tutti gli animali della giungla. Porta i piccoli ippopotami a fare il bagno, aiuta una giraffa ferita e un avvoltoio con un’ala spezzata e i suoi amici per ringraziarlo di tutte le sue premure gli portano sempre da mangiare. Un giorno mentre è vicino ad un fiume in piena, Leo sente un grido. Un piccolo ghepardo, travolto dalla corrente, sta per annegare. Senza esitare, Leo si getta nelle acque agitate del fiume. Leo porta in salvo il suo amico ma, mentre sta per saltare sulla riva, scivola nell’acqua e viene trascinato dalla corrente impetuosa. Il ghepardo va in cerca di aiuto per salvare Leo. Gli animali della giungla, richiamati dalle grida, corrono tutti all’impazzata per salvare la vita del loro amico. E saltando sopra i sassi, lì nel fiume in fila indiana fanno tutti quanti insieme una lunghissima catena. Legati per la coda, gli animali formano un ponte nel fiume, tenuto saldamente a riva dal fortissimo elefante. Il leoncino viene salvato ed è proprio la sua mamma, la leonessa, che lo ripesca al volo. - Caro Leo, sei un animale coraggioso - dice la mamma. - Avevo torto, ora so che l’amore può unire tutti: torna a casa con me! (Tratto e adattato da: G. Andreae, D. Wojtowycz, Il leone che voleva amare, Milano, Fabbri, 2000) ",2.0,multipla 1046,"A1. Come definiresti il testo che hai letto? A. Un racconto vero B. Una storia drammatica C. Un racconto d’avventura D. Una fiaba di magia",D,multiple choice,1182.0,['item_1182_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1047,"A2. Nella frase «e da lì gli sfilò via il sonno» (riga 5), a che cosa si riferisce “lì”? A. Alle unghie B. Alla capanna C. Ai capelli D. Al sonno",C,multiple choice,1183.0,['item_1183_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1048,"A3. Come reagisce Oda quando Doruma le riferisce di essere stato sfiorato da un’ombra maligna? A. Si preoccupa per il marito B. Si spaventa dell’accaduto C. Dà poca importanza al fatto D. È tranquilla perché sa cosa fare",C,multiple choice,1184.0,['item_1184_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1049,"A4. Per quale motivo Shabunda decide di rubare il sonno a Doruma? A. Perché è un essere maligno B. Perché è il diavolo del bosco C. Perché è geloso della sua felicità D. Perché è dispettoso e cattivo",C,multiple choice,1185.0,['item_1185_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1050,"A5. Cosa significa che l’erba Terené “fa inginocchiare anche gli elefanti” (riga 11)? A. Fa inchinare anche gli elefanti B. Fa addormentare anche gli elefanti C. Fa piegare le ginocchia anche agli elefanti D. Fa perdere le forze anche agli elefanti",B,multiple choice,1186.0,['item_1186_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1051,"A6. Alle righe da 14 a 16, si incontrano due verbi, “si trovava” e “sarebbe morto”, che sono riferiti allo stesso personaggio. Di chi si tratta? A. Di Doruma B. Del diavolo Shabunda C. Dello stregone D. Di Kulala",A,multiple choice,1187.0,['item_1187_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1052,"A7. Nella frase «la cui dimora era al di là delle montagne» (riga 17), a chi si riferisce “cui”? A. Allo spirito del sonno B. A Shabunda C. A Yumau D. Al creatore",A,multiple choice,1188.0,['item_1188_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1053,"A8. In base al testo, perché è Oda, e non Doruma, a partire alla ricerca dello spirito del sonno? A. Doruma è troppo debole B. Oda è una donna astuta C. Doruma ha troppo sonno D. Oda è più coraggiosa",A,multiple choice,1189.0,['item_1189_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1054,"A9. Perché nel bosco di Kulala solo i serpenti si muovono? A. Perché muovendosi spaventano gli intrusi B. Perché nessuno può vederli strisciare C. Perché sono gli unici ad essere svegli D. Perché nel muoversi non fanno rumore",D,multiple choice,1190.0,['item_1190_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1055,"A10. Oda dice a Kulala di essere “stremata” (riga 36). Che cosa significa? A. Che è esausta B. Che è ferita C. Che è spaventata D. Che è stordita",A,multiple choice,1191.0,['item_1191_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1056,"A11. Alle righe 35-39, per quale ragione Kulala acconsente a soddisfare la richiesta di Oda? A. Perché Oda ha camminato a lungo per arrivare da lui B. Perché Oda ha aspettato pazientemente il suo risveglio C. Perché pensa che comunque Oda non supererà le prove D. Perché è incuriosito dal coraggio di Oda",B,multiple choice,1192.0,['item_1192_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1057,"A12. Come riconosce Oda il velo del buio da quello della luce di fuoco? A. Considerando da quale dei due esce fuori un ramarro B. Considerando quale dei due è più consumato C. Considerando quale dei due fa evaporare l’acqua D. Considerando su quale dei due si sente il ronzio della mosca",C,multiple choice,1193.0,['item_1193_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1058,"A13. Perché Kulala chiama Oda “donna del fiume” (riga 55)? A. Perché il villaggio di Oda si trova in riva a un fiume B. Perché, per giungere da lui, Oda ha attraversato un fiume C. Perché il nome Oda significa “donna del fiume” D. Perché Oda andava spesso al fiume a lavarsi",A,multiple choice,1194.0,['item_1194_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1059,"A14. Quali sono le qualità che permettono a Oda di non sbagliare nella scelta del quarto velo? A. La sua prudenza e il suo coraggio B. La sua saggezza e la sua esperienza C. La sua audacia e la sua volontà D. La sua astuzia e la sua pazienza",B,multiple choice,1195.0,['item_1195_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1060,"A15. Nella scelta dei primi tre veli Oda segue uno stesso metodo. Quale? A. Individua prima il velo sbagliato e poi sceglie l’altro B. Prima riflette a lungo e poi decide quale velo scegliere C. Si serve di arti magiche per identificare il velo giusto D. Si affida alla sua intuizione per scoprire il velo sbagliato",A,multiple choice,1196.0,['item_1196_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1061,"A16. Chi esce sconfitto al termine del racconto? A. Doruma B. Lo stregone del villaggio C. Kulala D. Il diavolo del bosco",D,multiple choice,1197.0,['item_1197_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1062,"A17. Quale altro titolo, tra i seguenti, si potrebbe dare al racconto? A. Come Oda riuscì a ridare al marito il sonno perduto B. Come Shabunda tolse il sonno a Doruma C. Come Kulala mise alla prova l’intelligenza di Oda D. Come Doruma sfuggì al maleficio di Shabunda",A,multiple choice,1198.0,['item_1198_0.png'],2011_05_SNV_A,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"I quattro veli di Kulala In un villaggio sul fiume Yuele viveva un uomo che si chiamava Doruma ed era molto fortunato. Aveva una bella moglie, due figli sani e un campo fertile. Era un buon cacciatore e nel villaggio non aveva nemici. Fu così che Shabunda, il diavolo del bosco, ne ebbe invidia. E per dispetto una notte entrò nella capanna, gli infilò le unghie adunche nei capelli e da lì gli sfilò via il sonno. Doruma si svegliò di colpo, destò la moglie Oda e le disse che un’ombra maligna l’aveva sfiorato. – È stato solo un brutto sogno – disse Oda – torna a dormire. Ma Doruma non dormì né quella notte, né la notte dopo, né tutte le notti di quella luna: il sonno non veniva. Provò a farsi accarezzare con la coda di un ghiro Chaqui, a bere l’erba Terené che fa inginocchiare anche gli elefanti, cercò di dormire sulla terra e sugli alberi e sulle pietre del fiume, ma non ci fu nulla da fare. Venne lo stregone del villaggio e vide in che stato si trovava. Disse che il diavolo Shabunda gli aveva rubato il sonno, e non c’era magia che potesse ridarglielo; così sarebbe morto entro breve tempo. Poteva salvarlo solo Kulala, lo spirito del sonno, la cui dimora era al di là delle montagne. Egli aveva sicuramente molti sonni, poiché era lui che li costruiva per Yumau, il creatore. Ma Doruma era troppo debole per fare il viaggio. Allora Oda, la moglie, disse: – Andrò io da Kulala lo spirito del sonno –. E poiché era una donna coraggiosa prese una zucca d’acqua, un po’ di cibo e un bastone, e partì per le montagne. Camminò molti giorni, quasi senza riposare. Scalò le montagne blu di Alowa e arrivò nella valle del bosco sacro di Kulala. Sul limitare del bosco gli uccelli cantavano, le scimmie urlavano e il vento scuoteva gli alberi. Ma appena Oda si inoltrò nell’ombra un grande silenzio la avvolse. Nel bosco del sonno non una foglia si muoveva, gli uccelli erano muti e si vedevano strisciare solo i serpenti silenziosi. Oda camminò a lungo, finché giunse davanti a un grande albero cavo, la casa di Kulala. Oda entrò e vide lo spirito che dormiva su un’amaca. Rimase in attesa che si svegliasse. Kulala dormì per un quarto di luna, e quando si destò vide la piccola donna nell’angolo della sua casa. – Chi sei e perché sei venuta? – urlò adirato. – Kulala, spirito del buio che ristora, io ti prego. Un diavolo maligno ha rubato il sonno a mio marito ed egli morirà se non gli porto un sonno nuovo. - E perché mai dovrei dartelo? - – Perché ho camminato per molto tempo, i miei piedi sono feriti e sono stremata, eppure quando ti ho visto dormire non ti ho svegliato, ma ho atteso con pazienza. – E sia – disse Kulala – là su quel tavolo ci sono i pezzi del sonno di un uomo. Ogni sonno è fatto di quattro veli. Se tu saprai riconoscerli, potrai portarli a tuo marito ed egli riavrà il sonno perduto. Ma sta’ attenta a scegliere i veli giusti, o la tua sorte sarà tremenda. – Non ho paura – disse Oda. Allora Kulala la condusse davanti a una pietra dove erano stesi i veli. – Ecco due veli bianchi – disse. – Uno è quello del silenzio, l’altro è quello dei rumori della notte. Scegli. - Oda guardò i due veli e le sembrarono uguali. Ma una mosca volò sopra di essi. Ronzò sopra il primo, ma non fece alcun rumore quando volò sull’altro. Oda prese il secondo e se lo mise sul capo. – Hai indovinato – disse Kulala. – Ora guarda questi due veli colorati. Uno è quello dei sogni e l’altro quello dei fantasmi della notte. Se prendi quello sbagliato tutti i demoni e gli incubi balzeranno su di te e ti uccideranno. Oda li guardò e li trovò uguali. Allora prese un piccolo ragno e lo mise tra i due veli. Da uno sbucò un orribile ramarro con tre teste che mangiò il ragno. Oda prese l’altro. – Sei astuta, donna del fiume – disse Kulala – ora ecco due veli neri. Uno è quello del buio e l’altro è quello della luce di fuoco. Uno porta il sonno, l’altro acceca. Oda li guardò. Poi prese da una foglia due gocce d’acqua e le lasciò cadere sui veli. Una di esse evaporò per il calore della luce. Oda prese l’altro velo. – Brava, donna del fiume – disse Kulala – ma ora ti attende la prova più difficile. Ecco due veli rossi. Uno è quello del sonno, che insieme agli altri tre ridarà la pace alle notti di tuo marito e alle tue. L’altro è il velo del sonno eterno, la morte. Se lo toccherai, morirai. Oda stavolta non esitò e ne scelse subito uno. Era proprio quello del sonno. Lo mise sul capo e subito cadde addormentata. Quando si svegliò, Kulala la guardava sorridente e le porgeva una tazza di hakarà caldo. – Mi hai sorpreso, donna del fiume. Con quale magia hai riconosciuto il velo del sonno, il più misterioso di tutti? – Nessuna magia – disse la donna – ho lavato per tanti anni i panni nel fiume, e so riconoscerli. Il velo del sonno era più consumato perché viene usato per tante volte e tante notti. Il velo della morte era più nuovo, poiché si usa una volta sola. Kulala rise e con un soffio la fece volare fino alla soglia della sua capanna. Oda mise i quattro veli sulla testa del marito e quello finalmente dormì, e fu salvo. (Tratto e adattato da: S. Benni, Il bar sotto il mare, Feltrinelli, Milano, 2003) ",5.0,multipla 1063,"B1. Dove vive Kyle? A. Sulla riva di un lago B. Sulla riva di un fiume C. In mezzo a due laghi D. Sulla riva dell’oceano",A,multiple choice,1199.0,['item_1199_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1064,"B2. «Al pomeriggio la sua è ormai una routine» (righe 3-4). Che cosa significa “routine”? A. Qualcosa che succede qualche volta B. Qualcosa che succede abitualmente C. Qualcosa che succede per un paio di minuti D. Qualcosa che succede un pomeriggio",B,multiple choice,1200.0,['item_1200_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1065,"B3. Perché la tartaruga si muove con il collo “proteso in avanti” e “a stento” (righe 10-11)? A. Cammina su un fondo melmoso B. Ha il guscio appesantito C. Deve farsi strada fra una rete di incrostazioni D. Deve muoversi in acque troppo salate",B,multiple choice,1201.0,['item_1201_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1066,"B4. Nel testo si legge: «La conseguenza è fatale» (riga 15). Qual è questa conseguenza? A. I ragazzi catturano le tartarughe B. Il verme tubuliforme attacca le sue vittime C. Le tartarughe muoiono annegate o divorate D. Le acque del fiume diventano ogni giorno più salate",C,multiple choice,1202.0,['item_1202_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1067,"B5. Come dovrebbe essere il fiume per consentire alle tartarughe di vivere? A. Profondo e melmoso B. Ricco di acqua dolce C. Limpido e calmo D. Alimentato dall’acqua dell’oceano",B,multiple choice,1203.0,['item_1203_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1068,"B6. Quello che succede alle tartarughe dipende A. dal cambiamento dell’ambiente B. dall’attività dei pescatori nei due laghi C. dalla crescita nel tempo della dimensione delle tartarughe D. dall’aumento dei predatori",A,multiple choice,1204.0,['item_1204_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1069,"B7. Alle righe 9 e 10 si dice: «… avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, …». Quale delle seguenti frasi spiega come si è formata l’escrescenza? A. «… una volta intrappolata in questa gabbia calcarea l’unica ù speranza di salvezza viene da Kyle» B. «… un verme tubuliforme tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale» C. «… il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che trascinano un peso ormai insostenibile» D. «… questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray»",B,multiple choice,1205.0,['item_1205_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1070,"B8. Perché il verme si è diffuso in quella zona dell’estuario? A. La zona dell’estuario è popolata da tartarughe di cui il verme è ghiotto B. In quel punto del fiume c’è poca acqua e il verme può catturare facilmente le tartarughe C. L’acqua salata di quella zona è l’ambiente in cui il verme può vivere D. Nell’estuario il verme non viene disturbato dai prelievi d’acqua di agricoltori e allevatori",C,multiple choice,1206.0,['item_1206_0.png'],2011_05_SNV_B,4.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini Kyle ha dodici anni e vive a Clayton, un villaggio di 486 abitanti affacciato sul Lake Alexandrina, uno dei due laghi che il fiume più lungo d’Australia, il Murray, forma prima di gettarsi nell’oceano del Sud. Al pomeriggio la sua è ormai una routine: torna da scuola, mangia un boccone, s’infila gli stivali di gomma e scende nella baia, entrando nell’acqua fino al ginocchio, facendosi largo fra i canneti che bordano la riva, lo sguardo fisso sul fondo melmoso. Normalmente non gli servono più di un paio di minuti per trovare la prima delle sue prede di giornata: una tartaruga. O meglio, quella che, avvolta da un’enorme escrescenza calcarea sul carapace, s’intuisce essere una tartaruga, con il collo faticosamente proteso in avanti e le zampe che a stento trascinano un peso ormai insostenibile. È quanto ormai accade a tutte le tartarughe dell’estuario del Murray: un verme tubuliforme marino, insediatosi in queste acque (un tempo tutt’al più salmastre, oggi salate), tesse una fitta rete di incrostazioni sul guscio dell’animale fino ad avvolgerlo completamente. La conseguenza è fatale: la tartaruga o annega soffocata dall’eccesso di peso o non riesce più a ritrarre nel guscio testa e arti, che restano esposte all’attacco dei predatori. Una volta intrappolate in questa gabbia calcarea, l’unica speranza di salvezza viene da Kyle e dai tanti ragazzi della zona che, come lui, da mesi raccolgono le tartarughe e le portano nel cortile di casa, dove con un cacciavite le ripuliscono dalle incrostazioni. Una volta «liberate», le mettono qualche giorno in vasche d’acqua dolce, perché si riprendano e possano affrontare il trasferimento qualche decina di chilometri più a monte, dove le acque del fiume sono tuttora dolci e il verme marino non può diffondersi. «Questo non è che uno degli effetti più evidenti e drammatici del flusso sempre più ridotto del Murray» dice Christine Jackson, maestra elementare a Clayton e ispiratrice dell'iniziativa di salvataggio delle tartarughe, diventato in zona un vero e proprio programma scolastico. In effetti il fiume che corre per tremila chilometri nel continente australe, fungendo da spina dorsale idrica del Paese, è ogni anno più scarico. In parte a causa dell’eccesso di prelievi a monte fatti da agricoltori e allevatori, in parte per la persistente siccità, che in tanti qui iniziano a mettere in relazione diretta con il riscaldamento globale. È talmente poca l’acqua che riesce ad arrivare a valle che il flusso di marea dall’oceano finisce per penetrare per chilometri nell’area dell’estuario. Trasformando in un acquitrino salato quello che era un ecosistema solo leggermente salmastro, mantenuto in delicato equilibrio dall’alternarsi del prevalere ora della spinta del fiume, ora della marea oceanica. «Ci sono punti dei due laghi in cui la salinità è dieci volte superiore a quella mai registrata in precedenza» dice Henry Jones, ultimo di una famiglia che da sei generazioni pesca nei Lower Lakes - come vengono chiamati l’Alexandrina e l’Albert, i due laghi formati dal Murray a fine corsa. (Tratto e adattato da: S. Gulmanelli, Australia, le tartarughe salvate dai ragazzini, in «La Stampa», 28 febbraio 2009, p. 14) ",5.0,multipla 1071,"A1. In base a quanto hai letto nel testo, il termine “Useliera” indica A. un luogo usato comunemente dagli uccelli B. un luogo per sparare agli uccelli C. un luogo dove si rifugiano gli uccelli D. un luogo dove si osservano gli uccelli",B,multiple choice,1207.0,['item_1207_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1072,"A2. Le “casermette” di cui si parla alle righe da 6 a 10 servivano ai cacciatori per A. proteggersi dalla pioggia B. studiare il volo degli uccelli C. vedere se qualcuno li attaccava D. sparare ai nemici",A,multiple choice,1208.0,['item_1208_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1073,"A3. Le piante dell’Useliera sulle quali si posavano gli uccelli erano A. alberi d’alto fusto B. siepi compatte C. cespugli intricati D. tronchi spezzati",A,multiple choice,1209.0,['item_1209_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1074,"A4. Quando il protagonista entra nell’Useliera, essa era abbandonata da A. almeno un anno B. almeno un decennio C. almeno cinquant’anni D. almeno un secolo",D,multiple choice,1210.0,['item_1210_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1075,"A5. Secondo l’autore, i ragazzi sono A. intraprendenti e spericolati B. timorosi e insicuri C. responsabili e attenti D. sconosciuti e misteriosi",A,multiple choice,1211.0,['item_1211_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1076,"A6. Perché il protagonista non dice alla mamma dove va? A. Va a caccia di animali feroci B. Si sente grande e pieno di coraggio C. Ha paura che la mamma non lo lasci andare D. Non vuole dare un dispiacere alla mamma",B,multiple choice,1212.0,['item_1212_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1077,"A7. Per quale ragione, quando il protagonista entra nell’Useliera, «Da pieno giorno si fece oscuro» (riga 24)? A. Il sole scomparve dietro le nuvole B. Improvvisamente si fece notte C. La vegetazione non lasciava passare la luce D. Il muschio era così scuro che non rifletteva la luce",C,multiple choice,1213.0,['item_1213_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1078,"A8. Nelle due frasi che seguono il verbo non è espresso, ma sottinteso: «Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati» (righe 24-25). Quale verbo potresti inserire? A. Strappavo B. Percepivo C. Annusavo D. Sfioravo",B,multiple choice,1214.0,['item_1214_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1079,"A9. “Cautamente” (riga 29) significa A. con prudenza B. con attenzione C. con lentezza D. con incertezza",A,multiple choice,1215.0,['item_1215_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1080,"A10. Quale funzione hanno i due punti ( : ) nella frase «Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire» (righe 29-31)? A. Introdurre un elenco dei comportamenti dell’animale B. Introdurre una spiegazione del perché c’era silenzio C. Introdurre un discorso diretto D. Introdurre una spiegazione di quello che era successo prima",B,multiple choice,1216.0,['item_1216_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1081,"A11. Alle righe 32-37, qual è la scena che impressiona il protagonista? A. Un animale stava immobile per non farsi scoprire B. C’era una buca molto profonda C. L’oscurità non lasciava vedere niente D. Un animale era intrappolato in una fossa profonda",D,multiple choice,1217.0,['item_1217_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1082,"A12. Cosa c’è dentro la buca? A. Un orsacchiotto B. Un lupacchiotto peloso C. Una piccola volpe D. Un cagnolino",C,multiple choice,1218.0,['item_1218_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1083,"A13. “Guaire” significa A. lamentarsi B. abbaiare C. urlare D. ululare",A,multiple choice,1219.0,['item_1219_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1084,"A14. Perché la volpe madre, quando vede il ragazzo, guarda solo lui e si comporta come se il figlio non esistesse? A. Non le importa niente del figlio B. È arrabbiata con il figlio C. Vuole capire le intenzioni del ragazzo D. Vuole farsi amico il ragazzo",C,multiple choice,1220.0,['item_1220_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1085,"A15. Perché il ragazzo dà una fetta di salame alla volpe? A. Spera che la volpe non lo aggredisca B. Vuole vedere se la volpe ha fame C. Cerca di addomesticare la volpe D. Vuole conquistare la fiducia della volpe",D,multiple choice,1221.0,['item_1221_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1086,"A16. Il testo che hai letto, secondo te, è A. il diario di un esploratore B. un racconto autobiografico C. una favola D. un testo di divulgazione scientifica",B,multiple choice,1222.0,['item_1222_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1087,"A17. Se volessi riassumere in una sola frase questo testo, perché un tuo compagno ne capisca subito il senso, quale sceglieresti tra le seguenti? A. L’Useliera è un luogo pieno di pericoli per gli animali B. I ragazzi hanno sempre un grande bisogno di avventura C. L’Useliera è un posto adatto per studiare le abitudini delle volpi D. Un luogo di morte diventa un luogo di amicizia",D,multiple choice,1223.0,['item_1223_0.png'],2010_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"L’Useliera Vicino a Villa Valsugana, il mio paese, c’è un luogo che aveva sempre attirato la mia curiosità e che i vecchi chiamavano – e ancora oggi chiamano – l’Useliera: luogo dove si prendono gli uccelli. Tenterò di descriverlo. È una specie di quadrato, cinto da muri di pietra, lungo cento metri, largo altrettanto. Esternamente, lungo i lati del quadrato, ci sono delle piccole casermette con feritoie, evidentemente per sparare. Così i cacciatori potevano stare al riparo dalle intemperie e cacciare non visti da nessuno, tanto meno dalle loro vittime, i poveri uccelli che venivano a posarsi sui rami delle piante che si ergevano entro il quadrato. Da almeno cento anni l’Useliera è abbandonata e nessuno la usa più. Voi sapete come sono i ragazzi: amanti del mistero e dell’ignoto, incoscienti dei pericoli, desiderosi delle avventure. Quell’estate dissi dunque a mia madre che mi preparasse una grossa pagnotta imbottita di salame – il mio cibo preferito quando facevo delle gite abbastanza lunghe – e non mi aspettasse a pranzo, sarei tornato per cena. Non le dissi dove andavo (e feci male perché bisognerebbe sempre dire dove si va, perché le mamme non stiano in pena). Ma io andavo a esplorare l’Useliera, mi sembrava di essere Sandokan o Yanez nelle foreste della Malesia… armato solo di un temperino dalla lama ben affilata e dei miei pugni… con cui avrei assalito la tigre, il leopardo o il giaguaro per liberare una dolce fanciulla prigioniera, bella, nera, dagli occhi lucenti e imploranti… Così sognavo, quando mi trovai davanti all’Useliera. Annusai l’aria. Strinsi nella mano il coltellino. Entrai. Da pieno giorno si fece oscuro. Sopra la testa, rami e fogliame folto. Sotto il piede, muschio, foglie marcite, tronchi spezzati. D’un tratto, un rumore mi colpì. Di unghiate sul terreno, di piccole grida soffocate, come di un animale che tentasse con ogni sforzo di uscire da una buca e non vi riuscisse. Mi diressi, cautamente, da dove proveniva il rumore. Fu silenzio: l’animale doveva avere sentito che un estraneo si avvicinava e stava zitto per non farsi scoprire. Inutile. Poco dopo ero davanti a una scena che mi impressionò. C’era una buca, formatasi chissà come, della profondità di un uomo, stretta, verticale. Cercai di guardare in fondo. E non subito, ma dopo che mi fui abituato all’oscurità, vidi qualcosa che assomigliava a un orsacchiotto peloso, giallo di colore, con un musino aguzzo e due occhi azzurri, vivacissimi. Mi guardava, ma senza paura, quasi chiedendomi che lo aiutassi. Anch’io lo guardavo: a lungo, a lungo. Quando fui disceso nella fossa, mi leccò le mani, con piccole grida, come un cagnolino che guaisse: le mani dalle quali non aveva nulla da temere e che lo avrebbero salvato. Difatti, tratto fuori dalla buca, non fuggì, ma si mise a saltellarmi intorno, felice. – Avrai fame – gli dissi – dividi con me il pasto. Mi sedetti, e lui vicino a me, con piccole corse, saltini, ora più vicini, ora brevemente allontanandosi, sempre ritornando a me, per prendere dalle mie mani i bocconcini di pane e salame che gli porgevo. Finché… dei rami spezzati dopo una corsa furiosa mi fecero apparire davanti, a poco più di due metri, uno splendido animale, grosso come un lupo: lei, la volpe madre. Mi guardò. La guardai. A lungo, senza mai abbassare lo sguardo. Invano il piccolo si strofinava sulle sue gambe snelle. Era immobile, come se lui non esistesse. Essa non prestava attenzione che a me, allo sconosciuto che aveva osato invadere il suo regno e che, a quanto pareva, aveva conquistato le simpatie di suo figlio. Io, intanto, le porgevo una grossa fetta di salame, cercando di farmela amica. S’avvicinò. L’annusò. Si avvicinò ancora. Ora annusava me, lentamente. Alzai timidamente la mano e l’accarezzai: prima la fronte, poi la schiena. Con tenerezza, con amicizia. La volpe lasciava fare tranquilla, immobile. Soltanto gli occhi continuavano a fissarmi; e i miei, lei. Con tenerezza, con amicizia. Così che non mi stupii affatto quando prese delicatamente dalle mie mani la fetta di salame: e con la dignità di una regina la mangiò. (Tratto e adattato da: Ezio Franceschini, “L’useliera” in La valle più bella del mondo, Vita e pensiero, Milano, 1984) ",5.0,multipla 1088,"B2. Nella frase «Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali» (righe 8-9), come potresti sostituire “invece”? A. In realtà B. Al contrario C. Infatti D. Quindi",B,multiple choice,1225.0,['item_1225_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1089,"B3. In base al testo, quando termina la vita dei maschi presso la società delle api? A. Quando incontrano un maschio più forte B. Dopo che si sono accoppiati con l’ape regina C. Quando perdono il loro pungiglione D. Dopo che l’ape regina ha smesso di deporre le uova",B,multiple choice,1226.0,['item_1226_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1090,"B4. Il testo afferma che la società delle api è A. una società in cui tutti i membri sono eguali fra loro B. una società di maschi C. una società di femmine D. una società con una gerarchia tra maschi e femmine",C,multiple choice,1227.0,['item_1227_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1091,"B5. Nella frase «V’è la regina … e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze …» (righe 15-16), la parola “incombenza” significa A. punizione B. disturbo C. carica D. compito",D,multiple choice,1228.0,['item_1228_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1092,"B6. La parola “sterile” significa A. che genera molti figli B. che genera un solo figlio C. che non può avere figli D. che ha solo figlie femmine",C,multiple choice,1229.0,['item_1229_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1093,"B7. In base al testo, da che cosa dipende se una larva diventerà un’ape regina o un’ape operaia? A. Dipende dal tipo di larva, che può essere di ape regina o di ape operaia B. Dipende dalle dimensioni della celletta in cui la regina depone l’uovo C. Dipende dalla quantità di cibo che la larva riceve dalle api operaie D. Dipende dalla quantità di zucchero presente nel cibo della larva",B,multiple choice,1230.0,['item_1230_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1094,"B8. Come vengono nutrite le larve di api operaie? A. Con la pappa reale B. Con le larve di altri insetti C. Con il polline di alcuni fiori D. Con una sostanza dolce e nutriente",D,multiple choice,1231.0,['item_1231_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1095,"B9. Nella frase «La sua prima incombenza è pulire ...» (riga 32), l’aggettivo “sua” si riferisce a A. la larva B. l’ape operaia C. la comunità D. l’esistenza",B,multiple choice,1232.0,['item_1232_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1096,"B10. Una “nutrice alle prime armi” che cosa fa? A. Pulisce le cellette B. Dà da mangiare alle larve più grandi C. Si occupa delle larve neonate D. Depone le uova",B,multiple choice,1233.0,['item_1233_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1097,"B11. Ogni quanto tempo la regina depone le uova? A. Tutti i giorni B. A giorni alterni C. Una volta alla settimana D. Una volta all’anno dopo la stagione degli amori",A,multiple choice,1234.0,['item_1234_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1098,"B12. Cosa fa l’ape operaia subito dopo che è finito il suo lavoro di nutrice? A. Comincia a volare più lontano B. Si occupa di portare fuori i rifiuti C. Aggiusta e amplia l’alveare D. Monta di guardia per difendere l’alveare",C,multiple choice,1235.0,['item_1235_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1099,"B13. Chi raccoglie il polline e il nettare? A. L’ape regina con le nutrici B. Le api più giovani e forti C. L’ape regina con le damigelle d’onore D. Le api operaie più esperte",D,multiple choice,1236.0,['item_1236_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1100,"B14. Che cosa fanno in piena estate le api operaie, in fila, all’ingresso dell’alveare? A. Si fanno vento con le ali B. Fanno la parata in onore della regina C. Muovono le ali per rinfrescare l’alveare D. Si riposano",C,multiple choice,1237.0,['item_1237_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1101,"B15. In base al testo, la vita di un’ape operaia dura poco più di A. un anno B. sei mesi C. un’estate D. tre settimane",D,multiple choice,1238.0,['item_1238_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1102,"B16. Questo testo è stato scritto per A. descrivere come le larve si trasformano in api adulte B. informare su come si comportano le api nella stagione degli amori C. dare informazioni sulla vita e la società delle api D. dimostrare che gli insetti sono un oggetto di studio più interessante dei mammiferi",C,multiple choice,1239.0,['item_1239_0.png'],2010_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Nella casa di cera Presso i mammiferi (società umane comprese) le comunità organizzate hanno quasi sempre una struttura patriarcale: a capo del branco o della tribù vi è un vecchio maschio, robusto ed esperto, al quale i sudditi, almeno per un certo tempo, accordano fiducia e rispetto. Le femmine, che pur godono di molte libertà e sono per lo più estranee alle lotte per il potere in cui indulgono i maschi, hanno in genere posizione più subordinata, o sono del tutto fuori da una gerarchia. Non appena curiosiamo nel mondo degli insetti, invece, ci imbattiamo in società rigorosamente matriarcali: i maschi, presso le api o le formiche, non è che contino poco: non ci sono affatto, in seno alla comunità, se non nel breve tempo della stagione degli amori. Per il resto dell’anno se la vedranno fra loro le femmine della specie, alate o no; con il volo nuziale, la breve esistenza dei maschi è già finita. La società delle api, dunque, è una società di sole femmine, ma non per questo è una comunità tra eguali. V’è la regina, sovrana incondizionata di tutta la comunità, e vi sono le operaie, a cui spettano tutte le incombenze, tranne quella di riprodursi. E non c’è speranza, per una operaia, di trasformarsi mai in regina. Il giorno che è uscita, con le sue quattro ali ancora umide, dalla celletta dove un’altra operaia l’aveva rinchiusa, così che trascorresse tranquilla il momento della metamorfosi, essa era già operaia, femmina sterile destinata alle pulizie nel nido, ai lavori di carpenteria, alla raccolta del polline sui fiori. Il suo destino, certo, non se l’è scelto da sola, ma se l’è trovato segnato nel giorno in cui la regina madre ha deposto nella celletta piccola dell’alveare l’uovo da cui la nostra futura operaia sarebbe un giorno nata. Schiusosi l’uovo, la larva fu nutrita dalle sorelle operaie già adulte con una pappa zuccherina e nutriente, priva però degli ingredienti necessari ad una larvetta per svilupparsi in una regina. Se solo fosse nata in una celletta più grande, le avrebbero dato da mangiare un po’ di pappa reale ed ora sarebbe pronta per il volo nuziale. Per lei comincia, invece, un’esistenza di lavoro. C’è già un programma ben preciso, per tutta la sua esistenza. Dovrà semplicemente eseguire, giorno dopo giorno, quel che la comunità si attende da lei. La sua prima incombenza è pulire le cellette dell’alveare, rimuovendo le tracce lasciate da chi, come lei, ne ha occupata una durante le settimane precedenti. Dopo due o tre giorni, le viene riconosciuto il ruolo di nutrice; a pulire le celle provvederanno le sorelle più giovani, diventate adulte nel frattempo. Per ora è nutrice alle prime armi: può occuparsi perciò delle larve più grosse, più robuste e più facili da trattare; ma non tarda ad essere promossa nutrice delle larve neonate, il cui numero è sempre grande, perché la regina continua ogni giorno a deporre le sue uova nelle cellette vuote. Passa una settimana o poco più. Anche il lavoro di nutrice è finito, per la nostra operaia; ora la comunità le chiede di fabbricare nuove celle esagonali, di ingrandire i favi dell’alveare, di riparare qualche guasto occasionale: e anche in questa incombenza sa dimostrare tutto il suo zelo, la sua perizia. Di tanto in tanto si affaccia fuori per scaricare un po’ di rifiuti, ma non le è concesso ancora di volarsene lontano, sui prati fioriti dove le compagne più anziane s’affaccendano a raccogliere polline e nettare zuccherino. Intanto l’estate avanza e, con l’estate, il caldo, l’afa. Nell’alveare l’atmosfera rischia di farsi irrespirabile. Ecco allora un gruppo di operaie improvvisarsi ventilatrici: in bella fila presso l’ingresso dell’alveare, le vediamo con le ali in continua vibrazione, così da agevolare il ricambio dell’aria. Da ventilatrici a guardiane, il passo è breve: per qualche giorno le nostre operaie montano di guardia presso l’ingresso, pronte a sguainare il loro pungiglione contro qualsiasi malintenzionato. In questo frenetico mutar di mestieri, saranno passate tre settimane in tutto: poco resta da vivere, ancora alla nostra ape. Forse diventerà damigella d’onore della regina e le resterà accanto, accudendo alle sue necessità; forse, invece, potrà andarsene per i prati ed i frutteti, di fiore in fiore, attratta dai colori e dai profumi delle corolle. Ma anche queste escursioni sono uscite di lavoro, per lei. (Tratto e adattato da: Alessandro Minelli, I segreti degli animali, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985) ",5.0,multipla 1103,"C2. Che cosa hanno in comune i quattro nomi seguenti? libreria marinai scolaresca cartoleria A. Sono tutti alterati B. Sono tutti derivati C. Sono tutti composti D. Sono tutti collettivi",B,multiple choice,1241.0,['item_1241_0.png'],2010_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1104,"C3. Nella frase «Mia madre mi ha dato venti euro e li voglio spendere subito», che tipo di parola è “li”? A. Un articolo B. Un pronome C. Un avverbio di luogo D. Una preposizione articolata",B,multiple choice,1242.0,['item_1242_0.png'],2010_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1105,"C4. Leggi questa frase: «Il cacciatore uccise il cinghiale con un colpo preciso». Ora indica tra le frasi seguenti, tutte di diverso significato, quella costruita con parole dello stesso tipo (es.: verbo, articolo, ecc.) e disposte nello stesso ordine della frase sopra. A. I pescatori catturavano i pesci con una rete logora B. La donna asciugò le sue lacrime con un fazzoletto candido C. I poliziotti inseguivano il ladro con la pistola in pugno D. Il treno arrivò in stazione con un leggero anticipo",A,multiple choice,1243.0,['item_1243_0.png'],2010_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1106,"C5. Leggi il seguente periodo: «Tutte le mattine la mamma mi sveglia prestissimo, non più tardi delle sette. Mi lava e mi veste, facciamo colazione e poi usciamo di corsa insieme». Se sostituisci “Tutte le mattine” con “L’altro giorno”, dovrai modificare tutte le forme verbali: quante? A. 3 B. 4 C. 5 D. 6",C,multiple choice,1244.0,['item_1244_0.png'],2010_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1107,"C8. Leggi la frase seguente: «Il nonno intagliava giocattoli con un coltellino.» La frase è formata da varie parti, ognuna con una propria funzione sintattica (soggetto, predicato, ecc.), come vedi nella tabella che segue: SOGGETTO PREDICATO VERBALE COMPLEMENTO OGGETTO COMPLEMENTO DI MEZZO Il nonno intagliava giocattoli con un coltellino Indica tra le frasi seguenti quella che è formata dalle stesse parti della frase qui sopra (che ha cioè la stessa struttura sintattica). A. Giorgio incontrò un amico con un giubbotto rosso B. Marco andò a scuola con il motorino C. L’uomo spaccava la legna con un’accetta D. A Chiara piaceva chiacchierare con le amiche",C,multiple choice,1247.0,['item_1247_0.png'],2010_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1108,"A1. Il testo che hai letto racconta A. avvenimenti della vita di un personaggio misterioso B. le traversie della famiglia della protagonista C. vicende immaginarie ambientate nella città di Mantova D. episodi del passato vissuti in prima persona da chi scrive",D,multiple choice,1248.0,['item_1248_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1109,"A2. Quali persone della famiglia vivono a Mantova insieme alla protagonista? Scegli la risposta più completa in base a ciò che dice il testo. A. I nonni, la mamma e due fratelli B. I genitori, la nonna e due fratelli C. Due fratelli, la mamma e la nonna D. La nonna, la mamma e un fratellino",C,multiple choice,1249.0,['item_1249_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1110,"A3. Perché nessuno si ricordò del compleanno della protagonista? A. Perché la famiglia non si curava abbastanza di lei B. Perché i suoi famigliari erano presi da altri problemi C. Perché la mamma non aveva abbastanza denaro per la festa D. Perché era mancato il tempo per organizzare una festa",B,multiple choice,1250.0,['item_1250_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1111,"A5. Per quale ragione la protagonista si trova a Mantova? A. Mantova è una città bellissima in cui è piacevole abitare B. I genitori hanno deciso di separarsi C. La famiglia si è rifugiata a Mantova a causa della guerra D. Il padre della protagonista si è trasferito lì per ragioni di lavoro",C,multiple choice,1252.0,['item_1252_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1112,"A6. L’aggettivo “epiche” (riga 8), in riferimento alle cacce al topo, significa A. epocali B. memorabili C. accanite D. faticose",B,multiple choice,1253.0,['item_1253_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1113,"A7. Che cosa intende dire la protagonista con le parole «Io a Mantova scoprii la strada» (riga 14)? A. Di aver trovato nuove possibilità d’esperienza che prima le erano sconosciute B. Di aver finalmente trovato uno spazio abbastanza ampio per incontrarsi e giocare con gli altri bambini C. Di aver scoperto il modo per evitare di fare i compiti e di dover ubbidire alla mamma D. Di aver potuto esplorare in lungo e in largo la strada dove Abitava",A,multiple choice,1254.0,['item_1254_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1114,"A9. Si può pensare che la protagonista risponda «Eh sì» alle parole di Nuvolari (righe 32-34) perché A. non vuole contraddirlo B. ritiene che Nuvolari abbia ragione C. spera che Nuvolari punisca il ragazzo dispettoso D. è molto timida",A,multiple choice,1256.0,['item_1256_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1115,"A10. Alla riga 34 si legge «ben sapendo che non era vero niente». Che cosa per la protagonista “non era vero”? A. Che i pattini a rotelle appartenevano alla protagonista B. Che il bambino che aveva gettato il pattino oltre il muro era proprio cattivo C. Che per giocare occorrevano tutti e due i pattini D. Che qualcuno aveva gettato il pattino oltre il muro del Giardino",C,multiple choice,1257.0,['item_1257_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1116,"A11. Perché la protagonista definisce “magico” (riga 38) l’anno trascorso a Mantova? A. Perché le esperienze vissute l’avevano fatta cambiare e crescere B. Perché aveva incontrato un uomo celebre come Nuvolari C. Perché aveva conosciuto un compagno di suo fratello D. Perché aveva imparato a superare le difficoltà della vita d’ogni giorno",A,multiple choice,1258.0,['item_1258_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1117,"A12. Perché la protagonista si stupisce di aver dimenticato il nome di Venturini? A. Perché aveva una buona memoria B. Perché lo aveva conosciuto proprio prima di partire C. Perché Venturini era stato l’amico più caro di suo fratello D. Perché Venturini era stato per lei una persona speciale",D,multiple choice,1259.0,['item_1259_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1118,"A13. Quale frase tra le seguenti non ha lo stesso significato di «Per quanto scavi nella memoria ...» (riga 44)? A. Pur scavando nella memoria B. Purché scavi nella memoria C. Benché scavi nella memoria D. Anche se scavo nella memoria",B,multiple choice,1260.0,['item_1260_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1119,"A14. Perché Venturini è paragonato a un cavaliere antico? A. Perché correva sulla bicicletta e indossava una mantellina B. Perché si vestiva con abiti fuori moda C. Perché era biondo e con gli occhi azzurri D. Perché aveva un comportamento coraggioso e cortese",A,multiple choice,1261.0,['item_1261_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1120,"A15. I pronomi personali “lo” (riga 49) e “lui” (ripetuto due volte, alle righe 51 e 52), a chi si riferiscono? A. Al fratello della protagonista B. A un compagno di scuola della protagonista C. A Venturini D. Al cavaliere antico",C,multiple choice,1262.0,['item_1262_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1121,"A16. Chi è, probabilmente, la bambina di cui si parla dalla riga 49 alla riga 55 del testo? A. Un’amica della protagonista che andava a scuola con lei B. Una bambina di Mantova di cui non si sa il nome C. La fidanzatina di Venturini che la protagonista invidia D. La protagonista stessa che rivive quei momenti",D,multiple choice,1263.0,['item_1263_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1122,"A17. Che cosa significa l’espressione “ingannare l’attesa” (riga 50)? A. Far finta che il tempo passi più in fretta B. Occupare il tempo in qualche modo C. Imbrogliare chi ci aspetta D. Fare in modo che l’attesa appaia più lunga",B,multiple choice,1264.0,['item_1264_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1123,"A18. Nella frase «L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina» (riga 54), che cosa vuol dire “ebbrezza”? A. Senso di esaltazione B. Ubriachezza C. Sensazione di confusione D. Contentezza",A,multiple choice,1265.0,['item_1265_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1124,"A19. Il testo che hai letto a quale genere appartiene? A. Fantastico B. Avventuroso C. Storico D. Autobiografico",D,multiple choice,1266.0,['item_1266_0.png'],2010_06_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Mantova, seconda infanzia A Mantova vissi l’anno più bello della mia infanzia: vi compii nove anni, nessuno se ne ricordò, e a me non importò niente. Capivo che c’erano cose più pressanti e gravi, molte difficoltà reali, la separazione forzata da mio padre che era rimasto a Torino per ragioni di lavoro e tutte le sere doveva fare chilometri a piedi per andare a dormire in collina, fuori città, e la nostra stessa sistemazione, perché molti avevano avuto l’idea di andarsi a rifugiare in quella città bellissima e infestatissima da zanzare e topi. Ricordo epiche cacce al topo a cui partecipavamo tutti con scope, spazzoloni, battipanni e altre armi improprie. Persino mia nonna, che per molte cose si sentiva vecchia, in questo caso ritrovava la sua giovinezza. Solo il fratellino doveva contentarsi di seguire quelle cacce dal suo seggiolone, emettendo gridolini di esultanza, perché non sapeva ancora camminare. In un anno cambiammo casa tre volte. Io a Mantova scoprii la strada. La strada come libertà di giocare, spazio per incontrare altri bambini. Per non studiare, non fare i compiti, non obbedire alla mamma. La strada anche per stare soli. Abitavamo, negli ultimi tempi del nostro soggiorno mantovano, in un vialetto di periferia dove circolava una sola automobile, quella di Tazio Nuvolari, che stava in una villa di fronte alla nostra casa. Era un signore di mezza età e prossimo, come avrei saputo più tardi, a morire. Un bell’uomo, sempre con un sorriso triste sulle labbra, così almeno lo ricordo io, e gentile con i bambini. Lo vidi da vicino una volta che uno dei nostri compagni di giochi, per farci un dispetto, aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle oltre il muro del suo giardino. I pattini a rotelle in realtà non erano solo miei, ma anche di mio fratello; lui però era timido e non osava andare a suonare il campanello della villa per recuperarlo. Toccò a me suonare quel campanello. Venne ad aprire proprio Tazio Nuvolari, e sul cancello mi chiese che cosa volevo. Portava un pullover sportivo a rombi, come si usava allora e come sarebbe tornato di moda qualche anno fa. Gli spiegai che un bambino cattivo aveva gettato uno dei miei pattini a rotelle nel suo giardino. - Deve essere proprio cattivo, - disse Nuvolari, - perché con un solo pattino non si può giocare. - Eh sì, - ammisi io, ben sapendo che non era vero niente, perché noi, essendo in due proprietari, ne usavamo sempre uno per uno, a mo’ di monopattino. Mi fece strada lungo il muro e trovammo il pattino in un cespuglio di settembrini. Ma non fu l’unico incontro importante di quell’anno magico. Proprio all’inizio dell’autunno che doveva concludere il nostro soggiorno mantovano, conobbi Venturini, un compagno di scuola di mio fratello Roberto, che faceva la prima media. Io facevo la quarta elementare. Era figlio di un meccanico ciclista, e a me pareva il bambino più fortunato del mondo perché aveva una bicicletta tutta sua. Come mai ho dimenticato il suo nome? Per quanto scavi nella memoria non trovo nessun nome da accompagnare a quel cognome. Ricordo invece benissimo che era biondo e aveva gli occhi azzurri. Volava sulla sua bicicletta come un cavaliere antico, anche perché, essendo la stagione già quasi fredda, portava una mantellina tipo tabarro, come usava allora tra la gente di campagna. Ricordo una ragazzina che lo aspettava seduta sul marciapiede davanti a casa, e ingannava l’attesa facendo un solitario per terra con un mazzo di carte che teneva sempre in tasca. Arrivava lui, frenava di colpo, la faceva salire sulla canna e la portava a fare il giro dell’isolato. Quando il giro stava per finire, lui le gridava: - Tienti forte, che facciamo la volata! - e pedalava a più non posso. L’ebbrezza di quella volata non fu più dimenticata dalla bambina, insieme al raro prestigio di avere un moroso con bicicletta. (Tratto e adattato da: Laura Mancinelli, Andante con tenerezza, Einaudi, Torino, 2002) ",6.0,multipla 1125,"B1. L’aspetto del bue muschiato è simile a quello di A. un montone B. un bue C. un bisonte D. un muflone",C,multiple choice,1267.0,['item_1267_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1126,"B2. Chi è Kjell? A. Un esperto di animali estinti B. Una guardia forestale C. Una guida alpina D. Un cacciatore norvegese",B,multiple choice,1268.0,['item_1268_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1127,"B3. Il pelo di moskus è stato usato per imbottire gli scafandri dei cosmonauti perché A. mantiene il calore B. attutisce gli urti C. è un buon isolante elettrico D. è molto fitto",A,multiple choice,1269.0,['item_1269_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1128,"B4. Dove si trova l’autore quando va a vedere il bue muschiato? A. Nel Labrador B. In Siberia C. In Alaska D. In Norvegia",D,multiple choice,1270.0,['item_1270_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1129,"B5. Perché oggi, contrariamente al passato, il bue muschiato è un animale raro? A. Non si è adattato alla scomparsa dei ghiacciai B. Le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno C. La sua sopravvivenza è messa in pericolo dai lupi D. Si è quasi estinto per l’aumento della temperatura e la caccia",D,multiple choice,1271.0,['item_1271_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1130,"B6. Per quale ragione esistono dei buoi muschiati in Norvegia? A. Hanno continuato a vivere qui fin da tempi antichissimi B. Anche se erano scomparsi, sono poi stati reintrodotti dall’uomo C. Alcuni esemplari di buoi muschiati sono arrivati qui dalla Siberia D. In questo paese i buoi muschiati possono vivere isolati oltre che in branco",B,multiple choice,1272.0,['item_1272_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1131,"B7. Per quale motivo il bue muschiato vive solitamente in branchi? A. Per potersi difendere dai lupi B. Per avere più cibo a disposizione C. Per proteggersi meglio dal freddo D. Per proteggere le femmine e i piccoli",A,multiple choice,1273.0,['item_1273_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1132,"B8. Perché Kjell si accorge dell’odore del bue muschiato, mentre l’autore no? Perché Kjell A. è abituato a quelle montagne B. si trova più vicino all’animale C. ha un buon senso dell’odorato D. riconosce l’odore dell’animale",D,multiple choice,1274.0,['item_1274_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1133,"B9. L’espressione «Il colosso ... viene dall’alba dei tempi» (righe 50-51) significa che il bue muschiato A. è apparso improvvisamente B. è venuto da un luogo molto lontano C. esisteva già in epoca preistorica D. si può vedere solo all’alba",C,multiple choice,1275.0,['item_1275_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1134,"B10. Nella frase «In effetti il moskus ha smesso di brucare» (riga 55), con quale altra espressione potresti sostituire “in effetti”? A. Però B. Infatti C. Tuttavia D. In realtà",B,multiple choice,1276.0,['item_1276_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1135,"B11. Dall’espressione «con aria incarognita» (riga 56) si capisce che il bue muschiato in quel momento è A. intimorito B. curioso C. arrabbiato D. insospettito",C,multiple choice,1277.0,['item_1277_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1136,"B12. Dal testo si capisce che il bue muschiato A. attacca solo quando è in branco B. si innervosisce facilmente C. carica soltanto i maschi rivali D. è aggressivo solo con gli esseri umani",B,multiple choice,1278.0,['item_1278_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1137,"B14. Per il bue muschiato norvegese qual è attualmente il pericolo più grave? A. L’uomo B. La ferrovia C. Il lupo D. Il cambiamento del clima",B,multiple choice,1280.0,['item_1280_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1138,"B15. Perché alcuni buoi muschiati assalgono il treno? A. Il rumore del treno disturba la loro tranquillità B. Pensano che il treno sia un altro animale maschio C. La ferrovia li impaurisce D. Temono che il treno possa travolgerli",B,multiple choice,1281.0,['item_1281_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1139,"B16. Che cosa vuol dire l’autore quando afferma che «a rimetterci le corna non è mai il treno» (righe 65-66)? A. Il treno non riporta danni mentre il bue muschiato si spezza le corna B. Il bue muschiato non evita mai lo scontro diretto C. Il treno non subisce alcun danno perché non ha le corna D. Lo scontro non è alla pari e il bue muschiato ha sempre la peggio",D,multiple choice,1282.0,['item_1282_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1140,"B17. Da dove potrebbe essere tratto il testo che hai letto? A. Da un resoconto di un viaggio B. Da un manuale di scienze C. Da un’enciclopedia per ragazzi D. Da un racconto fantastico",A,multiple choice,1283.0,['item_1283_0.png'],2010_06_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Dall’era glaciale, ecco il bue muschiato Il moskus (bue muschiato) non è né un fiore né un troll, ma un animale. Un enorme erbivoro, tipico del mondo artico, che a prima vista assomiglia a un bisonte, ma in realtà è stretto parente di pecore, capre e mufloni. Mi trovo in Norvegia, circa trecentocinquanta chilometri a nord di Oslo, sulle pendici di un gruppo montuoso. “Domani ti porto a vedere il moskus”, promette Kjell, nell’ingresso dell’hotel. Io lo guardo come si guarda chi promette la luna e faccio spallucce. Ma lui insiste, serio: “Dico davvero: se hai fiato lo vedrai di sicuro, parola di Kjell. Però ci sarà da camminare un po’.” Quando Kjell – guardaparco norvegese e montanaro tutto d’un pezzo – dà la sua parola, vuol dire che manterrà la promessa. “Ci vediamo domani: partenza alle sette in punto”. Il moskus norvegese in italiano si chiama bue muschiato, perché il suo fittissimo pelo odora di muschio. Secoli fa era diffuso in tutto il Nord del mondo, ma poi la caccia e il riscaldamento del clima l’hanno relegato in pochissime regioni, tra le più fredde e isolate del Pianeta. Se il bue muschiato vive così bene al freddo, lo deve al suo lungo pelo scuro, che è il più efficace termo-isolante mai prodotto dalla natura: basti dire che, quando i primi cosmonauti sbarcarono sulla Luna, i loro scafandri erano imbottiti proprio con pelo di moskus. Più del freddo, i moskus temono senz’altro i lupi, che in America costituiscono i loro primi nemici naturali, tenuti a bada solo dalle robuste corna e dall’aggressività dei maschi capi-branco, facili a cariche micidiali. Non è facile incontrare uno di questi scontrosi giganti: gli ultimi branchi autoctoni vivono in Groenlandia e nel Labrador; altri esemplari, frutto di ripopolamenti artificiali, si trovano in Siberia, in Alaska e appunto in Norvegia, dove la specie era estinta da tempo. L’indomani Kjell mi passa a prendere con l’auto e cominciamo a salire. “Kjell, sicuro che lo vediamo?”. Lui fa cenno di sì, poi precisa: “L’unico problema sarà non avvicinarlo troppo: a meno di cento metri c’è il pericolo che carichi”. Poco oltre il passo parcheggiamo l’auto e ci incamminiamo a sinistra: saliamo per un sentiero, tra radi grovigli di betulle. Mentre cammina, Kjell mi dà qualche notizia. Dice che un moskus vive circa vent’anni; che le femmine partoriscono solo un piccolo all’anno, sempre in aprile-maggio; che i combattimenti fra maschi si svolgono in agosto; che un branco comprende di norma quattordici, quindici esemplari. “Però qui da noi – precisa – ci sono anche esemplari che vivono isolati. Il motivo è che qui non ci sono lupi. O meglio: ogni tanto ne arriva qualcuno dalla Svezia, ma raramente. Perciò i moskus non hanno bisogno di stare in branco per difendersi e possono allargarsi per avere più cibo a disposizione. Se ci fossero lupi, un moskus da solo, anche se forte, soccomberebbe. In gruppo, invece, i maschi si mettono in circolo, con le corna rivolte all’esterno, e il branco diventa una fortezza inattaccabile”. Poi Kjell tace di colpo, annusa l’aria e indica una macchia di betulle. “Il moskus… là”. Guardo nella direzione indicata, ma non c’è nulla: “Dove l’hai visto?”. Risposta: “Non lo vedo, sento l’odore”. Annuso anch’io l’aria: niente da fare. Poi un cespuglio si muove e dietro i rami ecco una grande massa scura, da cui spuntano due corna. È proprio lui, il bue muschiato. Me lo aspettavo nero, invece è di uno strano colore mimetico, perché il suo pelo è tutto impastato di terra, rametti e foglie secche. Il colosso che ho di fronte viene dall’alba dei tempi, quando tutta l’Europa era un ghiacciaio ed è riuscito a restare vivo e identico per millenni. Lo guardo ammirato per una decina di minuti mentre pascola tranquillo. Improvvisamente Kjell mi fa segno che è ora di levare il disturbo. “Ci ha visto, è nervoso…” mi dice. In effetti il moskus ha smesso di brucare: ora ha alzato il testone da terra e ci scruta con aria incarognita. Ci allontaniamo lentamente e lo perdiamo di vista. “Kjell – chiedo mentre scendiamo a valle – ma se qui non ci sono lupi, e quindi il moskus non ha nemici, non temete che prima o poi questo posto sarà pieno di buoi muschiati?”. Il guardaparco mi guarda: “In realtà un nemico c’è, anche se non è il lupo: si chiama treno”. Infatti sulla montagna passa una ferrovia che collega Oslo a Trondheim. E il moskus non la sopporta: così, soprattutto all’epoca degli amori, quando passa il treno c’è sempre qualche maschio nervoso che lo scambia per un rivale irriverente e quindi lo carica. Risultato: se si arriva allo scontro diretto, a rimetterci le corna non è mai il treno. (Tratto e adattato da: Nino Gorio, Dall’Era glaciale, ecco il bue muschiato, “Mondointasca.org”) ",6.0,multipla 1141,"C2. Leggi il seguente periodo di due frasi: «L’astronave comparve rotonda nel cielo e lentamente calò sul prato». Ora indica fra i periodi nella tabella - tutti di due frasi, ma di significato ogni volta diverso - quello che è composto con parole dello stesso tipo (es.: verbo, articolo, ecc.) e disposte esattamente nello stesso ordine del periodo sopra. A. La bambina entrò curiosa nella grotta e immediatamente trovò l’acqua B. La maestra uscì sorridendo dalla classe e soddisfatta tornò a casa C. Il babbo arrivava stanco ma felice e volentieri giocava con i bambini D. La barca filava rapida sulle onde e subito arrivò nel porto",D,multiple choice,1285.0,['item_1285_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 1142,"C3. Quale delle seguenti frasi contiene sia un aggettivo indefinito sia un aggettivo possessivo? A. Qualche volta un sorriso illuminava il suo volto malinconico B. Niente e nessuno avrebbero potuto convincere mia madre a rinunciare al suo progetto C. Qualcuno improvvisamente bussò alla nostra porta D. Il loro appartamento era così grande che tutti ne rimanevano stupiti",A,multiple choice,1286.0,['item_1286_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 1143,"C4. Nel periodo: «Il vecchio pescatore passava ore e ore sulla riva del mare; gli piaceva guardare i gabbiani che volavano sopra le onde», in quale modo e tempo sono coniugati i verbi sottolineati? A. Congiuntivo imperfetto B. Indicativo imperfetto C. Indicativo passato prossimo D. Congiuntivo passato",B,multiple choice,1287.0,['item_1287_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 1144,"C5. In quale delle frasi seguenti il verbo è in forma riflessiva? A. Piero non si reggeva in piedi B. In questo locale non si fuma C. Dalla finestra si vede uno splendido panorama D. Da molto tempo in casa nostra non si prepara questo piatto",A,multiple choice,1288.0,['item_1288_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 1145,"C7. Nella frase «… si sentiva molto stanco, Paolo si sedette all’ombra di un albero», quale delle seguenti congiunzioni va al posto dei puntini? Indicala. A. Finché B. Poiché C. Quando D. Mentre",B,multiple choice,1290.0,['item_1290_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 1146,"C9. Nella frase «Comprerò una scatola di cioccolatini e la manderò a Maria», quale funzione logico-sintattica ha il pronome “la”? A. Soggetto B. Complemento oggetto C. Complemento di specificazione D. Apposizione",B,multiple choice,1292.0,['item_1292_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 1147,"C10. In quale delle seguenti frasi “foglie” ha la funzione di soggetto? A. D’autunno cadono le foglie dagli alberi B. Ho raccolto le foglie dal viale del giardino C. Un tappeto di foglie copriva la strada D. I passanti calpestavano le foglie cadute a terra",A,multiple choice,1293.0,['item_1293_0.png'],2010_06_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,6.0,multipla 1148,"A1. Il testo che hai letto è A. una pagina di diario B. una storia fantastica C. un racconto autobiografico D. un articolo di rivista",C,multiple choice,1294.0,['item_1294_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1149,"A2. Il tema centrale del testo è A. l’evoluzione nel tempo di un rapporto di amicizia B. il progressivo allentarsi di un rapporto di amicizia C. la riflessione su un rapporto d’amicizia ormai finito D. il rimpianto per un rapporto d’amicizia ormai finito",C,multiple choice,1295.0,['item_1295_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1150,"A3. L’espressione “o meglio”, alla riga 2, introduce A. un commento B. una aggiunta C. una definizione D. una precisazione",D,multiple choice,1296.0,['item_1296_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1151,"A4. Perché gli altri provavano un leggero senso di impotenza di fronte alle dichiarazioni dei due ragazzi? A. Non potevano ritornare indietro al tempo della propria infanzia B. Le parole dei due amici non erano credibili C. Sentivano che era impossibile condividere la loro lunga amicizia D. Il racconto delle loro avventure li metteva a disagio",C,multiple choice,1297.0,['item_1297_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1152,"A5. Con quale di queste parole non si può sostituire l’aggettivo “solida” alla riga 16? A. Concreta B. Robusta C. Stabile D. Reale",B,multiple choice,1298.0,['item_1298_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1153,"A6. Con che cosa non si possono sostituire le parole “la scansione” alla riga 17? A. La divisione B. L’unione C. L’intervallo D. Il confine",B,multiple choice,1299.0,['item_1299_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1154,"A8. La parola “mentre”, alla riga 19, indica che tra ciò che viene detto prima e ciò che viene detto dopo c’è un rapporto di A. opposizione B. causa-effetto C. contemporaneità D. consequenzialità",A,multiple choice,1301.0,['item_1301_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1155,"A9. La parola “invano”, alla riga 31, potrebbe essere sostituita con A. angosciosamente B. faticosamente C. lentamente D. inutilmente",D,multiple choice,1302.0,['item_1302_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1156,"A10. Che cosa teme veramente il narratore quando, il pomeriggio del primo giorno delle vacanze, non vede arrivare l’amico? Teme che A. sia accaduto qualcosa di male all’amico B. si annoierà a morte se quell’estate rimarrà da solo C. l’amico non abbia più tempo di stare con lui D. l’amico abbia trovato un’altra compagnia",B,multiple choice,1303.0,['item_1303_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1157,"A11. Secondo il narratore, perché l’amico, scaricando i bagagli, ha pianto? A. Ha litigato a lungo con il padre B. È stato costretto a fare un lavoro che non gli piace C. Il padre è molto severo con lui D. Gli è stato sottratto del tempo riservato alla vacanza",D,multiple choice,1304.0,['item_1304_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1158,"A12. L’“impunità” di cui parla il narratore alla riga 48 consiste nel fatto che A. i bambini sono esonerati dai doveri della vita adulta B. i bambini non sono punibili per i guai che combinano C. i bambini sono liberi di giocare tutto il giorno D. i bambini riescono a sfuggire alle punizioni degli adulti",A,multiple choice,1305.0,['item_1305_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1159,"A13. Che cosa significa l’aggettivo “impercettibile” alla riga 52? A. Inavvertibile B. Insignificante C. Superficiale D. Intoccabile",A,multiple choice,1306.0,['item_1306_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1160,"A15. La parola “farlo”, alle righe 60 e 61, sostituisce A. chiederci perché non ci vediamo più B. stare insieme C. parlare sempre del passato D. ricominciare",B,multiple choice,1308.0,['item_1308_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1161,"A16. Il pronome “altri” viene usato alle righe 7, 12, 60, 65. In quale riga non ha il significato di “altre persone”? A. Riga 7 B. Riga 12 C. Riga 60 D. Riga 65",D,multiple choice,1309.0,['item_1309_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1162,"A17. Perché il narratore trovava “estremamente faticosa” (riga 68) la sua amicizia con il compagno dell’estate? A. Non si vedevano mai d’inverno B. Spesso non andavano d’accordo C. Da un anno all’altro c’erano nell’amico profondi mutamenti D. Lui avrebbe voluto avere anche altri amici, non solo quello",B,multiple choice,1310.0,['item_1310_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1163,"A19. L’autore scrive principalmente per A. comprendere meglio un’esperienza ricordandola B. sconsigliare a qualcuno di ripetere la sua stessa esperienza C. spiegare che ogni rapporto ha qualche lato positivo D. comunicare i propri sentimenti all’amico di un tempo",A,multiple choice,1312.0,['item_1312_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1164,"A20. Quale altro titolo potrebbe sintetizzare il significato complessivo del testo? A. La lunga pausa estiva B. Solo per gioco C. Noi due: amici e sconosciuti D. La dolorosa fine dell’infanzia",C,multiple choice,1313.0,['item_1313_0.png'],2010_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Le estati del rancore Come abbiamo fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono ogni estate in una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme per due mesi, e poi in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici. Oh certo, non facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci chiedeva di noi, amici per la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando eravamo piccoli così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano ricordare gli anni e il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che si ha di fronte a due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal tempo, e si capisce subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che il tempo per diventare uno di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era piccoli così”. Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme, io sentivo che eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli, perché eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo in due città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi aveva una vita sconosciuta e solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel lungomare e per due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra un anno e l’altro. E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché questa non era la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali, mentre ogni inverno portava qualcosa di nuovo. Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio, ogni anno, mai un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava che per te fosse finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era arrivata l’estate, e bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere. Durava poco, ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come chi le ha attese a lungo. Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati che ci separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli, e mi trovavi sul balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti apparso, e poi scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini. Mi accorsi che avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio del primo luglio passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza al balcone, ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai successo. Era quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo con fretta, avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura, una paura terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo mai considerato possibile e durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei fatto lì da solo, per due mesi interminabili. Quando arrivai, capii. Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi, e le tante altre cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso, ma avevi gli occhi gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi litigato a lungo per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità di tuo padre. Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due mesi di vita che ti spettavano da sempre. Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo per le scale: tu scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta che eri arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino pieghevole. Ci avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita all’improvviso. Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra essere cambiato all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo pezzo di pelle si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva, la metamorfosi è ormai avvenuta del tutto. Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni tanto ci incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di qualcuno, ci mettiamo a parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo a fare altro – e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni migliori, ci guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci vediamo più. E noi rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare a stare insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso di farlo pian piano, anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come se fosse l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo stati amici, perché abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare, a prenderci in giro. Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati, era la fatica di arrivare alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto, o portare a termine un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico di un altro era una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un certo punto avrei quasi consigliato di non diventarlo. (Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) ",8.0,multipla 1165,"B1. La foresta tropicale è un sistema che mantiene A. il suo equilibrio adattandosi a ogni situazione B. in equilibrio i rapporti complessi fra le specie vegetali C. il suo equilibrio se non subentrano fattori esterni D. in equilibrio i ruoli nei quali si sono specializzati i vegetali",C,multiple choice,1314.0,['item_1314_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1166,"B2. Un “ecosistema” è un sistema in cui A. le relazioni tra organismi e ambiente sono controllate dall’uomo B. si sviluppano precise relazioni tra organismi e ambiente C. tutti gli organismi restano integri allo stato naturale D. si proteggono con leggi apposite la natura e tutti i suoi organismi",B,multiple choice,1315.0,['item_1315_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1167,"B3. Nella frase «adattatisi a ruoli molto particolari» (riga 5), puoi sostituire “adattatisi” con A. poiché si sono adattati B. prima che si siano adattati C. che si sono adattati D. nello stesso tempo si sono adattati",C,multiple choice,1316.0,['item_1316_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1168,"B5. Nelle foreste tropicali le piante sono “sempreverdi” (riga 6), cioè non perdono mai le foglie, perché A. non hanno bisogno di adattarsi alle variazioni stagionali B. ricevono in ogni stagione l’acqua di cui hanno bisogno C. crescono in continuazione per la particolare fertilità del suolo D. appartengono tutte ad una specie con particolari caratteristiche",A,multiple choice,1318.0,['item_1318_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1169,"B6. Nella frase «nel contempo non ne ha stimolato» (riga 8), “ne” si riferisce a A. foreste tropicali B. differenti microambienti C. specie vegetali D. fattori esterni",C,multiple choice,1319.0,['item_1319_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1170,"B7. I climi a “marcata stagionalità” (riga 10) sono quelli in cui le variazioni stagionali sono A. forti ma graduali B. moderate ma improvvise C. forti e improvvise D. moderate e graduali",C,multiple choice,1320.0,['item_1320_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1171,"B8. Il disboscamento ha effetti diversi nelle zone temperate e nelle zone tropicali a causa A. del clima e del tipo di vegetazione B. del clima e del tipo di suolo C. della presenza di zone montuose e di frane D. della piovosità e della perdita di verde",B,multiple choice,1321.0,['item_1321_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1172,"B9. Quale delle seguenti frasi ha lo stesso valore di «Se la vegetazione è rigogliosa» nel periodo da riga 19 a riga 23? A. Nel caso in cui la vegetazione sia rigogliosa B. Finché la vegetazione è rigogliosa C. Poiché la vegetazione è rigogliosa D. Il fatto che la vegetazione sia rigogliosa",D,multiple choice,1322.0,['item_1322_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1173,"B10. In base a quanto si dice nel quarto capoverso (righe 18-25), in Amazzonia la vegetazione è molto ricca perché A. si alimenta attraverso le radici che assorbono rapidamente il nutrimento dai resti organici nel primo strato del terreno B. la superficie del terreno è ricoperta di materiale vegetale in decomposizione, che fa da nutrimento alle piante C. i resti organici che affondano profondamente nel terreno nutrono le piante D. le piante hanno una fitta rete di radici che assorbe l’acqua in profondità",A,multiple choice,1323.0,['item_1323_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1174,"B11. Nella frase «che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire» (riga 21), “che” si riferisce a A. vegetazione B. strato di humus C. terreno D. rete di radici",D,multiple choice,1324.0,['item_1324_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1175,"B12. Nell’espressione «questi processi di degrado» (riga 39), “degrado” significa A. deterioramento B. diminuzione C. disboscamento D. decrescita",A,multiple choice,1325.0,['item_1325_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1176,"B13. Il clima ai tropici è caratterizzato da A. una stagione umida in cui si concentrano le precipitazioni B. una distribuzione uniforme delle precipitazioni durante l’anno C. una variazione equilibrata delle temperature dal caldo al freddo D. una scarsità di piogge che rischia di rendere il terreno arido",A,multiple choice,1326.0,['item_1326_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1177,"B14. Osserva l’illustrazione. L’evaporazione dovuta alla forte insolazione ha l’effetto di A. distruggere le sostanze nutrienti B. far salire i sali in superficie C. favorire la formazione di nubi D. prosciugare il suolo permettendone la coltivazione",B,multiple choice,1327.0,['item_1327_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1178,"B16. L’argomento principale del testo è A. la differenza tra le foreste tropicali e gli ambienti desertici B. la siccità e le inondazioni nella foresta tropicale C. la trasformazione della foresta tropicale a causa della siccità D. la foresta tropicale e gli effetti della sua distruzione",D,multiple choice,1329.0,['item_1329_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1179,"B17. Lo scopo principale del testo è di A. far capire i rischi di interventi che modificano l’ambiente B. analizzare le caratteristiche di un ecosistema C. dimostrare l’interdipendenza tra vegetazione e clima D. convincere il lettore a impegnarsi per l’ambiente",A,multiple choice,1330.0,['item_1330_0.png'],2010_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Foreste e desertificazione La fragilità delle foreste tropicali La foresta è un ecosistema complesso in naturale equilibrio, quando non intervengono a mutarne l’assetto fattori esterni; gli ecosistemi complessi sono infatti sensibili a ogni perturbazione, reggendosi su delicati rapporti fra gli organismi componenti, adattatisi a ruoli molto particolari. Nelle foreste tropicali sempreverdi la relativa costanza del clima ha permesso l’evolversi di un gran numero di specie vegetali adatte ad utilizzare al meglio i differenti microambienti, ma nel contempo non ne ha stimolato la capacità d’adattamento a brusche variazioni dell’habitat, come avvenuto nei climi a marcata stagionalità in cui i vegetali hanno dovuto sviluppare capacità di superare improvvisi e bruschi cambiamenti. Da questo deriva la grande fragilità degli ecosistemi forestali tropicali, attualmente i più importanti nel mondo per la produzione di ossigeno e la ricchezza naturalistica che racchiudono. Il suolo delle foreste tropicali Se si disbosca nelle zone temperate, si possono creare danni come la perdita di verde o la caduta di frane in zone montuose. Ma non c’è il rischio che si formino deserti, perché le condizioni del clima e dei terreni sono diverse. Il suolo su cui crescono le foreste tropicali è povero di elementi nutritivi. In Amazzonia, ad esempio, quasi non esiste strato di humus. Se la vegetazione è rigogliosa è grazie a una fitta rete di radici collocate nei primi 30 centimetri di terreno, che con l’aiuto di particolari microrganismi riesce ad assorbire ogni materiale organico in decomposizione (foglie, escrementi, carogne di animali, ecc.) prima che sprofondi nello strato sottostante. Ogni elemento nutritivo che non viene assorbito subito è come perduto, perché il substrato della foresta tropicale ha una scarsa capacità di trattenere materiale organico. Da foresta a deserto Quando il terreno della foresta tropicale è messo a nudo, esso soccombe sotto l’effetto devastante del clima ai tropici. Il primo colpo lo dà la pioggia che batte violentemente e porta via lo strato superficiale di humus. La diminuzione di humus abbassa la capacità del suolo di trattenere acqua. Un ulteriore colpo lo dà il sole. I suoi raggi potenti distruggono altro humus, trasformano l’azoto e il carbonio in gas volatili, induriscono il terreno. Sulla superficie indurita si forma uno strato di polvere contenente sostanza organica che sarà portata via dal vento o dalla pioggia. Mentre le particelle più fini sono trascinate via dal vento o dall’acqua, le formazioni più grosse, corrispondenti a granelli di sabbia, rimangono sul terreno. A ogni nuova ondata erosiva, il terreno diventa sempre più sabbioso e quindi meno adatto alla vita vegetale. Purtroppo questi processi di degrado non si arrestano neanche se le zone deforestate sono seminate a pascolo o ad altre colture stagionali. L’effetto sui corsi d’acqua Dove si eliminano le foreste si assiste anche a un altro fenomeno devastante: l’alternanza siccità – inondazione. Ai tropici c’è una parte dell’anno in cui piove moltissimo, in maniera anche violenta. Nella zona ben coperta a foresta, il 95% dell’acqua piovana viene assorbita dalla fitta rete di radici che funziona da spugna. L’acqua immagazzinata durante la stagione umida è rilasciata nel resto dell’anno e le falde acquifere si mantengono sempre ad un buon livello facendo scorrere acqua nei fiumi anche durante la stagione secca. Quando la foresta è distrutta, viene a mancare la “spugna” e l’acqua che cade durante la stagione delle piogge si dirige immediatamente ai torrenti e ai fiumi, provocando straripamenti e allagamenti di città e campagne. Al contrario, durante la stagione secca i fiumi si prosciugano e tutto diventa arido. (Tratto e adattato da: Mara Clementi, Nicola Scognamiglio, Popoli in movimento. Percorsi didattici interdisciplinari per educare alla mondialità, EMI, Bologna, 1993) ",8.0,multipla 1180,"C1. Quale delle seguenti frasi non potrebbe essere espressa anche in forma passiva? A. Con il pallone Luigi ha rotto un vetro del vicino B. Hanno premiato i vincitori della gara con una medaglia C. I miei genitori partiranno la prossima settimana D. Tuo padre certo ti sgriderà per quello che hai fatto",C,multiple choice,1331.0,['item_1331_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1181,"C3. In quale delle seguenti frasi ci sono contemporaneamente un complemento di luogo e uno di agente? A. Nelle città d’arte le vie e le piazze sono invase dai turisti B. In primavera le rondini ritornano dai paesi africani C. In campagna dalla mia finestra vedo le colline lontane D. In autunno le foglie cadute dagli alberi tappezzano le strade",A,multiple choice,1333.0,['item_1333_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1182,"C5. In quale dei seguenti periodi c’è una frase subordinata oggettiva? A. Carlo mi assicurò che non avrebbe riferito a nessuno le mie parole B. Per sapere quando partirà l’aereo, guarda il monitor che dà gli orari dei voli C. Vieni, così ti presento gli amici che ti volevano conoscere D. È strano che tu preferisca viaggiare in macchina da solo invece che in treno con me",A,multiple choice,1335.0,['item_1335_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1183,"C6. Leggi la frase seguente: Un’autostoppista sorridente mi chiese un passaggio. L’autostoppista è A. un uomo B. una donna C. non è possibile dirlo perché autostoppista è un nome invariabile per genere D. non è possibile dirlo perché sorridente è un aggettivo invariabile per genere",B,multiple choice,1336.0,['item_1336_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1184,"C8. Scegli, fra le quattro riportate sotto, la congiunzione che connette in modo appropriato in un solo periodo le due frasi seguenti: “Ti perdono” - “tu prometta di non dire più bugie”. A. Affinché B. Poiché C. Cosicché D. Purché ",D,multiple choice,1338.0,['item_1338_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1185,"C9. Nel periodo: «Avendo nevicato molto, il tratto di autostrada era stato chiuso», la frase sottolineata indica A. scopo B. tempo C. causa D. modo",C,multiple choice,1339.0,['item_1339_0.png'],2010_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1186,"A1. Dove vivono i bambini all’inizio della storia? A. In un castello B. Su un treno C. Nella foresta D. Nelle case",C,multiple choice,1341.0,['item_1341_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1187,"A2. Come si sentono i bambini nel luogo dove vivono? A. Amici i tutti gli animali B. Spaventati dagli animali feroci C. Impauriti dal temporale D. Sicuri e protetti dai pericoli",D,multiple choice,1342.0,['item_1342_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1188,"A3. In questa storia, che cosa fanno gli elefanti quando c’è caldo? A. Sventolano le orecchie B. Aspettano il temporale C. Corrono per fare vento D. Si mettono all’ombra",A,multiple choice,1343.0,['item_1343_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1189,"A4. Che cosa rappresentano gli elefanti per i bambini? A. Amici un po’ troppo ingombranti B. Amici che danno protezione C. Amici che danno da mangiare D. Amici che hanno bisogno di cure",B,multiple choice,1344.0,['item_1344_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1190,"A5. Dove si riparano i bambini quando arriva un temporale? A. Sotto gli alberi della foresta B. Tra le colonne di un castello C. Sotto gli elefanti D. Nei vagoni del treno",C,multiple choice,1345.0,['item_1345_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1191,"A6. In che modo gli elefanti respingono gli animali feroci? A. Vanno a chiamare i re della foresta B. Tiranno subito forti pedate C. Corrono dietro a leoni e leopardi D. Alzano una zampa per spaventarli",D,multiple choice,1346.0,['item_1346_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1192,"A7. Perché il capotreno grida “In carrozza”? A. Per far salire i bambini B. Per far allontanare gli animali feroci C. Per farsi sentire dagli elefanti D. Per salvare i bambini dai pericoli della foresta",A,multiple choice,1347.0,['item_1347_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1193,"A8. Nella frase “Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire”, che cosa puoi mettere al posto di “Allora” per dire la stessa cosa? A. Ma i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire B. Così i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire C. Invece i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire D. Eppure i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire",B,multiple choice,1348.0,['item_1348_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1194,"A9. A che cosa pensano i bambini quando vedono gli oggetti sul treno? A. Ai giochi che potranno fare B. A cose utili che si possono vendere C. Ai regali che vorrebbero ricevere D. Ai lavori che faranno da grandi",D,multiple choice,1349.0,['item_1349_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1195,"A10. Perché un bambino vuole salire sul vagone delle marmellate? A. Vorrebbe mangiare la marmellata B. Gli piacerebbe diventare cuoco C. È molto goloso D. Gli altri vagoni sono troppo pieni",B,multiple choice,1350.0,['item_1350_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1196,"A11. Perché a un bambino viene in mente di far salire gli elefanti? A. Non vuole lasciarli da soli B. Vuole vivere con loro C. Vuole fare il veterinario D. Vuole usare la gru",C,multiple choice,1351.0,['item_1351_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1197,"A12. Che cosa significa la frase “non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria”? A. Combinavano guai nel muoversi B. Non conoscevano i cristalli C. Si muovevano con garbo D. Parevano piccoli come asini",A,multiple choice,1352.0,['item_1352_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1198,"A13. Perché i bambini partono? A. Hanno voglia di fare un viaggio in treno B. Si sono stancati della vita nella foresta C. Devono cominciare una nuova vita D. Hanno sentito gridare il capotreno",C,multiple choice,1353.0,['item_1353_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1199,"A14. Alla fine della storia, dove vivranno i bambini? A. Andranno in una città B. Abiteranno in un’altra foresta C. Torneranno nella stessa foresta D. Resteranno sul treno",A,multiple choice,1354.0,['item_1354_0.png'],2009_02_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo racconto: GLI ELEFANTI Tanto tempo fa i bambini non vivevano nelle case degli uomini, ma nelle foreste degli elefanti. E lì non avevano paura di nulla. Quando faceva caldo, gli elefanti muovevano forte le orecchie per fare il vento. Se scoppiava un temporale, si mettevano uno accanto all'altro e i bambini correvano fra le loro zampe come tra le colonne di un castello. Ma, se arrivava un animale feroce, gli elefanti alzavano la zampa destra, pronti a mollare una pedata, perché, sia ben chiaro, i re della foresta siamo noi, dicevano a leoni e leopardi. Ma un giorno nella foresta passò un treno che andava in città. Capitò all'improvviso, una mattina di settembre. Trasportava vagoni pieni di quaderni, lettere, pentole, matite, termometri. Anche barattoli di marmellata. - In carrozza, ragazzi, in carrozza! - gridò il capotreno affacciandosi al finestrino con un megafono in mano. Allora i bambini dissero agli elefanti che dovevano partire. - Vado in città a fare il postino - disse uno. - Io vado a fare il maestro - disse un altro. - E io il cuoco - urlò un terzo e salì sul vagone delle marmellate. Ma un bambino più piccolo degli altri esclamò: - Io farò il veterinario e vi porto con me! - e cercò in ogni modo di far salire gli elefanti sul treno. Con le corde, con le scale, persino con una gru, che trovò sull'ultimo vagone. Ma gli elefanti, a ogni mossa, spaccavano qualcosa, e non parevano giganti garbati, ma asini in una cristalleria. Allora i bambini capirono che dovevano partire da soli e abbracciarono forte le zampe dei loro amici. (Da: E. Nava, Quando i babbuini andavano al cinema, Milano, Feltrinelli, 1999) ",2.0,multipla 1200,"A1. Il testo racconta di un contratto tra due persone che: A. termina con una grave offesa. B. non viene rispettato. C. finisce con uno scherzo. D. si conclude tragicamente",C,multiple choice,1355.0,['item_1355_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1201,"A2. L’espressione “come per un lutto” (riga 6) significa: A. come se non avesse sentito bene. B. come se gli fosse morto qualcuno. C. come se volesse ferirsi. D. come se volesse picchiare il pittore",B,multiple choice,1356.0,['item_1356_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1202,"A3. Le domande che il mercante fa al pittore, all’inizio della storia, hanno lo scopo di: A. ridurre il prezzo del dipinto. B. capire se il pittore è onesto. C. vedere che cosa è capace di fare il pittore. D. scegliere il tipo di cavallo da far dipingere.",A,multiple choice,1357.0,['item_1357_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1203,"A4. La parola “selvaggio”, alla riga 15, è il contrario di: A. selvatico. B. buono. C. purosangue. D. domato.",D,multiple choice,1358.0,['item_1358_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1204,"A5. Il mercante dice: “Via, via di qui, monelli! Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi” (righe 19-21). Queste parole ci fanno capire che il mercante è: A. tirchio e arrogante B. vanitoso e iroso. C. severo e poco intelligente. D. spiritoso e chiacchierone.",A,multiple choice,1359.0,['item_1359_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1205,"A6. Da che cosa si capisce che i fatti raccontati si svolgono in un paese arabo? A. Dalla presenza di cavalli selvaggi B. Dai mestieri dei personaggi. C. Dai nomi dei personaggi. D. Dalla razza del cavallo dipinto sul muro.",C,multiple choice,1360.0,['item_1360_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1206,"A7. Nella frase “I bambini andarono a raccontare la meraviglia” (riga 24), la meraviglia si riferisce al fatto che: A. il dipinto è stato finito molto in fretta. B. il pittore ha dipinto un cavallo molto bello. C. il mercante ha fatto dipingere bene il muro. D. il cavallo sta immobile in un’impennata.",B,multiple choice,1361.0,['item_1361_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1207,"A8. Nella storia si dice che il pittore “ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro” (righe 30-31). Perché il pittore usa la stessa tinta? A. Per danneggiare il dipinto. B. Per non fare arrabbiare il mercante. C. Per non sciupare il muro. D. Per fare riuscire meglio il suo piano.",D,multiple choice,1362.0,['item_1362_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1208,"A9. Il pittore cancella il cavallo: A. perché il mercante si è preso il merito del dipinto. B. perché il mercante gli ha dato meno di quanto stabilito. C. per punire il mercante che maltratta i bambini D. per punire il mercante della sua avarizia.",D,multiple choice,1363.0,['item_1363_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1209,"A10. Per spiegare la scomparsa del cavallo dipinto, il pittore dice al mercante che: A. il cavallo è fuggito. B. il cavallo si trova nell’oasi. C. la pittura durava solo una notte. D. ha voluto fargli uno scherzo.",A,multiple choice,1364.0,['item_1364_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1210,"A11. Alla riga 43, “La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare” significa: A. La gente ride così forte che non si sentono le parole del mercante. B. La gente ride così forte che il mercante non ha il coraggio di rispondere. C. La gente ride così forte perché il mercante non sa che cosa rispondere. D. La gente ride così forte perché il mercante non riesce a parlare dalla rabbia.",B,multiple choice,1365.0,['item_1365_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1211,"A12. Quale modo di dire riassume meglio quello che è successo al mercante? A. Chi rompe, paga. B. Meglio soli che male accompagnati. C. Oltre il danno, anche la beffa. D. Il meglio è nemico del bene.",C,multiple choice,1366.0,['item_1366_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1212,"A13. Secondo te, i fatti raccontati nel testo: A. sono successi davvero. B. potrebbero succedere. C. non potrebbero mai succedere D. potevano succedere solo in un lontano passato.",B,multiple choice,1367.0,['item_1367_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1213,"A14. Questo racconto è stato scritto soprattutto per: A. divertire e far riflettere. B. far capire che gli scherzi finiscono male. C. insegnare a rispettare l’arte dei pittori. D. descrivere le abitudini di altri popoli.",A,multiple choice,1368.0,['item_1368_0.png'],2009_05_SNV_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il cavallo selvaggio Il mercante Ben Amhud volle far dipingere un cavallo sulla facciata del suo negozio. S’informò sui pittori della zona, e alla fine chiamò Alí Shab. - Alí, voglio un bel cavallo sulla facciata del mio negozio. Quanto mi verrà a costare? - Un cavallo bello ti costerà trentacinque denari - rispose il pittore. - Tanto? - disse il mercante, battendosi le mani sulla testa, come per un lutto. - Come posso risparmiare un po’? - Se vuoi un cavallo brutto, spenderai solo trenta denari - rispose il pittore. - Ah, bene! - disse il mercante, battendosi le mani sul ventre, soddisfatto. - E… non potrei spendere ancora meno? Alí Shab pensò un momento, poi disse: - I prezzi che ho detto, naturalmente, sono per i cavalli addomesticati. Se vuoi un cavallo selvaggio, spenderai solo venticinque denari. - Ecco! - gongolò il mercante, battendo le mani una contro l’altra. - Dipingi un bel cavallo selvaggio, caro pittore! Senza più parlare, Alí Shab preparò colori e pennello e si mise al lavoro. Dipingeva veloce e sicuro e i bambini del villaggio, seduti in cerchio alle sue spalle, stavano a guardare. - Via, via di qui, monelli! - gridava Ben Amhud, uscendo dal negozio e agitando uno straccio. - Non spendo il mio denaro per divertire le scimmiette come voi! Al tramonto il dipinto era finito: un bellissimo purosangue arabo, bianco, dall’aria fiera e indomita, stava immobile in un’impennata. I bambini andarono a raccontare la meraviglia e da ogni parte venne gente ad ammirare. Ben Amhud stava sulla soglia del negozio, sorridendo, come fosse stato lui ad allevare quel cavallo stupendo. Poi, davanti a tutti, consegnò al pittore i venticinque denari e lo salutò. Venne la sera e tutti andarono a dormire. Tutti, ma non il pittore, che venne, ricoprì rapidamente il cavallo con la stessa tinta del muro e se ne andò. Al mattino, quando aprì il negozio, Ben Amhud restò a bocca spalancata, gli si strozzò il fiato in gola, gli mancò il respiro. Poi prese a gridare, chiamando il pittore. Alí Shab, seguito da molta gente incuriosita da quel baccano, venne davanti a lui. - Che storia è questa? - gridò il mercante, infuriato. - Per venticinque denari mi hai fatto una pittura che è durata solo una notte? Il pittore, tranquillo, rispose: - La pittura era buona, Ben Amhud, ma sei stato tu a volere un cavallo selvaggio. I cavalli selvaggi costano meno, si sa, ma scappano alla prima occasione! La gente scoppiò a ridere così forte, che il mercante non osò replicare e a faccia bassa si ritirò a mangiarsi le dita per la rabbia. E qualche volta, da quel giorno, passando davanti al negozio, qualcuno gli gridava: - Ehi, Ben Amhud, ho visto il tuo cavallo correre vicino all’oasi! (Da: R. Piumini, Mille cavalli, Einaudi, Torino, 2006) ",5.0,multipla 1214,"B1. Dove vivevano numerosi i panda nell’antichità? A. In Occidente. B. In Cina. C. In poche aree isolate. D. In alcune riserve protette.",B,multiple choice,1369.0,['item_1369_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1215,"B2. Da quanto tempo gli occidentali conoscono il panda? A. Da più di 4000 anni. B. Da più di 1600 anni. C. Da 800 anni circa. D. Da 140 anni circa.",D,multiple choice,1370.0,['item_1370_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1216,"B3. Chi ha fatto conoscere il panda nel mondo scientifico internazionale? A. Un prete occidentale. B. Un naturalista cinese. C. Uno scienziato del WWF. D. Un esploratore contemporaneo.",A,multiple choice,1371.0,['item_1371_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1217,"B4. Da che cosa sappiamo dove era diffuso il panda nel passato? A. Dalle immagini del satellite. B. Dalle spiegazioni del WWF. C. Dai fossili trovati in quei luoghi. D. Dai resti trovati nelle trappole",C,multiple choice,1372.0,['item_1372_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1218,"B5. Alle righe 15-16 si legge “Niente di bello, purtroppo!”. Perché? A. Le foreste di bambù si sono dimezzate. B. L’ambiente naturale non è bello. C. Ci sono trappole dappertutto. D. Non si riesce a vedere i panda.",A,multiple choice,1373.0,['item_1373_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1219,"B6. Perché la “deforestazione” è un pericolo per la sopravvivenza del panda? A. Le foreste sono un ambiente pericoloso. B. Il panda non può più nascondersi nel fitto fogliame. C. Le foreste sono troppo estese. D. Il panda non trova più da mangiare.",D,multiple choice,1374.0,['item_1374_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1220,"B7. Che cos’è il “bracconaggio”? A. La distruzione dell’ambiente naturale da parte dell’uomo. B. La cattura o l’uccisione illegale di animali C. L’esportazione di animali esotici D. Lo sport della caccia.",B,multiple choice,1375.0,['item_1375_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1221,"B8. Alle righe 24-25 si dice che il panda “si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù”. Il termine “principalmente” significa: A. unicamente. B. non solo. C. più che altro. D. anche",C,multiple choice,1376.0,['item_1376_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1222,"B9. Il bambù non è molto sostanzioso. Come fa il panda a sopravvivere? A. Ne mangia tanto. B. Lo mastica a lungo. C. Sta per fermo per più di 14 ore al giorno. D. Mangia sempre anche altri cibi.",A,multiple choice,1377.0,['item_1377_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1223,"B10. Nella frase “Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale” (righe 21-22), “Compensando” si può sostituire con: A. Benché compensi. B. E così compensa. C. E siccome compensa. D. Perché compensi",B,multiple choice,1378.0,['item_1378_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1224,"B12. Qual è l’argomento principale del testo? A. La riduzione della zona delle foreste. B. L’osservazione dell’habitat fatta mediante i satelliti. C. Le condizioni di vita del panda. D. I problemi che riguardano l’alimentazione del panda.",C,multiple choice,1380.0,['item_1380_0.png'],2009_05_SNV_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il panda gigante Una vita in bianco e nero I cinesi lo chiamano “beishung” o orso bianco e lo conoscono da più di 4000 anni. Noi occidentali, invece, lo a bbiamo scoperto da poco, da quando cioè Padre David (sacerdote, naturalista ed esploratore) lo descrisse al mondo scientifico internazionale nel 1869. I reperti fossili dimostrano che un tempo il panda gigante era diffuso su gran parte del territorio cinese. Oggi, invece, di panda ne restano pochissimi, forse meno di 1600, divisi in tante piccole popolazioni. Almeno 800 però abitano all'interno delle riserve create dal governo cinese in collaborazione con il WWF. Il panda visto… dallo spazio! I pericoli che minacciano la sopravvi venza dei panda non sono pochi: c'è la deforestazione, il bracconaggi o, il crescente disturbo da parte dell'uomo e, purtroppo, anche le catture accidentali con trappole destinate ad altri animali. Per tenere costantemente sotto controllo la situazione degli ultimi panda e il loro habitat si è ricorsi perfino all'occhio del satellite. Cosa ha vist o? Niente di bello, purtroppo! L'ambiente natura le del panda, le foreste di bambù, è diminuito della metà negli ultimi 15 anni, ed ora è ri dotto ad appena 11.000 kmq in sei aree isolate fra loro. Pancia mia fatti capanna! Ben nascosto fra il fitto fogliame della foresta, il panda mangia una montagna di bambù (dai 12 ai 14 chili) per più di 14 ore al giorno! Compensando, con la quantità, le scarse proprietà nutritive del vegetale. Questo fa del panda gigante il più vegetariano di tutti i carnivori. Nonostante la robusta dentatura e il sistema digestivo tipico del carnivoro, questo simp atico orso si nutre principalmente delle foglie e dei teneri germogli di due specie di bambù. E solo occasionalmente integra la sua dieta con qualche invertebrato o piccolo roditore che gli capita a portata di zampa. (Da: «Panda junior», n.1-2 genna io-febbraio 2008, pp 18-19) ",5.0,multipla 1225,"C2. Qual è il soggetto della frase: «Manca ancora una settimana alla fine dell’anno scolastico»? A. Ancora. B. Una settimana. C. Fine. D. Anno.",B,multiple choice,1382.0,['item_1382_0.png'],2009_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1226,"C3. Qual è il predicato verbale che puoi unire al soggetto “La cioccolata”? A. È al latte. B. È molto amara. C. È stata mangiata. D. È fondente. ",C,multiple choice,1383.0,['item_1383_0.png'],2009_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1227,"C4. In quale delle seguenti frasi il verbo “avere” è usato come verbo ausiliare? A. Poiché ho molta fame, vado a mangiare. B. Visto che Luca aveva due sorelle, desiderava un fratellino. C. Poiché abbiamo perso la partita, la squadra è stata eliminata. D. Visto che abbiamo tempo, possiamo giocare ancora un po’.",C,multiple choice,1384.0,['item_1384_0.png'],2009_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1228,"C5. Nella frase «Sono contento di aver incontrato Gianni perché non lo vedevo da tanto tempo», la parola sottolineata è: A. articolo determinativo. B. pronome personale. C. congiunzione. D. preposizione.",B,multiple choice,1385.0,['item_1385_0.png'],2009_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1229,"C6. Quanti nomi comuni sono presenti nella frase: «Ivan è un ragazzo simpatico che abita nell’appartamento sotto il mio»? A. Uno. B. Due. C. Tre. D. Quattro.",B,multiple choice,1386.0,['item_1386_0.png'],2009_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1230,"C7. Quali sono i soggetti delle due frasi che compongono il periodo: «Ho comprato una rivista che si intitola Cani e gatti»? A. una rivista - che. B. io - che. C. io - Cani e gatti. D. una rivista - Cani e gatti.",B,multiple choice,1387.0,['item_1387_0.png'],2009_05_SNV_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,5.0,multipla 1231,"A1. Che cosa significa “oltremodo corpulento” (riga 2)? A. Decisamente obeso. B. Privo di finezza. C. Smodato nel bere e nel mangiare. D. Che si ammala facilmente.",A,multiple choice,1393.0,['item_1393_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1232,"A2. “L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto” (riga 3): qual è la causa probabile del malore del conte Fossadoro? A. L’età avanzata B. Un embolo cerebrale. C. Gli eccessi alimentari. D. Problemi respiratori.",C,multiple choice,1394.0,['item_1394_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1233,"A3. Con quale espressione sostituiresti “di riflesso” (riga 9) A. Nonostante ciò. B. Di conseguenza. C. Notoriamente. D. In teoria.",B,multiple choice,1395.0,['item_1395_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1234,"A4. Nel periodo “L’illustre dottore giunse al palazzo verso le due accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti” (righe 11-12), che valore ha la frase “anzi sostenuto”? A. Contraddice quanto espresso prima. B. Indica un fatto precedente a quello espresso prima. C. Corregge ironicamente quanto espresso prima. D. Ribadisce con forza quanto espresso prima.",C,multiple choice,1396.0,['item_1396_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1235,"A5. Con quale espressione sostituiresti “Come” nella frase “Come il sommo entrò nella camera” (riga 13)? A. Siccome. B. Nel modo in cui. C. Quando. D. Finché.",C,multiple choice,1397.0,['item_1397_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1236,"A6. «Il Leprani ascoltava senza fare una piega» (riga 17). Quale aggettivo può sostituire l’espressione “senza fare una piega”? A. Impassibile B. Incuriosito. C. Rigido. D. Annoiato.",A,multiple choice,1398.0,['item_1398_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1237,"A7. Nel periodo “Come il Marasca, primo assistente del maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie” (righe 30-31), perché la parola resurrezione è messa tra virgolette? A. Si vuole metterla in risalto. B. Non è considerata appropriata. C. Non è usata nel suo significato letterale. D. È una citazione tratta da un discorso.",C,multiple choice,1399.0,['item_1399_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1238,"A8. Qual è la “cosa gravissima” (riga 36” che sta succedendo secondo il professor Marasca? A. Lo scandalo che scoppierebbe se la gente sapesse che il conte non è malato bensì ha esagerato nel mangiare nel ber. B. L’ostinazione della contessa Fossadoro che non vuole fidarsi dei suoi consigli e si rifiuta di credere che il marito debba mettersi a letto. C. La difficoltà a formulare una diagnosi corretta sulla malattia del conte Fossadoro da parte del professo Leprani. D. La contraddizione per lui inspiegabile tra la diagnosi del professor Leprani e la guarigione del conte Fossadoro.",D,multiple choice,1400.0,['item_1400_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1239,"A9. Perché Marasca insiste a voler convincere la contessa che il conte Fossadoro deve mettersi a letto? A. Perché si fida ciecamente del professor Leprani, il quale non ha mai sbagliato diagnosi. B. Per difendere la reputazione del professor Leprani e di ù conseguenza la propria carriera. C. Per evitare coinvolgere il conte e la contessa Fossadoro in uno scandalo. D. Perché è convinto che il conte sia gravemente malato nonostante sembri guarito.",B,multiple choice,1401.0,['item_1401_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1240,"A10. Che cosa indicano i puntini di sospensione all’interno del discorso del professor Marasca (righe 46 e 48)? A. Il pensiero sottinteso, non detto del professo Marasca. B. La rabbia trattenuta del professor Marasca. C. Le parole del professor Marasca che la contessa non riesce a sentire. D. Il rispetto del professor Marasca verso la contessa.",A,multiple choice,1402.0,['item_1402_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1241,"A11. Per quale motivo Fossadoro viene definito “terribile” (riga 67)? A. Per la sua severità di giudice. B. Per il carattere irascibile e testardo. C. Per la smodatezza nel mangiare e nel bere. D. Per la sua ostinazione a restare in vita.",D,multiple choice,1403.0,['item_1403_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1242,"A12. A che cosa è dovuta la morte di Fossadoro? A. All’avvelenamento del suo cibo. B. Alle cure mediche sbagliate. C. A una cena molto abbondante. D. A un boccone andato di traverso.",A,multiple choice,1404.0,['item_1404_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1243,"A13. Alla fine del racconto il Marasca, congratulandosi con il professor Leprani, gli vuole far capire che... A. la malattia ha fatto il suo corso. B. il suo prestigio è salvo. C. il conte è morto senza soffrire. D. le cure suggerite erano appropriate.",B,multiple choice,1405.0,['item_1405_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1244,"A14. Quale personaggio ha un ruolo fondamentale nella conclusione della vicenda? A. Il professor Leprani. B. Il conte Fossadoro. C. Il professor Marasca. D. Il cuoco di casa Fossadoro.",C,multiple choice,1406.0,['item_1406_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1245,"A15. Qual è la durata della vicenda? A. Otto giorni. B. Circa due settimane. C. Circa un mese. D. Un tempo imprecisato.",B,multiple choice,1407.0,['item_1407_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1246,"A16. Come si può definire il racconto? A. Poliziesco. B. Fantastico C. Psicologico-introspettivo D. Umoristico-grottesco.",D,multiple choice,1408.0,['item_1408_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1247,"A17. Quale tra le seguenti frasi è la più adatta a sintetizzare il racconto? A. Una moglie tenta senza alcun successo di difendere il marito da un dottore in malafede. B. Un illustre medico dimostra l’esattezza della sua diagnosi nonostante molti gli dessero torto. C. Un assistente non si fa nessuno scrupolo pur di difendere la fama del suo professore. D. Un paziente, non fidandosi dei suoi dottori, trasforma una semplice indigestione in una malattia mortale.",C,multiple choice,1409.0,['item_1409_0.png'],2009_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Il buon nome Il conte Attilio Fossadoro, di 74 anni, magistrato in pensione, signore oltremodo corpulento, una notte si sentì male forse per avere esagerato nel mangiare e nel bere. L’emerito magistrato si abbandonò di schianto sul letto, supino, a bocca aperta, e non rispondeva più a nessuno. Allora si pensò al peggio. La signora Eloisa telefonò al medico curante dottor Albrizzi. A mezzanotte e mezzo il dottore arrivò. Fu deciso di ricorrere al massimo luminare, al vecchio clinico di celebrità internazionale. A ottantatre anni suonati, il professore Sergio Leprani era sempre il più autorevole; e di riflesso il più caro. Non era però una spesaccia che potesse spaventare i Fossadoro. L’illustre dottore giunse al palazzo verso le ore due, accompagnato, anzi sostenuto, dal primo dei suoi assistenti, il professore Giuseppe Marasca. Come il sommo entrò nella camera, il letargo del Fossadoro sembrava essersi fatto ancora più greve; e l’ansimare più stentato. Sedette ai piedi del letto e lasciò fare al Marasca e all’Albrizzi, i quali gli comunicavano via via i dati: temperatura, cuore, pressione, riflessi, eccetera. Il Leprani ascoltava senza fare una piega. Dopo un consulto tra i medici l’Albrizzi, con le dovute cautele, comunicò il perentorio responso del grande Leprani: embolo cerebrale, prognosi infausta, nessuna speranza, al massimo ancora una settimana di vita. Quale non fu la stupefazione dell’Albrizzi il mattino dopo quando si ripresentò a palazzo Fossadoro per avere notizie. Ida, la governante, gli aprì la porta con un sorriso radioso: «Tutto bene, dottore, tutto benone! L’avevo sospettato fin dal primo momento, io, ma potevo forse parlare alla presenza di quei professoroni? Una solenne bevuta, nient’altro.» In quel momento comparve, gioviale, anche lui, il moribondo. «Grazie, sa, caro Albrizzi, di tutto il disturbo che stanotte si è preso per me. Mi dispiace proprio... Lo so, lo so, non sono cose che si dovrebbero fare alla mia età.» Stupefazione. Ma anche scandalo. Come il Marasca, primo assistente del Maestro, seppe dall’Albrizzi la “resurrezione” del Fossadoro, andò su tutte le furie: «È assurdo! È inaudito! Il professor Leprani non sbaglia mai, non può sbagliare! E ormai lui lo ha già dato pubblicamente per cadavere, il Fossadoro. Andrò io stesso a parlare con la contessa.» Il Marasca, intrepido arrampicatore universitario, parlò chiaro a donna Eloisa: «Qui sta succedendo una cosa gravissima, il professor Leprani ha sentenziato un esito mortale a breve termine e il paziente se ne va in giro per la casa come se niente fosse. Domeneddio, che disastro. Il prestigio di un clinico sommo, invidiatoci dall’estero, messo a repentaglio così! Non possiamo permetterlo assolutamente.» «Mi dia lei un consiglio, professore.» «Intanto, per prima cosa, persuadere il conte a mettersi a letto, fargli capire che è ammalato, gravemente ammalato.» «Ma se lui si sente bene!» «No, contessa, questa obiezione da lei non me l’aspettavo. Voglia considerare, mi permetta, anche il buon nome di casa Fossadoro... Se si venisse a sapere la verità, se l’ integerrimo magistrato, di illustre famiglia patrizia, diventasse lo zimbello della piazza... Un ubriacone senza freni!» «Professore, non le permetto…» «Scusi, contessa, ma non è più il caso di fare complimenti. Il professor Leprani deve essere salvato ad ogni costo. In fondo sarà una cosa semplice... Somministrare, ad esempio, i cibi adatti... Il conte suo marito, eh, eh, non si farà pregare...» «E la conclusione sarebbe?» «Il professore Leprani non può essere smentito da chicchessia. Ha detto una settimana. Tiriamogli pure il collo, alla sua diagnosi. Vede che in fondo anch’io sono comprensivo. Ma entro quindici giorni, i funerali.» A palazzo Fossadoro, dove il conte coi più ingegnosi pretesti (il freddo, il vento, la umidità, lo smog, un principio di raffreddore) veniva tenuto rinchiuso, urgevano le telefonate di circostanza. La diagnosi di Leprani aveva già fatto il giro della città. Telefonavano: le pompe funebri per la scelta della bara, la preparazione della salma e gli addobbi di rito; il medico comunale per il certificato di morte; il parroco, impaziente di somministrare l’estrema unzione; l’Istituto degli orfanelli per la rappresentanza ai funerali; il fioraio per le corone. E lui, il conte, sempre sano come un grillo. Al quattordicesimo giorno il professor Leprani cominciò a dar segni di agitazione. «Il terribile vecchio — domandava — ancora non si è deciso?» Col sangue agli occhi, nel pomeriggio, il professor Marasca si presentò al palazzo Fossadoro accompagnato da due giovani assistenti travestiti da cuochi; e prese possesso della cucina. Alla sera, grande pranzo familiare per l’onomastico di una nipotina. Tra gli invitati, anche l’implacabile Marasca. Lavoro, per la verità, eseguito a regola d’arte. Emozione e disturbo ridotti al minimo. Come, al dessert, inghiottì il primo boccone di torta, il conte Attilio Fossadoro restò stecchito, con ancora sulle labbra il beato sorriso di poco prima. Subito il Marasca telefonò al luminare: «Ancora una volta congratulazioni, Maestro. Or ora il conte ha cessato di vivere.» (Tratto e adattato da: D. Buzzati, Le notti difficili, A. Mondadori, Milano, 1971) ",8.0,multipla 1248,"B1. Che cosa dice l’autore della matematica e delle scienze? A. Sono i saperi più importanti nel mondo moderno B. Sono seconde per importanza alle conoscenze linguistiche. C. Sono l’elemento di successo nella società in rapida trasformazione. D. Sono il punto più debole dei lavoratori anziani.",B,multiple choice,1410.0,['item_1410_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1249,"B2. Con quale espressione potresti unire le due frasi che seguono (righe 6-10)? “[…] la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione.” “La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano”. A. Però. B. Anche se. C. Infatti. D. Eppure.",C,multiple choice,1411.0,['item_1411_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1250,"B3. Che cosa significa nel testo il termine “riciclare” (riga 9)? A. Collocare in un nuovo posto di lavoro. B. Sottoporre a colloqui di lavoro. C. Differenziare in base alle esperienze di lavoro. D. Allontanare dal posto di lavoro.",A,multiple choice,1412.0,['item_1412_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1251,"B4. Quando l’autore scrive “povero” italiano (riga 10), intende un italiano… A. con molte parole dialettali. B. grammaticalmente scorretto. C. parlato dai poveri. D. Con pochi vocaboli.",D,multiple choice,1413.0,['item_1413_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1252,"B5. Secondo l’autore occorre studiare prioritariamente l’inglese, ma non tralasciare il francese e lo spagnolo, anche perché queste due lingue… A. sono utili per i mercati dell’Est e del Sud. B. permettono di intraprendere la professione di interpreti. C. sono facili da imparare per un italiano. D. sono lingue parlate in tutte il mondo.",C,multiple choice,1414.0,['item_1414_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1253,"B6. Qual è, secondo l’autore, il modo migliore per imparare le lingue straniere? A. Trascorrere periodi all’estero. B. Leggere libri stranieri. C. Vedere film in versione originale. D. Vivere di sole lingue.",A,multiple choice,1415.0,['item_1415_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1254,"B7. Alla riga 31 la funzione di “Infatti” è quella di introdurre una frase che: A. fornisce un esempio di quanto detto prima. B. dimostra quanto detto in precedenza. C. conclude un ragionamento. D. contraddice l’affermazione precedente.",B,multiple choice,1416.0,['item_1416_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1255,"B8. Cosa intende l’autore per “virus” (riga 37)? A. Influenza passeggera. B. Gusto giovanile. C. Passione contagiosa. D. Pura fissazione.",C,multiple choice,1417.0,['item_1417_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1256,"B9. L’espressione “mobilità professionale” (righe 37-38) significa… A. spirito di iniziativa. B. interesse per il lavoro. C. “virus” dell’internazionalità. D. cambiamento del posto di lavoro.",D,multiple choice,1418.0,['item_1418_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1257,"B10. Secondo l’autore, come si può affrontare la “minaccia della disoccupazione tecnologica” (riga 44)? A. Impegnandosi a imparare per tutta la vita. B. Andando spesso all’estero. C. Essendo disponibili a svolgere lavori faticosi. D. Leggendo giornali internazionali.",A,multiple choice,1419.0,['item_1419_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1258,"B11. Che cosa indica il gerundio “viaggiando” nella riga 45? A. Lo scopo per cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità. B. La causa per cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità. C. Il modo in cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità. D. Il momento in cui si acquisisce il “virus” dell’internazionalità.",C,multiple choice,1420.0,['item_1420_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1259,"B12. Quale fra le seguenti frasi contiene la tesi di fondo dell’autore? A. Per rispondere alle sfide della società globale è utile che i giovani tengano a mente i consigli dei genitori, interpretandoli con senso critico e adattandoli alla propria realtà. B. Per avere successo nella società contemporanea è necessario saper comunicare in pubblico, scrivere bene, conoscere le lingue, sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità. C. Per imparare a leggere e scrivere bene è indispensabile leggere un giornale al giorno e un libro al mese, e per imparare a parlare bene occorre vivere esperienze di vita associativa. D. Contro la minaccia della disoccupazione tecnologica, i giovani devono apprendere sempre cose nuove, studiare bene molte lingue straniere e praticare uno sport di squadra.",B,multiple choice,1421.0,['item_1421_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1260,"B13. Qual è lo scopo principale del testo? A. Convincere ad andare a studiare all’estero. B. Consigliare quali studi intraprendere. C. Suggerire come trovare un posto fisso. D. Indicare come prepararsi alla società globale",D,multiple choice,1422.0,['item_1422_0.png'],2009_08_PN_B,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"Leggi questo testo e rispondi alle domande che lo seguono. Consigli per il domani ai giovani (e ai genitori) Per rispondere alle sfide della società globale è utile che giovani e meno giovani, figli e genitori, tengano a mente i consigli che seguono, interpretandoli naturalmente con senso critico e adattandoli alle proprie realtà (ognuna diversa dalle altre). Imparare a leggere e scrivere bene Se la matematica e la cultura scientifica sono importanti, la capacità di esprimersi con un ricco e articolato vocabolario sta diventando il primo elemento di successo nelle società in rapida trasformazione. La maggiore difficoltà che si incontra nel “riciclare” lavoratori anziani o nel formare lavoratori giovani è il loro “povero” italiano. È indispensabile la lettura di almeno un giornale al giorno e almeno un libro al mese per conoscere i fatti e imparare almeno 30.000 vocaboli al posto dei soliti 3.000 della televisione. Una buona conoscenza della lingua madre è la base per altre due funzioni importantissime per la vita e il lavoro: comunicare in pubblico e scrivere una relazione, un articolo, una richiesta di lavoro. Per comunicare in pubblico sono utili tutte le esperienze di vita associativa, dallo sport di squadra al movimento studentesco, dalla politica alla filodrammatica, mentre per scrivere una buona relazione occorre solo avere letto molto e provato a scriverne, talvolta. Imparare le lingue Subito dopo una buona conoscenza della lingua madre, l’inglese è oggi lo strumento determinante per comunicare con il resto del mondo. Niente di strano, ieri il francese era la lingua internazionale e l’altro ieri il latino e il greco. Il francese o lo spagnolo non andrebbero trascurati, non fosse altro perché richiedono (ad un italiano) un impegno relativamente minore per essere appresi, mentre molto utili per i nuovi mercati dell’Est e del Sud sono il tedesco, il russo, il cinese, l’arabo. Utilizzare le vacanze estive per viaggi di lavoro e di formazione all’estero è il modo migliore per esercitarsi nelle lingue. Si ricordi però che mentre le lingue diventano più importanti nella società globale, vivere di sole lingue è sempre più difficile. Infatti se è vero che la domanda di interpreti aumenta, è pur vero che aumenta anche l’offerta, e soprattutto la concorrenza di interpreti di paesi meno ricchi e che possono costare meno. Sviluppare la cultura dell’internazionalità e della mobilità Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L'interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica. Quanto al “virus” dell’internazionalità lo si acquisisce sia viaggiando fisicamente - per studio, lavoro o turismo - sia viaggiando con la fantasia - ad esempio leggendo giornali internazionali, vedendo film in versione originale, leggendo libri stranieri. (Tratto e adattato da: N. Cacace, Oltre il 2000, Franco Angeli, Milano, 1993) ",8.0,multipla 1261,"C1. Quale segno di punteggiatura è sbagliato nel seguente periodo? Dario rispose alla zia: “Per ora non ho ancora preso una decisione definitiva, sulla scuola che frequenterò l’anno prossimo”. A. I due punti. B. Le virgolette. C. La virgola. D. Il punto.",C,multiple choice,1423.0,['item_1423_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1262,"C2. In uno dei seguenti gruppi è presente un elemento che non gli appartiene. In quale? A. Pronomi indefiniti: molti, qualche, nulla, questo. B. Pronomi dimostrativi: coloro, colui, codesto, quello. C. Pronomi personali: io, lui, esso, sé. D. Pronomi relativi: che, cui, nel quale, da cui.",A,multiple choice,1424.0,['item_1424_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1263,"C3. In quale delle seguenti frasi c’è un verbo passivo? A. Non sono per nulla soddisfatto della gara. B. Questa estate non sono andato al mare. C. Quest’anno non sono cresciuto molto. D. Non sono sempre aiutato dai miei genitori.",D,multiple choice,1425.0,['item_1425_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1264,"C4. Nel periodo «Se studiassi meglio, avrei voti più alti!», il verbo “studiassi” è coniugato al: A. condizionale passato. B. congiuntivo imperfetto. C. congiuntivo passato. D. condizionale presente.",B,multiple choice,1426.0,['item_1426_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1265,"C5. Quale di queste frasi contiene un complemento di modo? A. Bisogna aspettare con pazienza. B. Raggiunsi la villa con la macchina. C. Esco con un ombrello. D. Con questo tempaccio è meglio non uscire.",A,multiple choice,1427.0,['item_1427_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1266,"C6. Quale dei seguenti periodi è formato da una frase principale e una frase subordinata? A. Piove e c’è il sole! B. Piove ma c’è il sole. C. C’è il sole, eppure piove! D. Sebbene piova, c’è il sole.",D,multiple choice,1428.0,['item_1428_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1267,"C7. In quale dei seguenti periodi c’è una frase subordinata temporale? A. Ti ho appena detto che oggi l’autobus era in anticipo. B. Ho perso l’autobus perché questa mattina mi sono svegliato tardi. C. Mentre compravo il biglietto, ho visto passare l’autobus. D. Pur avendo perso l’autobus, sono arrivato a scuola in orario.",C,multiple choice,1429.0,['item_1429_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1268,"C8. Come potresti sostituire “visto che” nel periodo: «Sarebbe meglio tornare a casa, visto che sta calando la notte»? A. Affinché. B. Poiché. C. Anche se. D. Prima che.",B,multiple choice,1430.0,['item_1430_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1269,"C9. Con quale delle seguenti congiunzioni potresti unire le due frasi: “Il gatto insegue il topo” - “è un predatore”? A. Anche se. B. Ma. C. Perché. D. Affinché.",C,multiple choice,1431.0,['item_1431_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1270,"C10. «Forse Giovanni non è la persona che credevo». Questo enunciato ha la funzione di formulare: A. una dichiarazione. B. un’ipotesi. C. una conseguenza. D. un’argomentazione.",B,multiple choice,1432.0,['item_1432_0.png'],2009_08_PN_C,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,,8.0,multipla 1271,"A1. La volpe, mentre aspetta paziente, che cosa pensa del riccio? A. Si comporta in modo maldestro B. È un animale molto stupido C. Si comporta in modo provocatorio D. È un animale molto cauto",D,multiple choice,1433.0,['item_1433_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1272,"A4. Perché il riccio quando esce dalla tana si guarda intorno circospetto (riga 8)? A. Ha paura della luce del giorno. B. Tende un tranello alla volpe. C. Teme i pericoli all’esterno. D. È appena uscito dal letargo.",C,multiple choice,1436.0,['item_1436_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1273,"A5. Che riflessioni fa la volpe dopo il primo tentativo di catturare il riccio? A. È decisamente meglio cambiare tattica. B. Il comportamento del riccio era molto prevedibile C. Ci sono forti dubbi sulla riuscita dell’impresa D. È meglio lasciar perdere vista la reazione del riccio",A,multiple choice,1437.0,['item_1437_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1274,"A6. Se dovessi inserire una parola per collegare le due frasi seguenti : “Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa “ e “La volpe lancia un urlo di sorpresa..” (righe 15-16), quale metteresti? A. Infatti. B. Ed ecco che. C. Per di più. D. Invece.",B,multiple choice,1438.0,['item_1438_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1275,"A7. Nella frase: “Deve avere una carne prelibata...” (riga 18) da quale espressione può essere sostituito il verbo deve? A. È necessario che abbia. B. È obbligatorio che abbia. C. È eventualmente possibile che abbia. D. È molto probabile che abbia.",D,multiple choice,1439.0,['item_1439_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1276,"A8. Quale tra i seguenti aggettivi può sostituire sottile (riga 22) nel significato che ha nel testo detto di artifici, trucchi ed espedienti? A. Originale. B. Efficace C. Astuto. D. Intraprendente.",C,multiple choice,1440.0,['item_1440_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1277,"A9. Nella frase “Eppure ogni volta il riccio si appallottola…” (riga 24) quale termine corrisponde al significato di eppure e può sostituirlo? A. Dunque. B. Ma. C. Ebbene. D. Poi.",B,multiple choice,1441.0,['item_1441_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1278,"A10. Come si può rendere con altre parole l’espressione “così appallottolato” (riga 24)? A. Dato che si è appallottolato come si era detto. B. Nonostante si sia appallottolato in modo particolare. C. Nel caso in cui si sia appallottolato come si era detto. D. Tanto più che si è appallottolato in modo particolare.",A,multiple choice,1442.0,['item_1442_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla 1279,"A12. Come sostituiresti il termine “dopotutto” all’inizio della riga 25? A. Dopo tutto questo tempo. B. Dopo tutti questi sforzi. C. Tutto considerato. D. Malgrado tutto",C,multiple choice,1444.0,['item_1444_0.png'],2008_08_PN_A,5.0,.\done_extractions_workable\test_images_ita_joiner,1.0,"LA VOLPE E IL RICCIO Mimì la volpe dal pelo rosso si è appostata dietro un cespuglio di more. Ha sentito un lieve tramestìo sottoterra, poi anche quel rumore è cessato. La sua preda deve avere intuito il pericolo, qualcosa deve averla insospettita. Mimì la volpe si mimetizza, si finge morta e aspetta. Nemmeno respira. Sa che la sua preda appena si sentirà sicura verrà fuori dal nascondiglio e bisogna lasciarle tutto il tempo che le occorre per muoversi. Il tempo passa. Dopo una lunga paziente attesa appare all’imboccatura della tana un riccio. Deve attraversare uno spazio brevissimo per infilarsi in un altro cunicolo buio più avanti ma si guarda intorno circospetto, esamina il terreno, si ritrae di nuovo nella tana, riemerge esitando. Che animale prudente, che animale compunto, pensa la volpe. Razza nostrana di roditori da sottobosco che non amano camminare allo scoperto. Preferisce i suoi tortuosi labirinti sotterranei, anche a costo di scavarseli con le unghie e coi denti. Avrà le sue buone ragioni per evitare di mostrarsi alla luce del sole, comunque non lo invidio. Intanto il riccio si è deciso, eccolo finalmente all’aperto. Sembra appena uscito dal letargo, è goffo, lento, impacciato. Mimì la volpe fa un bel balzo e zac! Ma il riccio in un attimo si è trasformato in una palla spinosa. La volpe lancia un urlo di sorpresa e di dolore e con la bocca sanguinante si allontana. Che strano animale! - pensa la volpe senza darsi per vinta. Deve avere una carne prelibata se la natura gliela protegge così bene. Sarà molto meglio della carne di una talpa o di quella di un uccello. Come mi piacerebbe assaggiarla per sapere che sapore ha! E fiduciosa delle proprie risorse Mimì la volpe dal pelo rosso escogita e mette in atto mille artifici, trucchi, espedienti, uno più ingegnoso e sottile dell’altro, per catturare il riccio e divorarlo. Eppure ogni volta il riccio si appallottola e così appallottolato risulta imprendibile. Dopotutto un riccio non vale tanto spreco di trovate e neppure tanta ostinazione, dice a se stessa la volpe per consolarsi. E stanca degli innumerevoli, inutili stratagemmi che si concludono sempre allo stesso modo, decide di lasciarlo perdere, quell’ottuso animale. (tratto da: Raffaele La Capria, Fiori giapponesi, Milano, Mondadori, 1989, pp. 91-92) ",8.0,multipla